School Times – Otto anni di giornalismo scolastico on line

Liceo Scientifico Statale Giuseppe Berto di Vibo Valentia

Noi dello

School Times

Otto anni di giornalismo scolastico on line

2003 – 2010

A cura di Vittoria Saccà

2003 2004 2005 2006 2007  2008 2009

 

www.alboscuole.it/schooltimes

 

                                                            

Nell’anno scolastico 2003/ 2004, il Liceo Berto ha inserito lo School Times tra i suoi progetti, entrando a far parte della rete nazionale di giornalismo scolastico on line gestita dall’associazione “Alboscuole”, presieduta da Ettore Cristiani.

Dal 26 ottobre 2003, data che ha dato inizio ad una straordinaria avventura, ad oggi, sono stati pubblicati quasi 2.000 articoli (1.716 alla data di marzo 2010). A cimentarsi con la parola scritta sono stati tutti gli studenti che hanno frequentato il Liceo scientifico e che, soprattutto, hanno scelto liberamente di farlo.

Ognuno di loro ha avuto l’opportunità di vestirsi dei panni del giornalista, dello scrittore, del pensatore, del poeta. E il risultato è stato gratificante.

Vincitori del premio nazionale di Alboscuole ogni anno, i giovani redattori hanno avuto le loro piccole ma grandi soddisfazioni.

In questi ultimi tempi, ho riletto gli articoli pubblicati on line. E’ stato un tuffo in un recente passato che mi ha regalato momenti di forti emozioni, perché ad ogni articolo ho rivisto i volti dei giovani studenti ed ho ripercorso nella mia memoria molti e molti giorni vissuti insieme a loro.

Li ho ricordati uno ad uno. Molti hanno lasciato il Liceo da alcuni anni, come Paola Fusca, Anna Maria Galati, Serena Mazzeo o Emanuele Sorrentino che ha dato alla scuola la prima bella soddisfazione di essere vincitori del premio nazionale giornalista per un giorno! Chissà se lui, come ognuno dei miei giovani giornalisti, ha potuto realizzare il suo sogno! Altri sono ancora tra i banchi di scuola all’ultimo anno, come Anna Bartalotta, Michele Restuccia, MariaLa Bella, Marzia Mancuso. Tutti! Sono tutti presenti nella mia mente!

Essere responsabile del giornale scolastico è stata per me un’esperienza indimenticabile perché, grazie alla formula scelta, ovvero di far partecipare al giornale l’intera scolaresca liceale, ho potuto allargare il mio rapporto di docente oltre a quello con le classi curriculari dove ho insegnato Materie Letterarie.

Ringrazio, dunque, il Dirigente Fiorenzo Restuccia per aver creduto nel progetto dello School Times, parimenti il Dirigente Giuseppe Carrà che ha permesso la sua continuazione.

Un grazie a tutti i colleghi che mi hanno supportato nel progetto e in particolare Nicola Cutuli, Teresa Simonetti, Rosa Maria Cantafio, Caterina Ferro e Carla Castagna. Ma ringrazio soprattutto i tantissimi studenti che mi hanno seguito con rispetto e affetto in questa avventura. Mi scuso con molti di loro se, in questo volume, non si son potuti pubblicare i loro articoli. Impossibile dare alle stampe oltre 1700 articoli, ma che, comunque, sono e resteranno sempre on line.

Il volume “Noi dello School Times” raccoglie solo alcuni lavori, in ordine cronologico, dal 2003 fino al 2010, al solo scopo di dare visibilità cartacea a quanto, ancora, viene pubblicato sul web ed è visibile sul sito www.alboscuole.it/schooltimes.

Prof.ssa Vittoria Saccà

  

 

LICEO SCIENTIFICO “GIUSEPPE BERTO” 

VIBO VALENTIA

Giornale d’Istituto

SCHOOL TIMES

www.alboscuole.it/schooltimes

G. BERTO   – Liceo scientifico   statale   C.DA BITONTO   89900 – VIBO VALENTIA (VV) tel. 0963591961     fax. 0963591833   liceoscientificoberto@virgilio.it   vittoriasacca@libero.it   sito web   Dirigente scolastico: Prof. Fiorenzo Restuccia     Docente responsabile: Prof.ssa Vittoria Saccà     Direttore amm.vo: Vincenzo Tripodi    

 

Scrivere per comunicare

26 ottobre 2003 Leggere..leggere, sempre leggere!

Siete divoratori di libri o di giornali? Leggete a tal punto che preferireste perdere la vista piuttosto che staccarvi da un buon libro? Dite la verità: che vi prende quando qualcuno vi regala un libro o entrate in una libreria? Analizziamo alcuni casi: vi sentite esaltati? Allora appartenete a quella minima e privilegiata parte di ragazzi che ama tanto la lettura da dedicarvi ogni giorno più di due ore. La cosa vi incuriosisce ma non vi appassiona? Siete quelli che organizzano la loro giornata facendo calcoli precisi “Finiti i compiti guardo la tv, esco…..ma sì, se mi resta un po’ di tempo leggo il libro che ho iniziato l’altro ieri. E come ultima ed angosciante ipotesi: trovarvi davanti un libro, libreria o biblioteca, vi sconvolge e vi fa star male? Allora siete ragazzi che leggono poco, anzi pochissimo, forse per niente. Da tempo sentiamo ripetere che i giovani leggono sempre meno, ma è davvero così? Oggi diventa sempre più difficile leggere: da una parte sembra che le immagini del teleschermo sostituiscano l’immobilità delle parole scritte e dall’altra manca il tempo, lo stimolo e l’abitudine di prendere un libro. La lettura ha bisogno di silenzio e di concentrazione, per consentire un “colloquio” tra lettore ed autore. La pagina scritta, a differenza dell’immagine, si può ripercorrere scegliendo che cosa leggere e cosa tralasciare. Se la trama del libro ci prende, scopriamo che è un modo per restare in compagnia di se stessi, ci dà il tempo di meditare, di associare descrizioni, personaggi e situazioni fornitici dallo scrittore ad elementi della vita. Per cui il lettore è un soggetto attivo rispetto allo spettatore che si limita a guardare meccanicamente delle immagini che passano sullo schermo e non può tornare indietro per approfondire qualcosa che lo ha colpito. La lettura diventa un passatempo, un mezzo d’evasione e siamo noi giovani a scegliere il genere di libro che ci piace di più. Esistono, infatti, oltre a letture obbligate, letture liberamente scelte che corrispondono alle nostre esigenze, ai nostri gusti: romanzi gialli, di fantascienza, d’avventura, d’attualità, di horror e tanti altri. Perciò, scegliamo un buon libro e cerchiamo di non perdere questo importante appuntamento con la lettura, che è indubbiamente un’ottima compagnia e uno strumento indispensabile per la nostra formazione culturale e sviluppo della nostra personalità. I diritti del lettore secondo Daniel Pennac: 1- Il diritto di non leggere. 2- Il diritto di saltare le pagine. 3- Il diritto di non finire un libro. 4- Il diritto di rileggere. 5- Il diritto di leggere qualsiasi cosa. 6- Il diritto al bovarismo. 7- Il diritto di leggere ovunque. 8- Il diritto di spizzicare. 9- Il diritto di leggere a voce alta. 10- Il diritto di tacere.

Silvia Picerno


1 novembre 2003
Mistery

666. Chissà quante volte sarà capitato di notare questo numero su qualche muro per strada senza saperne il significato. E’ il simbolo dell’Anticristo, del diavolo. Questa cifra compariva sulle pareti del tempietto sconsacrato dedicato a S. Antonio di Padova a Lodi. Tutti gli accessi alla “chiesa maledetta” sono stati ricoperti da una gittata di cemento dopo che varie segnalazioni di rumori notturni, luci e voci inspiegabili avevano costretto i carabinieri ad effettuare dei controlli. Ed è qui che è stata trovata appesa al soffitto una bambola col viso macchiato di rosso, ceri dei cimiteri, tracce di ossa bruciate di animali e resti umani dissepolti. Tutto ad opera di qualche setta satanica. In Italia ne esistono 9, con più di 200 adepti. E molte prendono spunto dalla “Chiesa di Satana” di Anton SzandorLa Vey. Fondatain America, l’associazione si è rivelata una setta criminale, implicata in casi di abusi sui minori e violenze sessuali.La Veyha pubblicato “ The Satanic Bible”, una bibbia che non tollera le persone che permettono a se stesse di essere stupide. Molte delle sue dichiarazioni hanno ispirato i più pericolosi ed efferrati serial killer. Tra questi Charles Manson, colui che fondò a San Francisco una setta pseudo- religiosa, composta da delinquenti e sbandati. Il membro di maggior spicco della “famiglia”si rivelò Susan Atkins. Fu lei che, nella notte del 19 agosto 1969, penetrò, insieme ad altri quattro uomini, nella villa californiana del regista Roman Polanski e uccise otto persone, tra cui la giovanissima moglie all’ottavo mese di gravidanza. Tutto sotto gli occhi esaltati del “santone” Manson. Un’altra setta satanica rivelatasi tra le più feroci fu quella di Costanzo, scoperta in Messico nel 1989. Quando la polizia entrò nel Rancho Santa Elene si trovò davanti muri imbrattati di scritte, pezzi di cervello dentro una pentola, il guscio di una tartaruga immerso nel sangue rappreso, ossa umane e una colonna vertebrale. Un mese prima della macabra scoperta, uno studente in vacanza era stato rapito dai seguaci di Adolfo de Jesus Costanzo e portato in quel luogo, dove dodici ore più tardi venne ucciso a colpi di machete e orrendamente mutilato. Gli scavi attorno alla baracca portarono alla luce altri tredici cadaveri, su cui gli adepti avevano infierito con vari oggetti. Il capobanda, uno spacciatore di droga tra i più potenti della zona, è stato catturato un mese dopo mentre bolliva in un grande calderone quello che restava dei suoi ex complici, che aveva fatto appena trucidare. Ma quanto c’entra il culto del demonio con il crimine? Per gli psicologi ben poco: è solo una comoda scusa per giustificare i comportamenti paranoici di assassini privi di pietà. Sta di fatto che ormai troppi ragazzi vengono influenzati dall’occulto. Per curiosità si partecipa a qualche seduta spiritica, si resta affascinati da ciò che è proibito. E’ il caso di Sean Sellers, sedicenne di Oklahoma city che per gioco praticava riti sacrificali sulle bambole. Finchè, nel 1985, uscì di casa tranquillo e assassinò a sangue freddo con tre colpi di fucile un impiegato di un grande magazzino. Più tardi uccise anche la madre e il patrigno nel sonno. Il giorno prima aveva consegnato al suo insegnante un tema che cominciava così: “ Guarda il crocifisso, che cosa rappresenta? Una pallida incapacità che pende da un albero”. Era una citazione del “The Satanic Bible”. Anche il mondo della musica è a volte commesso con il mondo di Satana. Basti pensare al look spettrale di Marilyn Manson, o ad Alice Cooper che col viso imbrattato di sangue finto si presentava avvolto tra le spire di un pitone. Una volta tentò di suicidarsi durante un concerto. Ma fu Ozzy Osbourne, leader dei Black Sabbath, a sgominare la concorrenza. Sul palco cadde un pipistrello da chissà dove. Lui lo raccolse e gli staccò la testa con un morso, ingoiandola. Il gruppo “vanta” anche il suicidio di alcuni fans, ispirati da una sua canzone. Con il male non si scherza…

Romyna Crupi


1 novembre 2003
Vivere da giovani si può? Forse si.

Che bello essere giovani, essere liberi, che bello poter vivere senza pesi e impegni familiari. Dietro tutte queste enfatiche bellezze, che la gioventù racchiude, vi sono problemi molto seri che fino ad ora nessuno ha mai affrontato, ma ha sempre cercato di evitarli. Precetti, valori: Tutto perso! Perso dietro ai vizi, dietro alle illusioni. I grandi sottovalutano questi momenti così importanti: nessuno di noi giovani ha valori, precetti, ha basi su cui fondare la propria vita. Dai dati emersi dai grandi sondaggi dell’ ISTAT c’è da rabbrividire: dal 1998 al 2002 il tasso di ragazzi che si accostano alla droga è aumentato di quasi il 25%, facendo così salire il picco di giovani drogati in Italia a un dato del 90%, mai registrato prima d’ora. Beh, forse molti dei miei coetanei si domandano cosa sia veramente la droga, posso solo dire che la droga è un modo come un altro per scavalcare le difficoltà che si presentano sul nostro cammino. Si cade nel giro della droga quando non si riesce a creare da giovani, nel proprio profondo, idee sane e principi validi per non vacillare di fronte ai problemi. Un’altra piaga del mondo giovanile è, senza ombra di dubbio, l’alcool; un problema relativamente nuovo che è emerso nel 1999 quando, nei pressi di New York, si trovò una bisca clandestina in cui alcuni ragazzi consumavano e spacciavano alcolici. Il traffico di queste bevande proibite si diffuse fino in Europa, da dove partirono le prime indagini che rivelarono che il 35% dei giovani fa un regolare consumo di alcolici. Che sia giusto o no, i giovani di questo nuovo millennio hanno accantonato tutti i loro valori per seguire una vita statica e senza sogni. Le varietà di droghe esistenti sulla Terra stanno saccheggiando la vita del suo frutto migliore: i giovani. Forse, in questo momento così delicato, il nostro male si sta sottovalutando perché il business sta drogando anche il mondo degli adulti con una sostanza molto pericolosa che piano-piano sta uccidendo tutta l’umanità… Come si può vivere senza affrontare i problemi? Forse l’unica arma per combattere questi mali è la nostra voglia di vivere, la nostra speranza. Sconfiggeremo i problemi che oscurano la nostra vita quando riusciremo a distruggere i falsi dogmi che i mas-media ci iniettano a dosi, ogni giorno, come un veleno. Allora sì, saremo uomini.

Andrea Rizzo

2 novembre 2003 L’interpretazione dei sogni  

Ogni notte, nel sonno, gli uomini vivono strane e misteriose avventure: i sogni. A volte sono piacevoli ed esaltanti, altre volte sfavorevoli e tristi, la maggior parte di essi vengono in breve dimenticati e raramente è possibile rendere chiaro il significato. Da secoli l’uomo cerca di comprendere, spiegare, interpretare i sogni. Un tempo per la loro particolarità ed apparente incomprensibilità, venivano visti come messaggi soprannaturali e l’interpretazione era riservata soltanto a pochi “iniziati”. Gli indiani del Gran Chaco e alcune tribù della Guinea credevano che l’anima vivesse una doppia vita, fosse trascinata dal sogno in luoghi lontani e possedesse autonomia e giudizi propri. Per questo era necessario dipingere il viso del sognatore, in modo che alla fine del viaggio fantastico l’anima potesse rientrarvi senza problemi; in caso contrario l’anima avrebbe per sempre abbandonato il corpo, provocando la morte dell’individuo. Ancora oggi molti popoli credono nella verità di questa teoria. Nel Medioevo, il periodo dei diavoli, delle streghe e delle superstizioni, l’incubo era visto come demone libidinoso che di notte visitava le donne violentandole contro la loro volontà. La figura più importante e rivoluzionaria nello studio e nell’interpretazione dei sogni fu Sigmund Freud. Egli fu il primo ad introdurre la psicanalisi, con la teoria dell’inconscio, “l’inconscio – diceva – guida i nostri gesti, i pensieri, ci trascina in un mondo lontano in cui le regole della vita reale non hanno più senso”. Secondo questa teoria, la nostra mente, liberata dalle rigide rotaie della ragione, ci comunica il “contenuto latente”, ossia ciò che non vogliamo o non sappiamo di sapere e che, durante il giorno viene bloccato dal filtro della nostra coscienza. Freud credeva che molto di ciò che sogniamo non è assolutamente qualcosa di mai vissuto, al contrario, è il ricordo di esperienze fatte o luoghi visti anche soltanto un attimo che fuoriesce dal profondo, ritornando in superficie. Inoltre sosteneva come fattori esterni ed interni possano condizionare le visioni notturne. Ad esempio, si può sognare di essere al cospetto di una grande cascata sentendo nel sonno delle gocce d’acqua battere sul lavello; oppure sognare d’aver perso una gamba, se durante il sonno si avverte un leggero dolore al piede. La cosa evidente è che tutti i fenomeni che influenzano il sogno stesso vengono vissuti in maniera amplificata. Un’altra questione dibattuta oggi riguarda la realizzazione di alcuni sogni detti “premonitori”. Alcuni studiosi asseriscono che ogni notte sogniamo mediamente più di un’ora, per cui i sogni premonitori non sono altro che pure coincidenze. Jung sosteneva che, come da svegli i nostri pensieri si intrattengono spesso sul futuro o sul passato, così, in maniera del tutto simile si comportano l’inconscio e i suoi sogni; da qui deriverebbe quella che noi chiamiamo premonizione. L’interpretazione dei sogni rimane una scienza inesatta, ma i sogni sono una sicura fonte di scoperte e rivelazioni. E’ così che il sogno, spesso assurdo e non privo di contraddizioni, vissuto in questo universo parallelo e misterioso dove non esistono i concetti di gravità, tempo, spazio, ci fornisce, seppur in forme oniriche, rappresentazioni del passato, del futuro e di noi stessi.

Francesca Guzzo

 

 9 novembre 2003 Le Brigate Rosse

Gli omicidi e le stragi a sfondo politico alla fine degli anni settanta hanno dato la prova dell’esistenza di organizzazioni terroristiche capaci di colpire qualsiasi livello della società e qualsiasi luogo della nazione. E’ il caso delle Brigate Rosse, oggi conosciute indistintamente sia con il nome di N.C.C. (nuclei comunisti combattenti) che di N.T.A. (nuclei antimperialisti combattenti), presenti soprattutto in Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte. Gli elementi di questi gruppi armati vivono una doppia vita: di giorno sono comuni lavoratori, magari impiegati statali, medici, figli di professionisti; di notte lavorano nel buio pervasi dall’ideale della rivoluzione delle masse lavoratrici. Poi in un giorno come gli altri entrano in azione, con assoluta freddezza si trasformano in spietati killer. Così sull’asfalto della strada, percorsa chissà quante volte, restano senza vita i corpi di gente comune che fino ad allora aveva tentato di svolgere i propri compiti nel miglior modo possibile, per se stessi, per lo Stato, per la famiglia che lasciavano a casa nella più triste solitudine. Da trent’anni a questa parte le BR non sono cambiate molto, come non sono cambiati i loro obiettivi, la volontà di destabilizzare un Paese con la pura forza del terrore e del ricatto. Eppure dopo anni di infuocate battaglie la situazione sembrava cambiata, le nuove condizioni avevano forse affievolito il fervore combattivo e le nuove generazioni avevano sperato di non dover temere. Le speranze si erano infrante quel 20 maggio 1999 sulla via Salaria a Roma, dove Massimo D’Antona, un docente universitario, pagava con la vita la stretta collaborazione con i Ministeri del lavoro e della funzione pubblica. Un atto che era destinato a ripetersi il 23 marzo di due anni dopo, questa volta alle spese di Marco Biagi, altro conosciuto professore della Facoltà di Economia e commercio all’università di Modena, che da tempo s’impegnava per la riforma del mercato del lavoro e il cambiamento dell’articolo18 dello Statuto dei lavoratori. Entrambi gli omicidi, prontamente rivendicati, erano destinati a rimanere impuniti se un giorno le indagini della polizia non avessero portato ad un controllo di “individui sospetti” sul treno in cui perdevano la vita un agente ferroviario e il suo assassino e veniva arrestata la sua complice, l’ormai famosa Nadia “Desdemona” Lioce. Dopo tanto lavoro le forze dell’ordine sono riuscite anche ad individuare altri membri dello stesso nucleo. L’arresto di sei persone è stato plaudito da tutte le cariche dello Stato e gli sviluppi di quest’ultima vicenda riecheggiano tutt’ora sulle testate giornalistiche, alla piccola vittoria però si aggiunge la consapevolezza che la guerra non è ancora finita. A questo si aggiunge poi il sentimento d’insicurezza generale, il timore che le estreme manifestazioni di violenza e intolleranza riprendano vigore. Una paura che le vicende internazionali ed i recenti conflitti certo non mitigano, ma che deve essere sconfitta dall’unione e dalla collaborazione, in onore di coloro che per queste sono caduti. La democrazia va difesa con il dialogo, a noi spetta trovare la forza per spezzare le catene della politica del terrore.

Emanuele Sorrentino


14 novembre 2003 In punta di … Pennac

In punta di … Pennac. Identikit di un estroverso professore di lettere (Daniel Pennac) col pallino del romanzo. Introdurre un articolo di giornale è sempre difficile, soprattutto se ciò che si descrive è parte di se stessi, ma se chiedessimo a Daniel (possiamo chiamarlo per nome) di farlo, riceveremmo questa breve, ma esauriente risposta: “Voilà l’histoire de Daniel P.” (Ecco la storia di Daniel P.) . Non aggiungerebbe altro, giustificandosi con la sua solita filosofia dell’autore-avanzo: “l’autore è ciò che resta di un libro, perché interessarsi agli avanzi…” Questo inizio scherzoso, apparentemente senza significato, è l’unico sistema per entrare in una dimensione mentale capace di comprendere questo estroverso personaggio. E voi, professori retorici e adulti folli, voltate pagina, perché rimarreste solo delusi e, forse, adirati, nel leggere queste righe. Non si parla di un letterato accademico, di un pedagogista famoso, ma di un bambino, che non è mai diventato adulto perché non esiste la maturità: gli adulti, a suo dire, non fanno altro che mascherare il loro essere bambini; cos’altro, se no. E di questo bambino, non racchiudibile in nessuna corrente letteraria per la sua caratteristica narrazione fuori dagli schemi, simile solo a un mago della narrativa quale Calvino, e che ora fa l’insegnante per convincere gli altri bambini della bellezza della letteratura, dell’importanza di non mascherare mai il loro essere, c’è molto da dire. A cominciare dal fatto che è diventato prima scrittore e poi docente, soffermandosi su un’infanzia e un’adolescenza caratterizzate da innumerevoli viaggi, da Casablanca (suo luogo di nascita) a Parigi, da anni di prigione in collegio, da brutti voti al liceo, da una voglia innata di scrivere per poter raccontare storie a se stesso, fino ad arrivare alla lista delle sue opere, interminabile, fortunatamente. Chi, infatti, non ha mai sentito parlare del signor Malaussène, professione: capro espriatorio, di Kamo, di Belleville, dei diritti del lettore (il diritto di non leggere, il diritto di saltare le pagine, il diritto di non finire un libro, il diritto al bovarismo, il diritto di spizzicare leggendo, il diritto di tacere, …). La sua produzione ha svariato in tutti i campi dell’immaginazione, con un filone comune che è stato quello del destinatario: il bambino e l’adolescente. Si parte dalle saghe, già citate, di Malaussène e Kamo, per finire allo straordinario saggio sulla letteratura “Come un romanzo” e ad altri romanzi distaccati, ma sempre inerenti al tema dei ragazzi, quali “L’occhio del lupo”, “Abbaiare stanca”, “Signori bambini”, che hanno insegnato con ironia ai lettori, piccoli lettori, cos’è il razzismo, l’emarginazione sociale, l’ecologia, il sottile legame tra realtà e fantasia. Nel2001, aPennac, è stato anche consegnato il premio Grinzane-Cavour “Una vita per la letteratura”, proprio per questo suo particolare interesse al romanzo e, soprattutto, per un metodo divulgativo che, fino adesso, nessuno era riuscito a mettere in pratica. Lo straordinario delle sue opere consiste proprio in questo metodo divulgativo, fatto dello stesso linguaggio dei ragazzi, dello stesso modo di fare, pensare, di un nuovo modo di vedere la cultura. Leggere un suo libro vuol dire capire che essere bambini è bello e che gli adulti dovrebbero imparare a essere un po’ più matti e meno folli. “Immaginazione non significa menzogna” faceva dire a un professore di liceo, Crastaing, in una delle sue storie; apprendiamo, quindi, l’arte di immaginare non distaccandoci dalla realtà, di vedere in modo ottimistico le cose che viviamo e sentiamo quotidianamente. Concludendo, è impossibile carpire un unico messaggio in tutta la sua produzione letteraria, “Se un romanzo fa trasparire un unico valore – sostava in un’intervista – non si tratta più di un romanzo, ma di un saggio travestito da romanzo”. L’unico modo per scoprire il segreto di Pennac è leggere un suo libro, qualunque sia, ma attenzione: non riuscirete mai e poi mai a trasmetterlo ad altri, è “il compromesso del Lettore”… Termino qua, con un saluto e con una frase da ricordare, se ci si vuole interessare a questa strana filosofia: “Non sappiate niente, ma abbiate una risposta a tutto.”

Vincenzino Pugliese

22 novembre 2003E’ ora di riflettere !

L’undici settembre 2001, il dodici novembre 2003, e chissà quale altra data, ci porterà all’immediato pensiero del terrorismo….. Le bombe, i kamikaze, non distinguono divise, né colori di bandiere. Le guerre non leggono negli animi e negli intenti degli uomini e a dimostrarcelo purtroppo è stato l’ultimo attentato a Nassiriya che ha toccato profondamente la nostra Nazione. Ora, giustamente, ci preoccupa che il terrorismo possa arrivare nelle nostre case, perché la morte è entrata a far parte della nostra vita quotidiana e non la registriamo più solo sui teleschermi. Chi ci dice che le scelte fatte dalla politica internazionale siano giuste? Quale sicurezza ci danno i capi di stato, pronti a cambiare le leggi a loro piacimento? Nessuno ci può mettere al sicuro perché il terrorismo è una “mina vagante” ed è imprevedibile ed inquieto. Essere amici degli altri Stati non significa per forza condividere ogni loro scelta; i leader mondiali non possono progettare operazioni di civilizzazione o di pace ricorrendo alle armi, perché dovrebbero tenere in grande conto che poi sotto le bombe e le macerie ci sono uomini, donne e soprattutto bambini. Sulle bare non si specula e le bare non devono essere uno scudo per mettersi al riparo dalle critiche, le bare di quelle persone che hanno perso la vita per colpa di coloro che dicono di credere in un Dio che accetta i sacrifici umani; esse devono essere la fonte di riflessioni sulle ragioni della guerra e sull’urgente bisogno di “PACE”. Qualunque sia il nostro pensiero, ci dobbiamo impegnare a costruire e poi a difendere un ordine mondiale dei diritti di tutti i cittadini del mondo o la paura non ci lascerà mai.

Raffaella Belfiore


30 novembre 2003
Per diventare un bravo giornalista

Per diventare un bravo giornalista ed essere, quindi, in grado di elaborare buoni articoli, bisogna tenere presente alcune regole fondamentali. Gli elementi indispensabili per la composizione di un buon articolo sono senza dubbio le idee: queste devono essere fresche, importanti e rilevanti. E’ necessario, perciò, documentarsi sull’argomento scelto, andando alla ricerca di qualsiasi informazione, anche dei dettagli, sfruttando tutte le fonti a disposizione: biblioteche, internet, ecc. che dovranno essere citate nell’articolo, tranne nel caso in cui il giornalista scrive di un evento che ha vissuto in prima persona, in questo caso dovrà, quindi, esprimersi in qualità di testimone diretto. Molto importante è, poi, condurre un gioco di squadra: collaborare con altri giornalisti per scegliere l’idea migliore, scomporla, ricomporla, meditarla, per poi frammentarla nuovamente al fine di “scavare” all’interno di essa per conoscere tutti i suoi aspetti. A questo punto è necessario compiere il passo fondamentale: scrivere!!! E’ importante farlo con uno stile efficace e diretto ma soprattutto scorrevole. Un buon giornalista si distingue per la sua capacità di sintetizzare, riportare esclusivamente le notizie più importanti e di maggiore interesse. Bisogna, infatti, tenere sempre presente ciò che si aspetta il lettore, ossia l’essenza del racconto. Efficace è, tra l’altro, chiudere l’articolo con un episodio o con una frase accattivante e piacevole. Ora è necessario rileggere, eliminare particolari e note superflue senza, però, deformare il succo della storia; si deve porre grande attenzione agli errori, spesso frutto di pigrizia, velocità di esecuzione, imprudenza o presunzione. La correttezza di un articolo risiede anche nell’imparzialità: il giornalista deve mettere da parte il suo punto di vista e limitarsi ad esporre gli eventi in modo estremamente oggettivo, a meno che, naturalmente, non sia il caso di un editoriale o di un articolo di opinione. Il compito finale, ma forse il più importante, è quello del caporedattore: egli non si deve limitare ad accertarsi che le parole siano corrette e il linguaggio sia appropriato, ma deve anche controllare che la storia non sia lacunosa, troppo lunga o poco chiara.

Loredana Tambuscio

18 gennaio 2004 Donare un sorriso significa pensare alla vita

Cari ragazzi, mentre ogni giorno ci apprestiamo a celebrare le nostre festività, a consumare i nostri gustosi pranzi, a comprare quello che più ci piace, in molti paesi del mondo infuria la guerra e numerosi altri stentano a riprendersi dalle conseguenze dei conflitti recenti. Mi riferisco a molti luoghi noti come Iraq, Congo, Cecenia, Burundi e tantissimi altri luoghi ormai dimenticati. Quando è in corso un conflitto, la prima causa di mortalità sono le più banali malattie causate dal collasso delle strutture sanitarie e dalla carenza di igiene, e la cosa più raccapricciante è che tanti e tanti bambini continuano a pagare l’ingiusto prezzo della guerra. In molti paesi guerra vuol dire anche fame; durante un conflitto l’acqua diventa spesso il bene più prezioso, in assenza del quale si è esposti a ogni genere di infezioni. Nei villaggi e nei campi profughi, nel corso di battaglie, le più semplici medicine possono essere introvabili. In ognuno di questi luoghi, ciascuna vita invoca aiuto: è un’emergenza! Se solo quando siamo felici pensassimo che c’è qualcuno che non sorride da molto, troppo tempo, credetemi perderemmo il gusto di ridere. Forse, pur volendo, non potremmo difendere le vittime della guerra, ma almeno lottiamo per la pace! Questo è il modo migliore per fare qualcosa di concreto per un mondo migliore. Io ci credo in questa battaglia; forse sarà atavica, ma vale la pena continuare a combatterla. Aiutiamo la gente in guerra, adoperiamoci in modo che ci possa essere più gente felice sulla terra; chissà che anche noi non vivremo meglio, in questo mondo così contorto.

Ester De Marco

 


25 gennaio 2004
Emergency: medici di guerra inviati in pace.

Si tratta di un’associazione nata a Milano fondata da Gino Strada e vi fanno parte medici, paramedici, farmacisti che danno il loro aiuto nei luoghi devastati dalle guerre. Era all’inizio composta da pochi membri, ma fino ad oggi ha salvato milioni di vite; è quindi impegnata attivamente in: Cambogia, Sierra Leone, Iraq, Afganistan mentre le intenzioni sono quelle di poter gestire reparti ortopedici di alcuni ospedali come in Brasile e Palestina. Altre volte gli interventi di Emergency sono realizzati in situazioni di emergenza per periodi di tempo brevi, in condizioni di particolare drammaticità e prevedono il supporto ad altri ospedali del luogo con l’invio di personale specializzato, farmaci e strumentario come è avvenuto, per esempio, in Eritrea, Algeria e Ruanda. Il loro compito è quello di portare assistenza medico-chirurgica alle vittime dei conflitti armati, dare attuazione dei diritti umani per chi soffre le conseguenze sociali di guerra, fame, povertà, emarginazione. Decide il suo intervento basandosi sull’effettiva necessità di personale specializzato e sulla scarsità o mancanza di altri interventi analoghi nel paese. Costruisce e gestisce centri sanitari per l’assistenza medica di base, posti di primo soccorso per il trattamento immediato, ospedali per i feriti di guerra e per le emergenze chirurgiche, centri di riabilitazione fisica e sociale delle vittime delle mine antiuomo e di altri traumi di guerra. Forma il personale locale, realizza progetti di sviluppo nei paesi in cui opera. Parallelamente all’attività all’estero Emergency promuove una serie di iniziative volte a informare sulla cultura della pace e della solidarietà. Dall’inizio delle sue attività si sta battendo infatti per la sensibilizzazione attraverso seminari, conferenze pubbliche, interventi televisivi, nelle scuole e sulla stampa, partecipazione a diverse manifestazioni, sulla necessità di cessare il fuoco nei conflitti armati e di firmare la pace, e sulla messa al bando della produzione italiana di mine antiuomo. L’attività culturale si avvale anche della pubblicazione di libri, del trimestrale giornale di Emergency, che viene fornito gratuitamente a tutti i donatori, ma anche mostre ecc…. I volontari presenti in ogni regione di Italia organizzano “banchetti” dove poter tesserarsi e trovare materiale informativo (libri, report, depliant) e gadget per la raccolta di fondi; come si è potuto capire non è un’associazione finanziata dallo Stato ma vive con le grandi e piccole offerte dei donatori. Tutto ciò permette all’associazione di poter esprimere il proprio parere autonomamente sulle guerre e sulle questioni internazionali; Gino Strada è diventato, infatti, il simbolo del pacifismo, pronto a sostenere, come lui stesso dimostra, il dialogo con i “signori” della guerra in qualsiasi momento. Come dice Vauro, il noto vignettista che ha abbracciato con grande passione la causa di Emergency, queste sono le vere ambasciate della parte sana dell’Occidente, sono persone che rappresentano pienamente e coerentemente quei messaggi di pace e di fratellanza che altri si limitano a sbandierare con vane parole, contraddette dai fatti. Sono loro che raccolgono tutto ciò che gli altri hanno distrutto e che cercano di rendere migliore il mondo in cui viviamo.

Giada Arena

6 febbraio 2004 Chi difende i bambini?

L’aspirazione di tutti gli uomini, dopo quella alla sopravvivenza e al rispetto dei più elementari diritti umani, è quella ad un lavoro degno. La strada da percorrere perché a tutti sia garantita questa possibilità passa necessariamente per una visione più ampia di sviluppo: non esiste sviluppo economico senza sviluppo sociale; non esiste sviluppo sociale senza equità. E’ precisamente questo che significa “economia globale”; questa apre enormi possibilità all’umanità, ma oggi a goderne è solo una minima parte del pianeta. Infatti, per milioni di bambini, donne e uomini, l’economia globale ha solo il volto dello sfruttamento, della povertà, della fatica. Ecco perché, in quei paesi dove milioni di bambini lavoratori ogni giorno sono sfruttati ed esposti a pericoli di ogni sorta e privati del diritto all’istruzione, è fondamentale che ci sia un grande sviluppo economico e sociale. Schiavitù, piantagioni, cave, industrie, raccolta di rifiuti e, in fondo a tutto, il crimine dello sfruttamento sessuale: ecco in questo momento le prospettive per un bambino su quattro nei paesi poveri. Ma anche nei Paesi del Nord del mondo e negli ex Paesi socialisti i bambini sono sottoposti a gravi forme di sfruttamento. Basti pensare alla situazione dell’Italia, con migliaia di bambini sfruttati e spesso coinvolti in attività criminali. La condizione dei minori, quindi è stata da sempre turbata, diventando una problematica al centro dell’interesse comune. Solo nel secolo scorso, nell’Europa molti bambini venivano mandati nelle miniere, dove guadagnavano a stento il denaro per il loro sostentamento a rischio della propria vita. Ma se in Europa con gli anni la situazione è cambiata, non lo è in gran parte del mondo. Come nelle realtà dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, dove si trova la più alta concentrazione di violazioni dei diritti dell’infanzia: bambini e ragazzi assoldati come mercenari, circondati da un clima di forte instabilità politica e militare, colpiti dalla miseria più assoluta (come nelle favelas sudamericane) e costretti al lavoro nelle fabbriche. Alla radice della tragedia stanno la povertà delle famiglie, delle comunità e dei Paesi, l’analfabetismo che danno origine ad un circolo vizioso fatto di fatica, malattie, malnutrizione e morte. Lo sfruttamento infantile riassume tutte le miserie ed è uno dei termometri della condizione sociale di un Paese. Ecco, infatti, delinearsi per ogni regione una sua storia: in Asia la condizione dei piccoli schiavi per debiti, costretti a lavori estenuanti sia dal punto di vista psicologico che fisico, l’elevata concentrazione di prostituzione infantile e l’alto numero di bambini soldato, reclutati forzatamente, da organizzazioni sia governative che da gruppi paramilitari. L’Africa, poi, che si distingue per la sua grande povertà, porta molti bambini a dover lavorare nell’agricoltura e nell’allevamento, senza poter neanche pensare di accedere al livello più basso di istruzione, e fa proliferare il traffico di minori verso mete per lo più europee, tra cui compare la stessa Italia; senza aver preso in considerazione il tristissimo numero di bambini-soldato, che vengono addestrati già in tenera età per poi essere armati e lanciati allo sbaraglio. Come non parlare, quindi, dell’America Latina, nella quale spicca la condizione disastrata del Brasile, diviso, da una parte tra i pochi grandi proprietari terrieri e, dall’altra tra i milioni di poveri che vivono a stento nelle città e nelle campagne; qui un numero impressionante di “giovani uomini” lavora le terre per le coltivazioni altrui, spesso senza paga e coinvolto in narcotraffici. Tragicamente famose sono le città sudamericane per il turismo del sesso. Ma, come già detto, la situazione tragica dei minori non si ferma ai paesi poveri, ma dilaga anche nelle regioni più ricche, negli stessi Stati Uniti, in Europa dove prolifera il traffico di ragazze e bambine nell’ambito pornografico e della prostituzione. La tutela dei diritti dell’infanzia richiede uno sforzo speciale, soprattutto ad opera delle grandi organizzazioni mondiali e non solo. Occorre un impegno di tutti e a tutti i livelli affinché vengano assicurati ai bambini i diritti fondamentali: istruzione, alimentazione, salute.

Andrea Milone


2 ottobre 2004
Chi sono gli eroi di oggi?

Semplicemente dando un’ occhiata a tutto ciò che ci sta intorno, vediamo che la società è cambiata, ha mutato il suo modo di essere e di pensare, si è evoluta ed ha sviluppato le sue conoscenze in tutti i campi e, di conseguenza a questo, sono cambiati anche i miti e gli eroi. Nella civiltà dei popoli antichi i miti erano i vari dei, e gli eroi erano persone che compivano, spesso con l’ aiuto degli stessi dei, azioni ed opere molto dure. Ad esempio, nella civiltà Mesopotamica, come si racconta in un poema epico, l’eroe era un giovane re di Uruk, Gilgamesh, che compì azioni difficili e girò il mondo alla ricerca dell’immortalità ostacolato dagli dei e accompagnato dal suo amico Enkidu. Un altro importante esempio si può trovare nella civiltà greca. Infatti i greci pensavano che sul monte più alto di Atene, l’Olimpo, si trovasse la casa degli dei. Gli eroi di questa civiltà, sono per lo più personaggi dei poemi scritti dal poeta Omero, quali Achille, un importante guerriero che combatté nella guerra di Troia e Ulisse al quale si attribuisce l’idea del cavallo di legno che sconfisse i troiani e che, dopo la guerra, navigò nel Mediterraneo alla ricerca della sua patria. Ma via via che la civiltà si è evoluta, anche i miti e gli eroi sono cambiati, basta vedere i miti e gli eroi che abbiamo noi giovani di oggi, miti tra cui calciatori, cantanti e attori, ed eroi quali quelli dei fumetti, dei film e dei cartoni animati. I veri eroi di oggi, però, non sono questi, ma tutti gli uomini che danno la loro vita a favore del loro popolo e combattono per i loro ideali, ostacolati da tantissime difficoltà che si aggiungono alla loro opera di pace e da persone che non capiscono le loro intuizioni. Dalle pagine della storia, che si evolve continuamente, emergono figure particolari che veramente hanno saputo dare tutta la loro vita per i propri ideali e che sono diventati dei simboli per tutti quelli che credono nella giustizia e nella legalità. Ad esempio, Gandhi, che ha lottato per la libertà del popolo indiano, Martin Luter King, che ha dato la sua vita per i diritti del popolo nero in America, madre Teresa di Calcutta che ha affascinato particolarmente il mondo perché ha dedicato la sua vita ai più poveri con semplicità e amore. Anche ai nostri giorni si possono avere molti di questi punti di riferimento, basti pensare a tutte quelle persone, quali medici, volontari della croce rossa e tanti altri che lottano ogni giorno per portare un po’ di sollievo alle persone che soffrono. Sono questi gli eroi, perché annullano l’egoismo umano per trasformare la loro vita in un inno d’amore verso il prossimo.

Maria Assunta Bruzzano


15 marzo 2005
Il ponte sullo stretto di Messina

Il ponte sullo stretto di Messina è un’opera progettata da diversi anni, esattamente dal 1971, ma solo nel 2003 sono stati inviati i documenti relativi, per il consenso alla costruzione dell’opera, all’Unione Europea e alle Istituzioni Internazionali della Tutela dell’Ambiente che diedero risultati favorevoli. Il ponte consiste in una campata unica lunga 3300 metri e rappresenta il ponte più lungo del mondo. Esso è costituito da tre cassoni di cui due laterali per la piattaforma stradale ed uno centrale per la piattaforma ferroviaria. La sezione stradale dell’impalcato è composta da tre corsie per ogni carreggiata, due corsie di marcia ed una di emergenza ciascuna di3,75 metri, mentre la sezione ferroviaria è composta da due binari con due marciapiedi laterali. L’altezza delle due torri di sostegno è stata fissata a382,60 metri, al fine di consentire fino ad un’altezza di65 metrila navigazione; è stata inoltre abbassata di11 metrila quota di attacco alla terra in Sicilia, con elevati benefici per l’impatto ambientale. Il sistema di sospensione del ponte è formato da due coppie di cavi di acciaio, ciascuno del diametro di1,24 metrie con una lunghezza totale, compresi gli ancoraggi, pari a5300 metri. Il ponte sospeso a campata unica è in grado di resistere senza danni ad un sisma corrispondente al grado 7,1 della scala Richter, che significherebbe un sisma più severo del devastante terremoto che colpì Sicilia e Calabria nel 1908 e di affrontare, grazie alle sue caratteristiche aerodinamiche, venti con velocità superiore a216 Km/h. Le tecnologie costruttive previste utilizzano tecniche e materiali consolidati e lungamente sperimentati in questo moderno settore dell’ingegneria. Molto rilevante è il ricorso ai processi di prefabbricazione in stabilimento i quali offrono migliori garanzie di qualità, controllo dei tempi di esecuzione e la minimizzazione dell’impatto sull’ambiente. Secondo le versioni di coloro che sono favorevoli alla costruzione del ponte sullo stretto, la sua realizzazione determina ricadute positive per l’economia e per il turismo. Il turismo avrà un sensibile aumento delle presenze, una volta entrata in funzione l’opera, dovuta alla migliore accessibilità verso le mete turistiche siciliane. Anche l’esistenza del “manufatto” può divenire essa stessa un’importante attrattore turistico. Per quanto riguarda l’economia si avranno già i primi benefici ad inizio costruzione, visto e considerato che le ditte appaltatrice del lavoro di quasi 6 miliardi di euro sono americane e perciò vi saranno i primi incassi per l’alloggio degli operai specializzati in tali opere; per poi avere un influsso positivo una volta finita l’opera. Coloro che invece sono contrari, ritengono la costruzione del ponte un grave danno soprattutto per l’ambiente e sostengono, tra l’altro, che si potevano usare i fondi destinati alla sua realizzazione a ben altre opere, più necessarie.

Antonio Matina

18 dicembre 2005 –  Mitologia e religione

Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra, ha sempre sentito il bisogno di credere in un Essere soprannaturale a cui rivolgersi e su cui fare affidamento nel corso della propria esistenza. Da questo bisogno sono scaturite, nel corso dei secoli, le varie religioni, popolate di divinità a ciascuna delle quali veniva accostata ogni attività umana e ogni qualità propria dell’uomo stesso. Così, per esempio, nella mitologia greca, Atena era considerata la dea della sapienza, Afrodite la dea dell’amore, Ares il dio della guerra, Zeus il padre di tutti gli uomini e di tutti gli dei. Pertanto i Greci, a seconda della propria necessità, si rivolgevano alla divinità specifica, offrendo ad essa sacrifici e vittime. Il Cristianesimo, invece, è una religione monoteista che riconosce come essere supremo un solo Dio. Accanto a Dio, però anche i Cristiani hanno altri riferimenti, rappresentati dai Santi, ai quali ognuno si rivolge per ottenere favori e grazie. Così San Giuseppe viene considerato protettore dei lavoratori, Santa Anna protettrice delle partorienti, Santa Barbara preserva dai fulmini e dai tuoni, San Michele allontana le tentazioni del demonio, San Francesco di Paola protegge i marinai e la gente di mare. Queste figure, però, non rappresentano divinità vere e proprie, come nella mitologia classica, ma costituiscono, per i credenti, esempi su cui modellare la propria vita e i propri comportamenti. Ognuno di noi, infatti, porta nel cuore un Santo a cui si affida durante la sua giornata affinché lo aiuti e lo espiri a vivere secondo le regole che la nostra religione ci indica. Federico Arcuri

21 dicembre 2005 – La cellula impazzisce, il nemico è in agguato: il cancro!

Diverse e distinte sono le cause che provocano il cancro. “Che cos’è il cancro?” Ad una domanda del genere gli studiosi fanno fatica a dare una risposta precisa. Per usare una metafora nella definizione della malattia, si può dire che ad un certo punto una cellula dell’organismo “impazzisce” e comincia a moltiplicarsi al di fuori di ogni regola. A causa di questo “guasto” si ha una sovrapproduzione di cellule insane, per questo le cellule sane finiscono per essere soppiantate. I fattori che generano il cancro sono innumerevoli. Sappiamo ormai, con buona certezza, che il cancro si origina da un accumulo di mutazioni, che determinano alterazioni dei geni che regolano la proliferazione e la sopravvivenza delle cellule. Ma nella stragrande maggioranza dei tumori, le alterazioni dei geni, che sono responsabili della malattia, sono determinate da cause ambientali, e sono provocate dall’esposizione prolungata ad agenti cancerogeni di origine chimica, fisica o virale. Tuttavia gli agenti cancerogeni, come per esempio il fumo di sigaretta, alcune sostanze sviluppate dalla combustione del petrolio o del carbonio, una dieta non equilibrata, i raggi ultravioletti del sole, le sostanze chimiche a cui possono essere sottoposti i lavoratori in certi processi industriali o in agricoltura, possono sommarsi ad una ”fragilità” genetica predeterminata e arrivare a provocare delle mutazioni che non si riscontrano in altri individui. La vita di tutti i giorni ci porta a contatto con centinaia di diverse sostanze chimiche che, in determinate circostanze, sono in grado di provocare il cancro o delle quali si sospetta una potenziale pericolosità. Dal 1981 esiste una direttiva della Commissione europea in base alla quale bisogna fare i test di tossicità per ogni sostanza messa sul mercato da quella data (si escludono, quindi, le migliaia di sostanze in commercio prima di allora). Nel 2003 è stata avanzata una proposta europea per catalogare tutte le sostanze e obbligare tutte le aziende che le commercializzano ad eseguire i test di tossicità. Purtroppo è ancora solo una proposta!! Tra le migliaia di sostanze in discussione troviamo vari pesticidi, che sono la causa di alcune forme tumorali, quali leucemie, linfomi e tumori della pelle; farmaci, magari utilizzati contro tumori, che si sono rivelati a loro volta cancerogeni; solventi e coloranti, soprattutto a base di benzene (presente anche nel fumo di sigaretta e nella benzina), per il quale è stata dimostrata l’azione cancerogena; diossine che sono contaminanti ambientali molto diffusi; idrocarburi policiclici aromatici, che si formano dalla combustione di prodotti a base di carbone, contenuti anche nel fumo di sigaretta e che provocano tumori a polmoni, pelle e vie urinarie; metalli come per esempio berillio, cadmio, cromo, nichel, che sarebbero responsabili del cancro al polmone; aflatossine, sostanze prodotte da funghi che infestano le derrate alimentari, in particolare le farine, e che potrebbero provocare il cancro al fegato. Altre sostanze per le quali è dimostrata un’azione cancerogena sono: l’amianto, l’arsenico e il radon. Nel caso dell’amianto (vietato dal1990 inItalia), impiegato su larga scala nell’industria edile, tessile, automobilistica, è dimostrato che l’esposizione continua a questo materiale fa aumentare il rischio di mesotelioma, una rara forma di tumore polmonare. L’arsenico è un metallo presente in alcuni fiumi, soprattutto in Cina e Sud America, e si è constatato che l’eccessivo consumo di acqua inquinata da tale metallo, provoca molte forme di cancro alla pelle, al polmone, alla vescica, al fegato e ai reni. Il radon è un gas radioattivo presente in alcuni tipi di rocce e che si forma per rottura spontanea dell’uranio-238; può raggiungere concentrazioni elevate anche in alcune abitazioni, in cui penetrerebbe dai suoli circostanti attraverso piccole crepe nelle fondamenta; questo metallo provoca una frequenza elevata di cancro al polmone anche perché, a sua volta, il radon decade in altri isotopi radioattivi, il polonio-214 e il polonio-218. Questi, a differenza degli atomi del radon, sono atomi di solidi e aderiscono facilmente alle polveri dell’aria e del fumo. Cosi, quando li inaliamo respirando, si depositano nell’apparato respiratorio e possono causare danni con le radiazioni emesse quando anch’essi decadono. In Italia si sono riscontrati valori medi più alti in Lombardia, Lazio, Friuli e Campania, e valori più bassi in Basilicata, Calabria, Liguria e Marche. Molte altre sostanze che ci circondano e che non conosciamo, hanno probabilmente un effetto cancerogeno. Gli studi condotti dagli scienziati per riuscire a capire un po’ meglio eventuali rapporti tra ambiente e cancro sono condotti su animali (in particolare ratti o topi) o su colture di cellule umane. Queste indagini richiedono però costi molto elevati e per questo vengono limitate solo ad alcune sostanze molto diffuse nell’ambiente e che possono interessare un gran numero di persone. Se viene stabilita l’azione cancerogena di una sostanza, viene poi fissato un valore limite per la sua concentrazione nell’ambiente. Dimostrare, però, la cancerogenicità di una sostanza non è cosa facile e, comunque, non bisogna dimenticare che l’esposizione ad un fattore cancerogeno è solo uno dei tanti elementi che determina il rischio di insorgenza di un tumore, perché molto dipende dalle nostre errate abitudini quotidiane.

Chiara Casuscelli – Maria Ruggiero – Elisa Fuscà

19 gennaio 2006 – Ma cs m dc?

Il mondo sta cambiando e la società lo stesso, noi ci adattiamo alle nuove tendenze e mutiamo il nostro stile come dei camaleonti che si adattano a tutti i colori. Cambiano anche le cose più naturali come il modo di parlare e di esprimersi, con l’uso di neologismi e termini stranieri. Ma sapete qual è il campo più avanzato e che non intende fermare la sua metamorfosi? E’ il linguaggio dei messaggini elettronici, gli sms, digitati a velocità impressionante e spediti nel tempo di un secondo. In uno spazio minimo di 150 caratteri si possono dire un sacco di cose, utilizzando le opportune abbreviazioni e espressioni miste di numeri e lettere. Ad esempio provate a leggere questo estratto di sms: “ Ciao! Gg a sqla mate pg172, ita pg23. cn ing nn abb fatto nada. Sbt comp di lat. Cmq t mando 1kiss, tvttb!!” Per chi non ha dimestichezza con gli sms diventa un’impresa immane interpretare questo rigo, però molti ne sono ormai avvezzi. Ecco un altro esempio: “ Qnd arrivo t fcc 1 sql! Xkè nn porti ql tuo libro? Qst mio è brtt!” Si è ormai passati dall’antico “perché” al neofuturistico “xkè” o come altri lo scrivono “xk’”. Questo discorso vale per moltissime altre parole, forse il campo più colpito è quello delle preposizioni semplici e degli aggettivi dimostrativi: x, dll, qll, qst, d, cn, tr, fr… per scrivere in questo modo non occorre alcuno studio o particolare licenza, più che altro bisogna sempre pensare di cercare di dire tante cose in poco spazio! Anzi, forse una piccola regola esiste: eliminare il più possibile le vocali o, addirittura, troncare a metà le parole! Così facendo diventa definitivamente impossibile interpretare un testo sms perché ad esso si possono attribuire molti significati o, in casi estremi, non è per niente comprensibile. Ad esempio, se doveste interpretare una cosa del tipo “Sn vnt”, cosa direste? A primo impatto niente, è indecifrabile o qualcuno vi sta prendendo in giro, ma pensandoci su potrebbe significare “Sono venuta”. Sono molti i casi simili a questo, in cui servirebbe un piccolo vocabolario Sms-Italiano per riuscire con tanta buona volontà a capire cosa gli altri vogliono dirci. Per ora (per fortuna!) questo modo di scrivere solo e unicamente relegato all’ambito della comunicazione elettronica. Riuscireste a immaginare l’espressione di un prof alla vista di un compito interamente scritto in stile sms? Solo il suo volto sarebbe carino pensare, per il resto il voto è scontato, sarà di sicuro un numero compreso fra zero e quattro! Alcune fonti certe confermano questi dati, state sicuri che anche un minuscolo “xke” o un innocuo “ke” provocano una reazione istintiva nei prof che armati di penne multicolore faranno dei veri e propri capolavori sui vostri compiti! Scherzi a parte, almeno per i testi formali, sarebbe meglio scrivere in modo corretto, possibilmente con l’aiuto di un buon libro di grammatica a fianco. La lingua italiana si ritroverebbe disintegrata se fusa con lo stile sms. A tale proposito è necessario ascoltare coloro che con tanta pazienza ci incitano a scrivere correttamente e a comporre testi, solo così infatti è possibile parlare bene e farsi capire alla perfezione. Bè, k dire d +? Alla prox!!

Paola Fusca

21 gennaio 2006 Interrotta l’armoniosa danza della natura

Alle soglie del terzo millennio l’uomo è ancora l’indiscussa minaccia per la sopravvivenza ambientale e animale. Primo pomeriggio d’estate. Un’afa insopportabile si leva per le strade della città. Un’auto sta sfrecciando, si dirige verso la tangenziale: causa ignota. Apparentemente sembra non voglia fermare la propria corsa, sembra voglia fuggire da qualcosa, sembra determinata, sebbene stia fuggendo. Ma da cosa sta scappando? Da chi? Neanche il tempo materiale per cercare eventuali risposte. L’auto accosta; il conducente, scendendo, apre una portiera, scarica qualcosa e, senza esitazioni, riparte a tutta velocità. Una rapida messa a fuoco ed ecco che si distingue chiaramente la sagoma di un cane abbandonato sul ciglio della strada. Abbiamo appena assistito ad una delle tante scene d’abbandono. Uno degli atti più ignobili e codardi che l’uomo è in grado di compiere. All’inizio di ogni estate centinaia di cani si ritrovano in autostrada, come ad un raduno di harley davidson, solo un po’ più triste e con meno alcool. Ma di certo la perfidia umana non si limita a queste azioni che ormai sono diventate di routine. Sempre che di perfidia si possa parlare. Qualche anno fa, quando Greanpeace (associazione per la salvaguardia dell’ambiente) lottava strenuamente per proteggere le lontre marine, specie ancora a rischio d’estinzione, un membro attivo aveva dichiarato che il problema della salvaguardia ambientale appariva insormontabile. Oltre alla dura lotta per salvare l’ecosistema, si stava combattendo contro la stupidità dell’uomo, non ancora in grado di distinguere il bene dal male. Arduo ostacolo da superare. Non tutti i lettori sanno che l’uomo è, tra tutte le specie viventi presenti sul pianeta, l’unico a non rispettare l’habitat in cui vive. L’unico in grado di uccidere i propri simili. Ogni specie animale stabilisce un certo rapporto di conformità con l’ambiente che la circonda; l’uomo non ci riesce, non rientra nelle proprie capacità ed è proprio uno strano caso del destino che le chiavi della conoscenza e del potere siano state consegnate ad una razza tanto irrispettosa. Da anni si tenta invano di cambiare qualcosa. Numerosi enti, addetti alla salvaguardia degli animali e del pianeta, si stanno movendo anche sul fronte internazionale, lanciando campagne di sensibilizzazione al problema. Scarsi risultati e pochi interessati. In anni non recenti si è persino scesi a manifestare nelle più importanti piazze nazionali contro i crimini atroci che l’uomo commette a discapito della razza animale. Uno su tutti la vivisezione. All’interno dei laboratori di medicina universitari e in appositi laboratori scientifici, si consumano orrendi delitti, che coinvolgono specialmente le razze canine e quelle dei roditori. Da anni viene usato come scusa il pretesto della ricerca scientifica, per salvaguardare la salute umana. Agli animali chiusi in minuscole gabbie, trascurati, come in un deposito merci, vengono somministrati farmaci sperimentali, che spesso portano alla morte. Associazioni animaliste comela L.A.V. (lega antivivisezione) ela L.I.D.A. (lega italiana per i diritti degli animali) stanno combattendo una battaglia che si protrae stancamente da ormai più di cinquant’anni. È ormai assodato che questi esperimenti sono inutili, in quanto l’organismo animale reagisce in maniera diversa ai farmaci rispetto a quello umano. Assurdo. L’unico riscontro positivo in questa situazione è il crescente numero di associazioni animaliste. Nascono per iniziativa volontaria e sono degne di essere menzionate, perché da anni si battono coraggiosamente per qualcosa che di certo non porta loro guadagni e senza mai ottenere nulla in cambio. L’ENPA (ente nazionale protezione animale) il WWF (fondo mondiale per la natura) la LIDA (lega italiana per i diritti degli animali) e altre precedentemente accennate. È chiaro che ormai quello a cui stiamo assistendo è un problema che ci riguarda in prima persona e non possiamo astenerci dal prendere una decisione.

Felice David

27 gennaio 2006 –  La Famiglia – l’unico “posto” sicuro

Esiste ancora la famiglia? Sicuramente non c’è più quella di una volta. La famiglia non è più al centro dell’attenzione ma sta passando in secondo piano. Dovrebbe essere la cosa più importante per una persona, quel pezzo di puzzle che completa l’individuo stesso. Dovrebbe essere il posto dove si trova serenità e felicità, invece sta diventando qualcosa di “estraneo”, le persone che la compongono a volte sono estranee tra di loro. E questo perché tutto è cambiato, i ritmi di vita sono cambiati. A volte, pur vivendo nella stessa casa, risulta difficile incontrarsi. La famiglia di un tempo era molto più protettiva, forse molto più chiusa di quella moderna. L’uomo lavorava e la donna stava a casa a badare ai figli e alla casa stessa. Oggi invece tutti lavorano, il dialogo è diminuito tantissimo; non si parla più, ognuno pensa ai fatti propri e non condivide con nessuno i pensieri. Un tempo la famiglia si basava su sani principi e valori ed ora anche questi sono stati messi da parte. La famiglia non è più unita come un tempo quando si faceva di tutto pur di non “spezzarla”. Basta un colpo di vento un po’ più forte e vola, si rompe e difficilmente si ricompone. Tutto va di fretta, sempre con l’orologio al polso a contare i minuti e poi correre di qua e di là. Anche i figli sono cambiati. La famiglia viene considerata come un punto d’appoggio per una migliore condizione sociale. La casa viene considerata un albergo, ognuno entra ed esce quando vuole.. Beh è tutto in disordine!! Ma, indipendentemente da ogni cosa, la famiglia rimane l’unica cosa importante, l’unico “posto” sicuro.

Erika Vacirca

27 gennaio 2006 – I Ciangiulini d’u Pizzu

Attraverso i racconti di alcuni anziani del mio paese ho appreso che in passato (fino a quasi quarant’anni fa) esisteva un particolare mestiere svolto solamente dalle donne: i ciangiulini d’u Pizzu. Era un mestiere particolare: queste donne accompagnavano a pagamento i funerali con lacrime e lamenti. Si dice che provenivano da Pizzo Calabro, da qui il nome “Ciangiulini d’u Pizzu”. La casa del morto doveva riflettere un’atmosfera di dolore e di tristezza per questo tutto l’ambiente domestico era coperto da stoffe dalle tinte nere, oltre a rivestire, fino a coprire il capo, tutte le donne. I visitatori venivano accolti quasi al buio mentre le parenti e le “Ciangiulini du Pizzu” cantavano le virtù del defunto, generalmente in rima, improvvisando orazioni, lamentele e lodi. Riporto una di queste nenie: “ Testa di randi sapenza, lingua di bonu parrari, azati e parra a tutti sti amici cari”. Qualora ci fosse bisogno ecco riportata la traduzione: “Testa di grande sapienza, lingua di buon parlatore, alzati e conversa con questi cari amici”. Queste donne si strappavano i capelli e si disponevano in cerchio intorno al morto occupando un posto preciso. Le lamentele, le parole, lo stile variavano secondo le circostanze, l’età, la classe, il censo e l’importanza del morto. Nel dialetto del mio paese è rimasta, negli anni, la frase: “Pari na ciangiulina d’u Pizzu”, per designare appunto una donna dal facile pianto.

Anna Bartalotta

7 febbraio 2006 – Nel regno dell’amicizia

“Chi trova un’ amico , trova un tesoro”: un proverbio vecchio duemila anni, archiviato tra le sentenze che “ si dicono tanto per dire”. Forse nessuno ci crede più come chi in tempi remoti lo ha pronunciato; e doveva essere un saggio, un uomo di vita, non uno di quelli cresciuti sui libri, istruiti a compilare le caselle della propria esistenza con gli insegnamenti delle autorità, ma qualcuno che ha conosciuto il freddo, la solitudine, la disperazione, la povertà e che forse ha trovato l’unico sollievo nella figura di un amico. Portato su questo piano il sentimento sembra assumere un valore enorme ed incommensurabile, e ancora più significato assume se come Cicerone crediamo che “ la vita non è vita senza amicizia”. Un sentimento, uno stato affettivo dell’animo, una valutazione soggettiva: cos’è veramente l’amicizia? Ci si perde in esempi, si tirano in ballo altri sentimenti o valori, comunque si affronti il problema si arriva alla conclusione che: stare insieme è bello, rende felici! Quando ero ancora troppo piccola per comprendere i significati più nascosti, ho letto il piccolo principe come una favoletta per conciliare il sonno. A distanza di sette anni l’ho ripreso in mano e ho trovato la mia definizione di amicizia, una definizione che un animale (la volpe) trasmette all’uomo (il principe): “Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla terra come una musica…” L’amicizia fa un effetto strano sugli esseri umani. Ha la capacità di addolcire il più bruto, di far aprire il più timido, di confortare il più disperato. L’amicizia funziona così, indipendentemente dall’orario, dal periodo, dalla condizione; se è amicizia vera nasce e non finisce. Non è vero che l’amicizia è un sentimento infantile: per l’amicizia non si è mai abbastanza vecchi! Ma fino a che punto arriva? Qualcuno, con il cuore in mano, ha risposto a questa domanda dicendo che un amico è qualcuno ”per cui avrei dato volentieri la vita”. Forse sono solo parole, o forse lo si farebbe davvero, ciò che conta è la volontà del cuore, perché è lui che guida e comanda in questo frangente. Come il Piero gucciniano, un amico ti accompagna nella vita, sostiene le tue illusioni di cambiare la realtà, è presente in “quei giorni spesi a parlare di niente, sdraiati al sole inseguendo la vita”, è un amico, non c’è altro da dire. E quando sei solo con i tuoi pensieri, i tuoi problemi, le tue gioie, i tuoi dolori, tutto perde importanza; il problema non si risolve perché non se ne parla e non avviene il confronto; la gioia non esplode perché non c’è nessuno cui comunicarla. A quanto pare la vita ci insegna giorno dopo giorno cosa fare, di cosa circondarci per essere sereni e felici, purtroppo siamo noi che non captiamo i segnali. Come un pittore fissa un’immagine sulla tela, così noi imprimiamo il nome dell’amico sulle pareti del cuore; e come il dipinto, il nome è soggetto all’usura del tempo, ma non perde mai il suo significato, l’importanza che il pittore creandolo gli ha conferito.

Ester De Marco

14 febbraio 2006 – Ma la storia! Ci ha insegnato qualcosa?

Ognuno di noi, leggendo il giornale, viene colpito dalle vignette poste in prima pagina. Le vignette che, con un pizzico di umorismo, attirano la nostra attenzione e ci fanno vedere sotto un diverso aspetto ciò che accade intorno a noi e che è importante per il nostro presente ed il nostro futuro. Sono quelle che commentano, sotto il punto di vista di chi le ha ideate, le affermazioni di importanti politici o del Papa, o contengono invece battute scritte dal disegnatore su avvenimenti attuali come la fine della legislatura di un politico o il pensiero di un qualche deputato sull’influenza aviaria. Ultimamente la pubblicazione di alcune vignette satiriche su Maometto, in Danimarca soprattutto, ma anche in Italia, ha portato all’indignazione del mondo arabo sollecitando così gli animi dei fedeli che hanno manifestato unitamente e continuamente per far sì che determinate vignette non vengano più pubblicate. Il mondo arabo le considera probabilmente come un’offesa alla propria religione e alla propria filosofia di vita. Inutile dire che i musulmani si sono ribellati in base al principio della libertà di religione propagandato ad oltranza dalle civiltà occidentali. È anche naturale che le redazioni dei giornali coinvolti abbiano risposto di conseguenza, sostenendo la libertà di stampa. Ecco come si è venuto a rinforzare il braccio di ferro fra il mondo mediorientale e quello occidentale da sempre esistente a causa della diversità dei due stili di vita. Ogni occasione è buona per ribadire la propria opinione e per far intendere che quella degli altri, se diversa, non interessa, anzi sarebbe meglio non esistesse. Un continuo controbattersi esistente da secoli che non è mai finito. Gli arabi, dopo la fine dell’Impero romano, si sono dati alla conquista dell’Italia e una volta riusciti nell’impresa integrarono la loro cultura con quella della penisola. Non erano rozzi e primitivi come i Germani, ma avevano una civiltà piuttosto sviluppata; eppure oggi per determinati governi che si sono susseguiti in queste regioni, per la costante presenza di un tiranno che ha sempre pensato a vivere in condizioni agiate sfruttando i soldi del governo, la popolazione vive in miseria e stenta a sopravvivere. Una civiltà che ha ottime possibilità di crescere economicamente e culturalmente frenata da una dittatura spietata. Un paese regredito socialmente che è spesso colpito da guerre senza senso che lo fanno retrocedere ancor di più e lo fanno cadere in un baratro sempre più profondo da cui è difficile uscire. Situazione aggravata dalle leggi disumane e crudeli che sono in vigore e da una religione altresì dura che vieta e comanda le cose più disparate. Una religione che chiede al musulmano di convertire il mondo al proprio credo. E da questo un fanatismo sempre crescente che porta ad uccidere per far valere la propria opinione. Questo è quello che succede per i kamikaze e quello che è successo pochi giorni fa. L’avvenimento più recente sintomo di questa filosofia di vita è l’uccisione del sacerdote Andrea Santoro nella chiesa in cui stava pregando. Un martire della propria religione come è vittima della propria il ragazzo che l’ha ucciso. Vittime in modi diversi ma pur sempre vittime. Uno di loro è stato spinto a compiere un gesto che la propria religione “professa”, certo nel Corano non c’è scritto di uccidere chiunque non sia musulmano ma afferma che c’è una guerra giusta, quando le guerre non sono mai giuste, quella per combattere e convertire gli infedeli. E allora determinate parole vengono fraintese ed esasperate e si arriva a quello che abbiamo visto negli ultimi anni. Andrea Santoro professava invece l’amore e la fratellanza, dava aiuto a chiunque glielo chiedesse senza badare al credo religioso o politico. Allora viene alla mente un pensiero che da anni si cerca di debellare: il diverso non è ancora accettato, nonostante le diverse leggi emanate per il diritto di opinione o di religione. Assistiamo continuamente all’uccisione di intere famiglie compiuta da qualcuno che ne faceva parte; si uccidono quindi le persone a cui si vuol bene perché si impazzisce per vari motivi. Ma se siamo capaci, in un momento di pazzia, di uccidere i nostri cari, cosa potremmo mai fare alle persone che non accettiamo? È un dilemma, se vogliamo parlarne in termini shakespeariani. Tutti sappiamo cosa è stata capace di pensare e di mettere in atto la mente di Adolf Hitler nella seconda guerra mondiale; tutti pensiamo anche che con le leggi attuali e la conoscenza degli episodi passati queste cose non accadranno più. Pensiamo questo anche dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001, dopo i continui attacchi terroristici, pensiamo questo anche sapendo che una piccola scintilla può far prendere fuoco all’odio che un po’ tutti covano nel cuore. Lo pensiamo comunque, forse solo per autoconvincerci che veramente abbiamo capito cosa vuol dire odiare e che non vogliamo farlo. Si dice sempre che volere è potere, in questo caso lo spero proprio poiché andare contro i principi che abbiamo finora sostenuto vuol dire che la storia non ci ha insegnato niente.

Cinzia De Leo

 

27 febbraio 2006 L’interpretazione dei sogni

Ogni notte, nel sonno, gli uomini vivono strane e misteriose avventure: i sogni. A volte sono piacevoli ed esaltanti, altre volte sfavorevoli e tristi, la maggior parte di essi vengono in breve dimenticati e raramente è possibile rendere chiaro il significato. Da secoli l’uomo cerca di comprendere, spiegare, interpretare i sogni. Un tempo per la loro particolarità ed apparente incomprensibilità, venivano visti come messaggi soprannaturali e l’interpretazione era riservata a soltanto pochi “iniziati”. Gli indiani del Gran Chaco e alcune tribù della Guinea credevano che l’anima vivesse una doppia vita, fosse trascinata dal sogno in luoghi lontani e possedesse autonomia e giudizi propri. Per questo era necessario dipingere il viso del sognatore, in modo che alla fine del viaggio fantastico l’anima potesse rientrarvi senza problemi; in caso contrario l’anima avrebbe per sempre abbandonato il corpo, provocando la morte dell’individuo. Ancora oggi molti popoli credono nella verità di questa teoria. Nel Medioevo, il periodo dei diavoli, delle streghe e delle superstizioni, l’incubo era visto come demone libidinoso che di notte visitava le donne violentandole contro la loro volontà. La figura più importante e rivoluzionaria nello studio e nell’interpretazione dei sogni fu Sigmund Freud. Egli fu il primo ad introdurre la psicanalisi, con la teoria dell’inconscio, “l’inconscio, diceva, guida i nostri gesti, i pensieri, ci trascina in un mondo lontano in cui le regole della vita reale non hanno più senso”. Secondo questa teoria, la nostra mente, liberata dalle rigide rotaie della ragione, ci comunica il “contenuto latente”, ossia ciò che non vogliamo o non sappiamo di sapere e che, durante il giorno viene bloccato dal filtro della nostra coscienza. Freud credeva che molto di ciò che sogniamo non è assolutamente qualcosa di mai vissuto, al contrario, è il ricordo di esperienze fatte o luoghi visti anche soltanto un attimo che fuoriesce dal profondo, ritornando in superficie. Inoltre sosteneva come fattori esterni ed interni possano condizionare le visioni notturne. Ad esempio, si può sognare di essere al cospetto di una grande cascata sentendo nel sonno delle gocce d’acqua battere sul lavello; oppure sognare d’aver perso una gamba, se durante il sonno si avverte un leggero dolore al piede. La cosa evidente è che tutti i fenomeni che influenzano il sogno stesso vengono vissuti in maniera amplificata. Un’altra questione dibattuta oggi riguarda la realizzazione di alcuni sogni detti “premonitori”. Alcuni studiosi asseriscono che ogni notte sogniamo mediamente più di un’ora, per cui i sogni premonitori non sono altro che pure coincidenze. Jung sosteneva che, come da svegli i nostri pensieri si intrattengono spesso sul futuro o sul passato, così, in maniera del tutto simile si comportano l’inconscio e i suoi sogni; da qui deriverebbe quella che noi chiamiamo premonizione. L’interpretazione dei sogni rimane una scienza inesatta, ma i sogni sono una sicura fonte di scoperte e rivelazioni. E’ così che il sogno, spesso assurdo e non privo di contraddizioni, vissuto in questo universo parallelo e misterioso dove non esistono i concetti di gravità, tempo, spazio, ci fornisce seppur in forme oniriche rappresentazioni del passato, del futuro e di noi stessi.

Francesca Guzzo

6 marzo 2006 La relatività oggi

Pochi lo sanno, ma ci sono molti momenti in una giornata in cui possiamo ringraziare Albert Einstein. Quando ascoltiamo un CD o vediamo un DVD, oppure quando un lettore ottico legge il codice a barre. Sono tutti strumenti che usano il laser, un dispositivo considerato fantascienza qualche decennio fa e nato grazie ad intuizioni di Einstein. Ed anche il GPS, il Global Positioning System, funziona grazie alla teoria della relatività, infatti se il sistema non fosse stato corretto dalla teoria di Einstein, accumulerebbe un errore di11 Km. Ma è ancora più straordinario il fatto che più ci si addentra nella comprensione del suo lavoro, più si scoprono nuove possibili applicazioni che potrebbero migliorare la nostra vita. E il contributo di Einstein non si ferma qui, si pensi anche ai chip e gli altri sistemi di circuiti integrati, i cellulari GPRS, videocamere e fotocamere digitali, e persino la nanotecnologia, sfrutta l’ eredità di Einstein, infatti, il grande scienziato, fu premio Nobel del 1921 per aver capito che la luce, fino ad allora considerata un’ onda, è in realtà anche composta da particelle. Spesso quando noi pensiamo alla teoria della relatività avviene in mente chissà quale tecnologia ma in verità le sue scoperte sono quelle che hanno influenzato il mondo ed hanno spinto alla scoperta di nuove leggi che ormai sono indispensabili per la vita di tutti i giorni. Perciò un grazie ad Albert Einstein.

Domenico Spasari

10 marzo 2006 I Giovani: fonte inesauribile di risorse

Svogliatezza, tedio, noia regnano nell’epoca della multimedialità dominando la nostra società e persino noi stessi. Nonostante questo progresso tecnologico, ognuno di noi assiste ad un regresso “umano”, e ad una scarsa considerazione dei reali valori della vita di ciascun individuo. Questa depressione persiste nella vita quotidiana soprattutto in noi giovani che, insoddisfatti, cerchiamo stimoli diversi, per poterci sentire più vivi, più motivati. C’è addirittura chi fa uso di sostanze stupefacenti, nella speranza di apparire una persona sicura di sé, ma che in realtà teme la solitudine più di qualunque cosa e spera di circondarsi di persone che, ai nostri occhi, possono sembrare importanti. Vivo a Vibo Valentia, una piccola provincia che un tempo era ricca, florida, fucina di uomini di spessore che lottavano con caparbietà per essa e per le generazione future… per noi giovani. Un tempo la mia città era definita “Giardino sul mare”; adesso è stato attribuita ad essa un’altra definizione: “la Capitaledell’Usura”. Camminando per le strade della provincia calabrese, avverto un senso di desolazione perché vedo il vuoto che colma la mia città e il disagio che, in realtà, afferra me ed i miei coetanei. Mi affido alla speranza che ho, che devo avere e, con un po’ di fantasia, cerco di immaginare il futuro. La prima immagine che la mia fantasia elabora è un esodo fulminante e repentino: Vibo deserta. No… non può essere questo il futuro di questa città… Non è il momento di farsi prendere dal panico e di essere preda di pessimismo. Forse ci sarebbe una soluzione per questo paese. Basterebbe renderlo migliore, offrendo maggiori opportunità a noi ragazzi, concedendo più spazio al tempo libero, modificando alcuni sistemi che non soddisfano le aspettative e le prospettive dei cittadini: costruendo una società per il futuro. Soprattutto il destino di questa città e di noi giovani non è segnato. C’è ancora una sottile speranza… il dado non è tratto! Perché, in fondo, ogni iniziativa che ci coinvolge rappresenta quello stimolo in più, quella voglia di poter realizzare qualcosa di costruttivo. E, forse, non ci sentiremo più così vuoti, non più così insoddisfatti.

M. Laura Pagano

19 marzo 2006 Il mio Pater familias

Oggi con la parola famiglia indichiamo il nucleo formato dai genitori e dai figli. Nell’antica Roma, invece, la parola famiglia, dal latino familia, aveva un significato molto diverso. Essa non indicava infatti solo le persone, ma anche i beni come il denaro, le terre, le case e gli animali e comprendeva, oltre alla moglie e ai figli, anche le nuore, i generi, i nipoti e gli schiavi. Tutti coloro, cioè, che erano sottoposti al potere del capofamiglia, che i romani chiamavano pater familias, il quale esercitava su tutti loro un potere assoluto e decideva della vita o della morte dei suoi stessi figli, che gli dovevano un rispetto grandissimo quasi fino a venerarlo. Nel corso dei secoli però la figura del pater familias è andata modificandosi, giungendo fino a noi con dei cambiamenti così profondi e radicali da renderla completamente diversa anche da quella di qualche decennio fa. La famiglia patriarcale, infatti, era sottoposta all’autorità del vecchio padre, ci si doveva rivolgere a lui sempre con affetto e dedizione e i figli non si ribellavano quasi mai alle sue decisioni. Nel caso ciò succedeva venivano puniti duramente, non sapevano nemmeno cosa significasse essere viziati o ricevere un bacio dal proprio padre. La moglie si doveva solo occupare della casa e di crescere i figli, ma nulla poteva decidere. Il padre sottometteva tutti alla sua autorità e soltanto alla sua morte il figlio maggiore poteva prendere la guida della casa. Il vecchio pater familias vedeva la famiglia, grazie alle sue regole e al suo carattere ferreo, come una risorsa dalla quale attingere a piene mani per il raggiungimento dei propri obiettivi e non invece come un sostegno per affrontare le difficoltà della vita aiutandosi a vicenda e cercando di soddisfare i bisogni di ciascun membro. Oggi infatti nella maggior parte delle famiglie i padri rappresentano dei modelli da seguire, delle persone con le quali ci si può dialogare, confrontare, e anche discordare su ciò che si ritiene sbagliato. Oggi la figura paterna è comunque importante così come lo è stata in passato, ma in un modo diverso. Anche perché ora a lui si è affiancata la figura materna, che gli ha fatto conoscere la gioia di dare e di ricevere dai propri figli, dai quali può ottenere rispetto e obbedienza con amore, senza ricorrere a imposizioni o alla forza. Ha beneficiato del suo rapporto con i figli fino quasi a sostituirsi a lei e a diventare un “mammo“. Il suo carattere severo ha lasciato il posto alla dolcezza e alla comprensione cosicché i figli hanno finito per amarlo, rispettarlo e quasi venerarlo non più come avveniva ai tempi degli antichi romani, ma solo per la loro volontà di farlo. Il compito di ogni padre dovrebbe essere secondo me, quello di educare i figli con autorevolezza e amore, spiegare la vita, il dolore e la gioia e poi far decidere loro, su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Poiché sulla scia di ciò che ha saputo insegnare, essi sicuramente decideranno per il meglio e ricorreranno a lui e ai suoi consigli, come fosse il più saggio fra gli uomini, ogni qual volta si troveranno in difficoltà o avranno bisogno di essere rassicurati, o semplicemente accoccolarsi fra le sue braccia come fossero ancora piccoli e bisognosi della sua protezione.

MariaLa Bella

29 aprile 2006 Una guerra non dichiarata

Le vittime delle strade italiane sono tantissime; 300.000 sono i feriti ed oltre 20.000 i disabili gravi prodotti da questa guerra non dichiarata. Le stragi del sabato sera.

“Sara è ormai una donna anziana; dalla sua sedia a rotelle infonde, nonostante il suo stato, coraggio e saggezza a tutti coloro che la conoscono e chiedono i suoi consigli. Quel giorno in particolare la sua nipotina china sulle sue gambe si strugge per un amore finito. Quelle lacrime, quel dolore, rievocano in lei tristi ricordi. Erano gli anni 40, lei una bella ragazza, allegra e spensierata, amava la vita e gioiva di tutto ciò che la circondava. Come tutti gli adolescenti anche il suo cuore iniziava a palpitare per qualcuno: si trattava di Fabio, il bello del suo gruppo di amici, ma per lei del mondo intero. Di lui tutte le ragazze ne erano innamorate, ma da vero “uomo” quale credeva di essere, le snobbava tutte. Un giorno però guardando Sara gli successe una cosa strana: si scoprì innamorato. Da quel momento non si lasciarono un istante e vivevano ognuno di questi come fosse l’ultimo…con una tale intensità da offuscare tutto il resto; da far invidia a tutti. Il destino però si accanì contro di loro e il giorno di quella tanto sognata serata si trasformò nel peggiore degli incubi. Abbracciata a lui, con i capelli al vento, la moto correva veloce, e il rombo del motore si perdeva nell’aria. Ma dietro quella curva a gomito, il tir sbucò improvviso; la moto sbandò, il rombo tacque e Fabio batté la testa su quella maledetta pietra posta al ciglio della strada, mentre lei scaraventata in avanti per parecchi metri rimase inerme sull’asfalto. La corsa in ambulanza verso l’ospedale si rivelò inutile per Fabio e tragica per lei. In quell’incidente, oltre al suo grande amore, aveva perso anche l’uso delle gambe. Pensava che la sua vita fosse finita, che insieme a Fabio quel giorno fosse morta pure lei. Ma ciò non è stato, poiché il tempo, la miglior cura per far rimarginare le profonde ferite, l’affetto dei suoi cari, la comprensione degli amici, l’hanno aiutata in quei tristi momenti. Specialmente il nonno di quella ragazza che lei oggi tiene sulle ginocchia è stato così affettuoso e paziente da ridarle la forza di andare avanti, di scoprire che si può ancora essere innamorati e felici; basta solo non abbattersi, lasciarsi andare, poiché la vita come ti toglie qualcosa è pronta a ridartene un’altra, la si deve però scoprire e accettare perché anche se non ti farà dimenticare il passato, ti farà vivere il presente pensando al futuro”.  Questa è una storia per mettere in evidenza la consuetudine dolorosa che purtroppo leggiamo sulle pagine dei quotidiani e ascoltiamo nelle notizie ai telegiornali: cioè di qualche giovane vita stroncata da un incidente stradale. Questi avvengono maggiormente la notte del sabato, sacra per i giovani perché liberi dal loro impegno giornaliero: lo studio. Spesso si tratta di ragazzi che hanno trascorso in un locale nottate all’insegna del divertimento non sano, cioè ascoltando musica ad altissimo volume, facendo uso di droghe e alcool. Fanno questo forse perché la cultura in cui si trovano a crescere si concentra più sugli oggetti che sul resto e ciò produce, in chi è più debole, disorientamento. Non hanno appoggio su niente e nessuno; quindi la famiglia e le altre istituzioni tradizionali che sono in crisi. Per questo molti ragazzi cercano nello stordimento una via di uscita dalle angosce e dal vuoto interiore. Quando le vittime di queste disgrazie sopravvivono, può accadere che i conseguenti disturbi provocati dal trauma, diventino talmente gravi da impedire loro di condurre un’esistenza normale. Si hanno allora sofferenze fisiche e psicologiche. Tutto come conseguenza dell’errore commesso in un attimo. Anche se i risultati non sono sempre stati incoraggianti, sono state adottate delle misure per almeno rallentare il fenomeno; limiti di velocità, chiusura anticipata dei locali, patente a punti. Forse mancano strade più sicure ed un’adeguata educazione stradale. Abbiamo il diritto di essere protetti ma anche il dovere di proteggerci. Ma in fondo, il tutto si basa sulla coscienza di ognuno di noi: nel senso che le norme sono state adottate ma sta a noi decidere se rispettarle o no…

Maria GiovannaLa Bella

6 maggio 2006 Bizzarro sondaggio di fine anno

”Durante l’estate, che fine fanno i tuoi libri?”

Vi siete mai chiesti che fine fanno i libri finita la scuola? I nostri compagni di interminabili pomeriggi e gli amici fedeli di estenuanti ore di esercitazione, vanno in vacanza oppure no? Bene, la brezza primaverile è stata la nostra fonte di ispirazione per questo sondaggio effettuato su un campione di 22 persone. Per motivi di privacy non indicheremo classe o sezione a cui esse appartengono anche per evitare che, dopo la lettura, qualcuno possa indagare ulteriormente o che i prof degli stessi facciano loro un rimprovero corale per colpa nostra. La domanda che abbiamo posto ad ognuno di essi è stata la seguente: ”Durante l’estate, che fine fanno i tuoi libri?”. Le risposte sono state in alcuni casi molto bizzarre. Più del 35% ha affermato che gli dà fuoco. Siccome a costoro piace molto stare in compagnia, organizzano falò in spiaggia e barbecue con gli amici per passare in allegria le giornate estive. Sempre in questa percentuale rientrano coloro che, non volendo utilizzare le nuove tecnologie, ricorrono ai segnali di fumo per comunicare a distanza. Riguardo a ciò riportiamo ciò che ha detto G.: “Faccio segnali di fumo!”, evidentemente questa tecnica funziona perché R. ci dice: “Rispondo ai segnali di fumo di G.!” Un 5% comprende coloro che non hanno mai sentito parlare di libri o altri che al suono dell’ultima campanella li salutano definitivamente. A tal proposito ricordiamo la risposta di A.: “Non li tocco più, li lascio là dove sono e basta!” Altri studenti, quasi per evitare improvvisi attacchi e smanie di studio, li nascondono in luoghi isolati, dimenticati dal mondo e da tutti, in compagnia di intere comunità di acari. Il restante 60% ha optato per usi più interessanti. Fra questi c’è ad esempio P. che ha intenzione di utilizzare i suoi libri per rialzo o come contrappeso per l’amaca. Gli amanti degli animali invece decidono di occuparsi dei loro cuccioli utilizzando interi tomi di filosofia e storia per la toelettatura o per tenerli in allenamento nelle loro attività quotidiane. Infatti T. afferma: “Ci pulisco i criceti!” e T2. :” Li regalo ai castori del WWF così si puliscono bene i denti!” Ma ancora c’è chi vorrebbe preparare immensi banchetti per topolini campagnoli. Passiamo poi ad una delle risposte più drastiche e che ci ha davvero impressionato, Ar. ha detto: “Li abbandono in autostrada!” Speriamo che qualche volenteroso studente in viaggio li recuperi! Fra coloro che guardano al futuro, alle nuove generazioni e alla gloria eterna, A. afferma: “Li seppellisco in giardino così un giorno diventeranno importanti reperti archeologici e il mio nome verrà ricordato da tutti!” Ma anche in questa classe non mancano ragazzi e ragazze diligenti e studiosi che, appena sentita la domanda, ci guardano in modo interrogativo. E’ il loro sguardo a parlare e sembra proprio dirci “Che fine dovrebbero fare i miei amatissimi libri?” Ed infine riportiamo le risposte di coloro che appartengono al club di Paperon de’ Paperoni e che vedono una fonte di guadagno in ogni cosa. Con aria decisa ed espressione da affarista nata, D. afferma: “ Li vendo e con il ricavato mi compro le scarpe!” Questa risposta, dobbiamo dirlo, ci è piaciuta molto. Ma anche A. spera in futuri guadagni: “Li semino, aspetto che spuntino le piante cartacee e poi rivendo i singoli capitoli!” Speriamo faccia fortuna! Il nostro sondaggio ha toccato tanti campi diversi, da quello animalista a quello inventivo, dall’energetico all’economista, ha divertito tutti quelli che vi hanno partecipato e, se nessuno ci censura dopo questo articolo, ne riproporremo altri più strani e divertenti.

Paola Fusca e Annarita Ruscio

15 luglio 2006 Il muro sonoro

Il prof che urla, la radio, un concerto…siamo bombardati da migliaia di suoni: onde che si propagano nell’ambiente fino a raggiungere l’orecchio. Sembra tanto ma, in realtà, nei materiali solidi (nell’acciaio vanno a 19 mila km all’ora), le onde sonore viaggiano più veloci. Ed è ancora nulla rispetto alla luce che viaggia a 300.000km…al secondo! Per questo, durante un temporale, vediamo prima il lampo e dopo sentiamo il “bum”, più lento del tuono. Quando alcuni aerei, detti supersonici, superano la velocità del suono (mach1), si sente invece un’esplosione: il bang sonico. Il motivo? Poco prima di superare, le onde sonore prodotte dall’aereo si accumulano sulla parte anteriore (vanno più veloci ma di pochissimo), formando una specie di muro: quando l’aereo supera la velocità del suono, “buca” questa barriera e le onde sono risucchiate indietro, producendo un boato che crea una nuvoletta e fa condensare il vapore acqueo dell’aria. I suoni possono incontrare anche un ostacolo che li riflette e li fa tornare indietro. Se l’ostacolo è distante almeno 20m si produce l’eco: la parola che gridiamo “rimbalza” e viene ripetuta per intero varie volte. Tutti i suoni, in ogni caso, hanno una frequenza e un’intensità. La frequenza è il numero di onde che si ripetono in un secondo e si misura in Hertz (Hz): più la frequenza è alta e più il suono è acuto. L’uomo sente solo i suoni compresi tra 20 e i 20 mila Hz. Quelli sotto i 20Hz (gli infrasuoni) e quelli sopra i 20 mila Hz (gli ultrasuoni) sono percepiti da alcuni animali come gli elefanti o i pipistrelli. L’intensità è invece l’ampiezza di un’onda e si misura in decibel (dB). Un suono con 0 dB non lo sentiamo, mentre 120 dB corrisponde alla soglia del dolore, oltre la quale i nostri orecchi iniziano a sentir male! Anche perché l’esposizione prolungata a suoni superiori a 80dB può provocare danni. A volte si possono sentire fischi o ronzii anche se c’è silenzio! Si tratta di suoni molto fastidiosi detti acufeni, creati dal cervello a causa di un disturbo all’orecchio interno o di un forte stress.

Gesualdo Tramontana

18 luglio 2006 Un nuovo sole si accese nel cielo: la bomba atomica!

Il primo tentativo dell’uomo di annientare se stesso. Come è giusto, ogni anno ricordiamo la morte di quei milioni di ebrei sterminati dalla Germania nazista nei campi di concentramento con il solo pretesto di appartenere ad una razza considerata inferiore. Diamo però ben poco risalto alle centinaia di migliaia di vittime provocate dalle esplosioni delle bombe atomiche sganciate dagli americani sulle inermi popolazioni civili di Hiroshima e Nagasaki. Il pretesto fu quello di far terminarela IIguerra mondiale anche in Oriente. Il 6 agosto, alle otto e tredici minuti, dall’aereo pilotato dal colonnello Tibbets, dall’altezza di8.000 metri, la bomba atomica fu sganciata sulla città giapponese di Hiroshima. In qualche frazione di secondo, 86.000 persone arsero vive, 62.000 subirono gravi ferite e migliaia di edifici furono ridotti in un cumulo di macerie dal risucchio del vuoto d’aria causato dalla bomba. Altre 90.000 persone morirono nelle settimane successive. Milioni di persone delle future generazioni soffrirono a causa della radioattività sprigionata da quelle esplosioni che causò leucemie, mutazioni genetiche e malformazioni fisiche. L’esplosione rase al suolo dodici chilometri quadrati di territorio, trasformandoli in un vero e proprio cimitero. Tra le cause del massacro figura anche il fatto che nessuno poté essere aiutato perché non solo furono rasi al suolo gli ospedali, ma vi furono tra le vittime tantissimi medici. Alla bomba è stato dato il nome di “Little boy” (ragazzino) e l’aereo destinato a trasportare “la morte” venne battezzato “Enola Gay” perché così si chiamava la madre del comandante. Gli storici hanno successivamente tentato di giustificare il lancio di quelle bombe con la conclusione della guerra però, secondo me, nulla può giustificare quella violenza inaudita contro una città inerme piena di ospedali, di bambini, di anziani e di donne. Fu un atto di estrema crudeltà e non ha importanza che siano gli americani ad averlo commesso: è tutta l’umanità che deve capire che quella “strada” è sbagliata; la “guerra” in sè è assurda ma la violenza sulla popolazione civile è assolutamente più assurda. Ricordare le vittime di Hiroshima e Nagasaki è essenziale. Bisogna far capire a noi giovani quanto le invenzioni dell’uomo, se usate in modo improprio, possano diventare pericolose per l’intera umanità. E’quindi necessario ricordare questi episodi che hanno segnato terribili pagine di storia affinché certe situazioni, potenzialmente sempre riproducibili, non si ripetano. Volevo concludere questa mia breve riflessione riportando il pensiero espresso da Albert Einstein a proposito della bomba atomica: “ Ci sono due cose infinite: l’universo e la stupidità degli uomini ma della prima non sono sicuro”.

Anna Bartalotta

9 novembre 2006 Al pensiero il libero arbitrio

Formulazione ed elaborazione, processi psichici relativamente controllabili dai nostri pensieri eppure fautori di quest’ultimi. Vi siete mai chiesti perché a volte ci si ritrova a vagare per quell’infinito universo della nostra mente pieno zeppo dei pensieri più astrusi e poco definiti? Che a volte si rivelano intuizioni geniali e altre aforismi che sfiorano qualsiasi legge della logica conosciuta? Chi fa buon uso dell’intuito e della confutazione avrà sicuramente compreso a cosa mi sto riferendo. Il punto è proprio questo. Ogni opinione nasce da un’idea. Ma se ogni idea gode della piena libertà, come può essere limitata la libertà di opinione? E’ disumano limitare la libertà d’espressione. E’ il pensiero a renderci uomini, o meglio, la libertà di pensiero. Senza di essa non finiremmo forse per assomigliare ad automi capaci di provare solo dolore? Disumano. ”Avere un talento non è abbastanza; bisogna averne anche il permesso da voi, non è vero amici miei?” Questa frase molto eloquente, fu pronunciata da Nietzsche nel secolo scorso. Appare ora evidente come la situazione fosse già ben chiara da tempo. L’artista deve operare in un ambiente di libertà, senza che nessuna delimitazione sociale o culturale possa influenzarlo. In passato la parte dei potenti l’hanno fatta i regimi totalitari, all’interno dei quali è strutturata un’elaborata forma di censura. Oggi la fanno le grandi catene multinazionali, in grado ormai di monopolizzare qualsiasi cosa, rendendola un “prodotto valido”. Persino le nostre menti. Recentemente la vicenda che ha destato più scalpore è stata la “vicenda Pamuk”. Orhan Pamuk, cittadino turco, viene processato dal proprio Paese, per aver denunciato lo sterminio di oltre 1.000.000 di armeni durante la prima guerra mondiale. Argomento tabù in Turchia. Rischia un massimo di tre anni di prigione. La vicenda prende comunque una svolta positiva. Le accusa cadono come gocce di pioggia al suolo e Pamuk diventa famoso, grazie a un romanzo che racconta la storia turca. Dagli albori della civiltà fino ai tempi moderni. Gli varrà il premio nobel per la letteratura, premio assegnato dai rappresentanti delle principali nazioni d’Europa. La stessa Europa della quale Ankara vorrebbe entrare a far parte. Suona quasi una beffa. L’onorificenza consegnata a Pamuk è comunque qualcosa di più che un riconoscimento per l’impegno e la qualità del lavoro presentato. Assume un significato simbolico. Diventa icona di libertà. Vittoria della libertà d’espressione contro le tenebre dell’ignoranza del potere. Tornando indietro nel tempo non troviamo così spesso uomini fortunati, al pari del turco 54enne, ammirato e premiato per aver espresso apertamente una denuncia. Basti pensare a Lucrezio. Precursore dei tempi, innovatore aspramente criticato e sottovalutato in vita. Riscoperto anni dopo, una volta morto. Van Gogh, capace di coniare uno stile unico, inimitabile. Le tele, la completa introspezione dei pensieri, anche dei più bizzarri e audaci dell’autore. Incompreso. Baudelaire, al suo tempo giudicato colpevole per uno stile di vita immorale, osceno, corrotto licenzioso. Oggi ammiriamo nelle opere il suo genio smodato. Rivalutato negli anni. La libertà di espressione si manifesta sotto le più svariate forme. Ma la parola, lo scritto, la musica, la pittura, l’arte non sono più sufficienti a preservare l’indipendenza del pensiero. L’arma più potente di cui disponiamo in qualità di uomini. Costruiamo nuove armi per difendere la libertà di pensiero, insieme ai saldi, fabbri forgiatori della parola. Non limitiamo il pensiero. Lasciamo al pensiero il libero arbitrio.

Felice David

18 dicembre 2006 La pena di morte, un “potere giardiniere”

La pena di morte è il principio in base al quale lo stato può decidere legittimamente di togliere la vita a una persona. Può essere definita un “potere giardiniere” che si incarica di estirpare le erbacce. La pena è attualmente applicata in molti paesi del mondo, la maggioranza dei quali è sottosviluppata e arretrata; ma è presente anche in paesi moderni, come ad esempio gli USA. Il più delle volte i condannati sono colpevoli di omicidio: alcolizzati, malati di mente, emarginati di ogni tipo. Ad essere condannati non sono solo i responsabili di omicidi, ma a volte anche gli imputati di reati economici molto lievi. In Iran, negli scorsi anni, sono stati celebrati processi della durata di pochi minuti, davanti a un giudice non indipendente, ma vincolato in qualche modo ad autorità politiche o religiose; e si sono conclusi quasi immediatamente, con una sentenza di morte inappellabile, eseguita quasi subito. Negli USA, in un sistema giudiziario assai evoluto, un errore commesso da un avvocato d’ufficio inesperto, come ad esempio un leggero ritardo nella presentazione di elementi a discarico, può comportare la fine di ogni speranza per l’imputato. Secondo lo studioso Norberto Bobbio le teorie prevalenti sulla pena di morte si possono sintetizzare in una cosiddetta “etica”, sostenuta dai fautori della pena, e un’altra “utilitaristica”, sostenuta dagli abolizionisti. Per i primi la pena di morte è un male necessario; per i secondi quest’ultima è un male non necessario, e quindi non può essere in alcun modo considerata come un bene. Cesare Beccaria ha affermato che la pena di morte è ingiusta e irrazionale, per il fatto che lo Stato, per difendersi da un omicidio, ne commetterebbe uno a sua volta. Egli inoltre la definisce come “la guerra della nazione contro un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”. Anche Robespierre, nel suo “Discorso contro la pena di morte”, la giudica insensata. Egli sostiene che il giudizio dell’uomo non è mai tanto certo da decidere della sopravvivenza di un suo simile. I metodi di applicazione della pena sono molteplici: la fucilazione, la ghigliottina, molto usata in Francia nel passato, il colpo di pistola alla tempia, diffuso in Cina, l’impiccagione e, per ultimo, l’iniezione letale, usata negli USA. Quest’ultima è stata di recente molto criticata, perché si sostiene che al momento della morte il condannato sia cosciente e provi tutto il dolore che deriva dalla diffusione nel corpo dei veleni. L’inumanità della procedura è senz’altro facilmente riscontrabile. L’uomo per sua natura non può essere in grado di giudicare se sia giusto togliere la vita ad un suo simile; la possibilità dell’errore è sempre presente. Il reo potrebbe comunque redimersi e rendersi in qualche modo utile alla comunità alla quale ha arrecato un danno enorme. Una punizione accettabile potrebbe essere l’ergastolo con annessi lavori forzati, senza la possibilità di sconti di pena di alcun tipo. Un altro fatto dubbio è il funzionamento della pena di morte come deterrente per i delitti più gravi. Difficilmente infatti una persona prima di compiere un delitto pensa alle conseguenze alle quali potrebbe andare incontro. C’è invece la possibilità che abbia un effetto contrario. Nei paesi nei quali essa è applicata viene inflitta, spesso e volentieri, con troppa leggerezza e i processi non sono sempre equi e regolari. E’ comunque influente sulla questione anche il modo di pensare delle popolazioni dei singoli Stati, nei quali è prevista l’applicazione della pena; spesso e volentieri sono stati arretrati economicamente e culturalmente, o comunque hanno alle spalle una storia particolare, che ha portato allo sviluppo di una diversa mentalità, come nel caso degli USA.

Giuseppe Gentile

29 settembre 2007  Birmania: Pace vs Fucili

Chi è il forte? L’uomo che tiene il fucile in mano? O quello che davanti al fucile avanza disarmato?

Chi è più forte? La dittatura che stringe il paese in un pugno di ferro, o il popolo che urla la propria libertà?

Domande che si pongono, ogni giorno, per ogni spietata oligarchia di questo mondo, per ognuna di queste prese in giro al nostro bel sistema democratico.

Domande che si dimenticano, fino a quando qualcuno ci fa notare che è tempo di rispolverarle.

Ora l’occasione ci si presenta dalla mattina alla sera su ogni TG e giornale, e si tratta ovviamente del caso della Birmania, o Myanmar, come è stata ribattezzata dalla giunta al potere; ma vediamo di chiarire un po’ le idee, dato che fino a poco tempo fa gran parte della popolazione mondiale ignorava persino la collocazione geografica di questo paese.

La Birmaniasi trova in Asia, tra i paesi con essa confinanti ci sono l’india ela Cina, fondamentali nella sua situazione attuale, dato che sono loro a comprare i fucili per gli uomini col fucile; a metà agosto inizia una manifestazione contro l’esagerato rincaro del carburante, una “rivolta” pacifica, talmente pacifica da essere guidata dai monaci buddisti, i bonzi, pacifici per definizione.

Un comune sciopero, come se ne vedono spessissimo da noi, uno sciopero che in un qualunque stato democratico sarebbe stato largamente tollerato, ma qui si parla della Birmania: paese sotto la dittatura di una giunta militare da ben 45 anni, paese in cui l’ultima protesta (quella degli studenti nel 1988) contro la dittatura è stata repressa nel sangue, paese in cui si fanno le elezioni ma i risultati non contano, e inoltre paese in cui il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi è agli arresti domiciliari da 12 anni e ora è in prigione.

Vecchia storia di ogni dittatura insomma.

Ora immaginate i pacifici bonzi che avanzano per le strade, andando avanti per proteggere il popolo che manifesta con loro, perché nessuno sparerebbe a un monaco…

Avanzano e davanti a loro sta l’esercito con i fucili, e loro urlano per la libertà ma i fucili urlano più forte.

Decine di morti, centinaia di feriti; i militari impongono il coprifuoco, i manifestanti non lo rispettano e urlano ancora la loro libertà, e avanzano ancora contro i fucili.

I militari entrano nei monasteri, picchiano e trascinano via  i monaci, perquisiscono gli alberghi in cerca dei giornalisti stranieri e durante gli scontri ne uccidono due, un reporter giapponese e un fotografo tedesco.

E mentre in strada c’è un inferno di sangue e violenza sapete cosa trasmettono le tv birmane? Un reality.

Mentre fuori si decidono le sorti del paese qualche ignara casalinga birmana guarda un reality.

Ora mi chiedo, le casalinghe birmane seguivano un reality, i bonzi venivano massacrati…e il resto del mondo? Le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’America, quelli che contano insomma, loro che facevano? Beh, loro discutono, ma non che il problema non gli interessi, anzi! Sono tutti estremamente rammaricati, proprio tutti, anche Pechino che con la sua influenza potrebbe fermare il massacro è estremamente rammaricata, spera tanto che la situazione si risolva al più presto, ma rischiare i suoi interessi economici e inciuci vari con il regime, questo no!

Allora continuiamo così: le nazioni rammaricate, i bonzi massacrati e noi che giochiamo alla democrazia, perché ci piace tanto vivere in un bel mondo libero.

Marzia Mancuso

 

 10 dicembre 2007 Il dono più bello da fare al prossimo: ridargli la vita.

La donazione degli organi è una questione complessa alla cui base vi è prima di tutto una scelta di solidarietà. Perché donare i propri organi e tessuti? Basti pensare che, grazie alla solidarietà di quanti hanno scelto di compiere questo gesto d’amore, migliaia di persone ogni anno vengono salvate con il trapianto. Spesso il trapianto è l’unica opportunità terapeutica per alcune gravi malattie che colpiscono gli organi e i tessuti del corpo umano. Donare gli organi significa acconsentire al fatto che, dopo la morte, alcuni organi ancora vitali vengano prelevati dal cadavere al fine di essere trapiantati ad ammalati gravi. I donatori possibili sono due: il deceduto, che può aver espresso in vita l’assenso alla donazione, e la famiglia, che è chiamata ad esprimersi in merito. Solo per determinati organi il donatore può essere vivente. Teoricamente si possono donare tutti gli organi, eccetto l’encefalo e le gonadi. Gli organi che vengono prelevati con maggiore frequenza sono: reni, fegato, cuore, polmoni e pancreas.

Oggi il tema dei trapianti non dovrebbe essere un argomento oscuro a molti, ognuno di noi però si limita a conoscere e ad approfondire certe tematiche solo quando ne è direttamente toccato. Sottoporsi ad un trapianto non significa più accettare il male per evitare il peggio, ma subire un intervento terapeutico importante e impegnativo che ha ottime probabilità di ridare salute a chi ne ha bisogno.

La gente non è abbastanza informata per prendere una decisione cosciente e consapevole in materia di donazioni: timori e dubbi scientificamente inammissibili, costituiscono oggi un ostacolo che non deve più esistere. Ogni organo parzialmente disponibile che non viene donato, per qualsivoglia ragione, rappresenta per l’ammalato la perdita della vita, che con il trapianto sarebbe stata recuperabile in termini di qualità e durata assai vicini alla normalità. Gli organi vengono assegnati ai pazienti in lista d’attesa in base alle condizioni di urgenza. La donazione è sempre gratuita e anonima e non esistono limiti d’età. L’attività di prelievo e di trapianto, per la complessità e l’importanza che rivestono, non possono essere svolte da un solo chirurgo, ma  interessano un grande numero di specialisti che cooperano e formano un’equipe medica alla quale è affidato non un semplice intervento ma un processo articolato e complesso. Tuttavia i trapianti, per il valore e l’importanza che comportano, coinvolgono tutto l’ospedale e la direzione sanitaria in prima istanza. I medici si preoccupano dell’approfondimento delle relazioni con i familiari che vivono l’esperienza difficilissima della perdita di un congiunto o della scelta di autorizzare il prelievo di organi; sono spesso loro a promuovere in prima persona la cultura della vita o della donazione; affermano la centralità della persona malata in attesa di trapianto che, grazie alla donazione di organi, riceverà una nuova vita. E’ sempre bene sottolineare che la donazione può avvenire solo quando sia stata accertata la morte cerebrale. Bisogna riflettere dunque su questo argomento e l’importanza della vita.

GraziaLa Bella

  21 aprile 2008 – Il fine giustifica i mezzi: competizione sportiva e business

Nel lontano776 a.C. in Grecia, culla della civiltà e della cultura, sono nate le Olimpiadi, manifestazione, festa “sportiva”, dedicata agli Dei pagani; infatti, hanno preso il nome dal monte su cui abitavano le divinità, il monte Olimpo .

I primi concorrenti non erano certo atleti in senso stretto, bensì lavoratori, gente comune, o addirittura, nobili dediti all’attività fisica. Col tempo, le olimpiadi si sono arricchite di discipline, quali la maratona, che ha preso il nome dalla località da cui partì un soldato, Fidippide, per portare notizie sulla guerra in corso ad Atene, basata su un tragitto di circa42 km; il lancio del peso; il giavellotto.

Per che cosa si gareggiava a quel tempo?

Non certo per il denaro, ma per la gloria sportiva, anche per il puro “sfizio” di confrontarsi con gli altri.

Per un periodo che va dal 843 d.C. al 1896 le olimpiadi, che rappresentavano lo sport nel mondo antico, sono state interrotte; ma, grazie agli innumerevoli sforzi del Barone Pierre de Coubertin, ideatore del celebre motto  “L’importante è partecipare”, esse sono ricominciate ed è stato stabilito che riprendessero inizio dalla città natale, ovvero Atene.

Ma l’uomo è capace di accantonare il protagonismo a favore della “sana” competizione?

Non sempre: in quanto animale sociale, come lo ha definito Rousseau, è sempre pronto a competere per vincere, non accontentandosi della pura partecipazione; si pensi a Nerone che istituiva gare, non solo artistico- letterarie, ma anche semplicemente ludiche, in cui il princeps doveva risultare sempre vincente. D’altra parte, nella maggior parte delle attività umane è prevista la competizione: ad esempio, in politica, nella scuola, nel lavoro, dove il successo è dato dal fatto di ottenere risultati migliori rispetto agli altri; ecco, dunque, che lo sport diventa anche business, ovvero mercato. E allora, parafrasando una frase del Principe di N. Machiavelli, Il fine giustifica i mezzi, ossia,  per raggiungere il traguardo, non importa il modo in cui si fa, basta arrivare allo scopo.

E, a volte, sport diventa anche sinonimo di doping, falsi in bilancio, illeciti e l’atleta tende ad assumere sostanze che ne alterano le prestazioni, per raggiungere risultati che lo fanno assomigliare sempre più ad una macchina.

A ciò si aggiunga che nello sport contemporaneo si sono persi quei valori etico- formativi, che facevano un tempo da garante nei rapporti con gli altri e con l’ambiente naturale.

La competizione agonistica oggi dunque non è subordinata all’osservanza delle regole e dei valori fondamentali, come il rispetto dell’avversario, l’educazione mantenuta durante la prestazione, il fair play.

D’altra parte, nel mondo sportivo attuale non vince sempre l’atleta onesto, o dalle capacità atletiche migliori, ma quello che ha una società (holding)  alle spalle più efficiente o uno sponsor importante.

Basti pensare al ciclismo, dove in un tour vince la squadra più organizzata, attrezzata  e l’atleta che ha a disposizione un gregario e uomini che facciano il lavoro “sporco” per lui.

Ecco, dunque, che la competizione, insita nella natura umana, sparisce a favore di ciò che si può definire doping amministrativo, ovvero il volere delle società, basato sulla pura ricerca e affermazione, non di valori etico-morali, ma di immagine e denaro, ovvero business.

Giuseppe Cannatà

 

5 ottobre 2008 – La criminalità e il pentitismo:

           

Con il termine “organizzazioni criminali” gli esperti di criminologia (scienza che studia i delitti nella loro genesi, nelle loro forme e nella loro evoluzione, occupandosi anche dei sistemi d’analisi e di prevenzione) stabiliscono tutte le forme di delinquenza associata presenti stabilmente in una determinata area socio-economica per il controllo delle maggiori attività illegali. Ciascuna organizzazione si dà leggi interne finalizzate ad assicurare il massimo profitto economico e l’impunità degli affiliati. La prima regola aurea è quella dell’omertà, chi la viola riceve come punizione la morte. Ciò contribuisce a creare un’atmosfera di paura che ostacola non poco le indagini giudiziarie. In Italia, i fenomeni delinquenziali quali il brigantaggio, il banditismo, la mafia e la camorra trasformatasi in mafia politica- imprenditoriale (nuova mafia siciliana, nuova camorra napoletana e Sacra Corona Unità pugliese) hanno attecchito in particolari zone meridionali del nostro Paese, angustiate da piaghe secolari quali la disoccupazione, l’analfabetismo, l’infimo tenore di vita, l’assenza di un’efficiente classe politico- imprenditoriale. È evidente che in  una simile realtà socio- culturale le organizzazioni criminali hanno trovato un terreno fertilissimo per estendersi progressivamente. Tra le cosche, ormai, non esistono più duraturi patti di non belligeranza; la prospettiva di profitti sempre più consistenti spinge continuamente vari capi a tentare di estendere il proprio dominio territoriale a danno delle cosche limitrofe. Anche all’interno degli stessi gruppi criminali non sono infrequenti “tradimenti” e “passaggi di bandiera”. Ciò genera di frequente vere e proprie guerre fra le varie bande “famiglie” o “clan”.

I moderni fenomeni di organizzazioni criminali devono essere combattuti non soltanto a livello repressivo ma anche sul piano preventivo considerando che le nuove leve criminali vengono reclutate nei ceti sociali in cui le condizioni di vita sono infime per mancanza di istruzione, di lavoro, di servizi sociali e di concrete speranze per un futuro sicuro. Lo Stato è chiamato in questo senso ad un’importante opera, ma è necessario che ciascun cittadino, attraverso la serietà dell’impegno negli studi, nel lavoro, nella vita sociale, contribuisca a creare condizioni di maggiore vivibilità e di fiducia nelle istituzioni, nella precisa consapevolezza che simili fenomeni criminali  ricacciano la nostra società meridionale nelle ombre della paura allontanando sempre di più popoli di antica civiltà dal sogno di una nazione unita, libera e fiorente.

 In questi ultimi anni si è andato accentuando il fenomeno cosiddetto del <<pentitismo>> che consiste nel fatto che uno o più affiliati decidano, in cambio di forti <<sconti di pena>> e protezione fisica per se stessi e per i propri familiari, di uscire dall’organizzazione rivelando i misfatti compiuti e fornendo nel contempo preziose chiavi di lettura dei misteriosi mafiosi.

Il fenomeno del pentitismo ha consentito di assicurare alla giustizia numerosi e pericolosi criminali, rivelando l’organizzazione interna dei vari livelli delle consorterie camorristiche e mafiose, ma si è anche prestato a servirsi di qualcosa o di qualcuno per raggiungere i propri scopi a danno altrui; attualmente è oggetto di un profondo riesame sul piano giudiziario e legislativo.

Sui pentiti si fondano quasi tutte le maggiori inchieste riguardanti la mafia. Se i <<collaboratori>> (questa è la denominazione ufficiale dei pentiti) vengono ritenuti poco credibili, l’antimafia rischia di trovarsi con armi scariche.

Le norme sul pentitismo potranno essere migliorate: in particolare dovrà essere meglio assicurata la protezione dei pentiti e dei loro familiari (questa protezione è stata spesso insufficiente, e la mano della mafia ha potuto raggiungere e punire con la morte i “traditori” o qualche loro congiunto).

Il pentitismo ha consentito di sconfiggere il terrorismo. L’indulgenza garantita dalla legge a chi, nelle file brigatiste, si pentisse o si dissociasse, ha portato a situazioni che ispiravano profondo disagio (con feroci pluriassassini messi in libertà dopo un quasi simbolico periodo di reclusione).

Tra il pentito del terrorismo e il pentito di mafia esiste una profonda differenza. Il primo era a modo suo (un modo feroce) un idealista; mentre nel comportamento del secondo non c’è nulla d’ideale, lui obbedisce a interessi e intesse complicità il cui fine è quello di estendere il potere criminale della cosca d’appartenenza e di fare quattrini.

Infine si può affermare che esistono pentiti veri e pentiti falsi. Lo Stato non può distinguere tra pentiti “di coscienza” e pentiti “di convenienza”. Per la lotta alla mafia conta solo avere informazioni utili a scoprire i reati e i loro autori. Chi ne fornisce esatte e fondate diventa un “pentito”; chi invece non ha nulla da dire o racconta frottole, rimane un “complice”.             Francesca  Galati

  31 ottobre 2008 Parliamo di tragedia

La tragedia è un genere letterario teatrale, caratterizzato dalla forma drammatica, cioè dal fatto che l’azione viene rappresentata come se si svolgesse in quel momento. Perciò l’autore non parla in prima persona, ma dà la parola ai personaggi, i quali presentano le vicende al pubblico. Gli elementi essenziali della tragedia sono: il mito (che fornisce al poeta il soggetto), i caratteri (devono essere rappresentati sempre con coerenza), il pensiero (deve essere espresso non solo dalle parole, ma anche dalle azioni dei personaggi), la elocuzione (lo stile del personaggio e del coro), lo spettacolo scenico e l’accompagnamento musicale. Gli argomenti sono quelli del genere epico; ma mentre l’epica narra i miti, la tragedia li mette in scena.

Originariamente i tratti peculiari della tragedia erano il collegamento con feste e culti dionisiaci; la presenza del coro (alle origini era il nucleo fondamentale della tragedia); l’unione di danza, canto, poesia e musica; l’uso della maschera, che implicava molti privilegi tra cui: stessi personaggi potevano interpretare più personaggi, caratterizzazione più netta dei personaggi e più facile identificazione da parte del pubblico.

Ciò che si sa con sicurezza è che durante le Grandi Dionisie si svolgevano, ad Atene, dei concorsi teatrali finanziati dallo Stato che duravano per diversi giorni e una giuria popolare assegnava i premi ai vincitori.

Periodo molto importante per la tragedia fu il V secolo a.C., periodo dell’egemonia e della massima potenza ateniese, poiché fu uno strumento di diffusione delle idee. Tre sono i poeti tragici di cui ci sono giunte le opere complesse: Eschilo, Sofocle ed Euripide. Aspetto fondamentale per il poeta e per il pubblico non è la vicenda in sé per sé, ma i problemi che da essa scaturiscono. Molti sono i protagonisti epici delle tragedie: Edipo, Agamennone, Fedra.

Per Aristotele la tragedia è un processo di purificazione (catarsi), perché dopo essere giunta al culmine, si allenta provocando negli spettatori un senso di liberazione; inoltre, suscita forti emozioni come la paura e la pietà.

Lo stile della tragedia è alto ed elaborato artisticamente ed è divisa in quattro parti: la scena iniziale o prologo; la parado, cioè il canto iniziale, gli atti (episodi) intervallati da canti corali (stasimi); 1’esodo o scena finale.

Valentina Curtosi

16 novembre 2008 Il mondo che vorrei

  “Non si può fare quello che si vuole…non si può spingere solo l’acceleratore”. Questo ci dice Vasco del mondo che vorrebbe. Ma il mondo che io vorrei è un mondo dove non esiste discriminazione, dove ognuno è uguale all’altro. Un mondo dove regna la fratellanza, dove non esistono lotte per motivi futili, un mondo di bene, dove l’invidia e il sopruso non vi sono. Dove la famiglia è unita e forte, dove l’amicizia è solida e compatta, dove l’amore è sincero e dignitoso, dove il coraggio prevale e dove la forza d’animo è imbattibile. Un mondo dove non esiste guerra, dove la gente convive cordialmente rispettando le opinioni altrui. Dove i giovani quando tornano dal divertimento il sabato sera non si schiantano per aver bevuto troppo, dove la mafia è inesistente, dove le donne non vengono violentate e maltrattate, dove i bambini vengono curati e protetti, dove le religioni trovino un punto di incontro, dove non esiste il traffico di stupefacenti, dove la vendita di armi non è legalizzata. Dove la gente vive giorno per giorno e si vive la propria vita in assoluta serenità, dove non esistono bambini nati per sbaglio, dove ragazze di quindici anni non restano incinte, dove il diritto di vivere la propria vita come meglio piace è concesso a tutti. Dove i potenti facciano qualcosa per aiutare i più deboli, dove non esistono bambini affamati e a cui viene negato il diritto alla vita, al gioco e alla scuola. Dove esistono maggiori organizzazioni ed efficienti per i paesi degradati, dove i politici non si interessino esclusivamente dei propri interessi. Dove ogni bambino a Natale trovi un regalo sotto l’albero, dove ogni persona sola abbia una visita il giorno del suo Compleanno, dove gli anziani trovino assistenza dai propri parenti e dove ognuno, alla fine della propria vita, abbia trovato un senso ad essa.

Un mondo bellissimo, un mondo dove tutti riescono a compiere i propri buoni obiettivi e dove ognuno faccia del bene per aiutare chi ha più bisogno. Un mondo fantastico, semplice ed irraggiungibile, dove ognuno riesca a sviluppare i propri talenti e prevalga nella sua categoria. Spero che questo mondo un giorno diventi realtà, per soddisfare i voleri di tutti gli uomini della Terra, purché servano a farlo diventare sempre migliore.

 Lorenzo Restuccia

 

18 gennaio 2009 In una società sempre più dominata dagli spot pubblicitari e dalle telenovelas c’è posto per la poesia?

Un mendicante percorre la sua strada in solitudine. Niente è intorno a lui; si trova da solo in mezzo ad un vortice di vento che rischia di travolgerlo e nessuno può porgergli aiuto.

Solo colori cupi intorno; niente che possa suscitare in lui un sentimento di speranza o felicità.

Questa non è altro che la descrizione di un quadro che si trova nel mio salotto. Ogni volta mi soffermo a guardarlo e cerco di interpretare e capire ciò che il pittore ha voluto trasmettere tramite questo quadro.

I colori sono le parole dei pittori. Attraverso i colori, infatti, cercano di dar voce ai propri sentimenti e al proprio stato d’animo. I poeti utilizzano, invece, come specchio della loro personalità e dei loro pensieri la poesia. La poesia è vita, amore, felicità, tristezza, malinconia: la poesia è tutto.

Essa ci fa provare ciò che il poeta ha provato, possiamo sentire gli odori, toccare gli oggetti, vedere distese verdi di prati fioriti, una montagna piena di neve, il tramonto, il calare o il sorgere del sole vicino al mare; e tutto questo è possibile grazie alla nostra immaginazione e al potere e alla magia della poesia.

Molto bello è il racconto mitologico di Orfeo. Orfeo, figlio di Eagro e di Calliope, era nato in Tracia.

Era ancora bambino, quando suo padre gli donò una cetra, infondendogli l’amore per la musica e la poesia. Orfeo imparò così a suonare e suonava con tanta dolcezza che il mondo sembrava fermarsi per ascoltarlo. Le fiere uscivano dalla foresta e sedevano ammansite ai suoi piedi; le fronde degli alberi smettevano di stormire e lo udivano immobili; perfino le rocce, alla sua musica, rotolavano silenziosamente verso di lui. Ebbene sì: è realmente questo il potere della musica e della poesia.

Nella nostra società, dominata dagli spot pubblicitari e dalle telenovelas, c’è ancora posto per la poesia?

È difficile dare una risposta con sicurezza a questo grande dilemma.

Non tutti reagiscono nella stessa maniera di fronte alla poesia. Molti la amano, però tra i giovani vi sono alcuni che, leggendo versi, non riescono ad abbandonarsi all’immaginazione, al fascino e alla persuasione della poesia. Per loro è molto più facile e divertente guardare le telenovelas o la televisione.

È proprio un peccato!

Omero fu uno dei più grandi e celebri cantori della storia.

Non si sa nulla riguardo alla sua vita, ma si suppone che fosse cieco; molti sostengono che proprio grazie alla cecità ebbe il dono della poesia, poiché, non potendo vedere gli aspetti superficiali e banali della vita, non veniva distratto e non perdeva di vista i veri valori dell’esistenza.

Metaforicamente, per trovare un posto per la poesia in tutti gli individui di questa nuova società bisognerebbe esser ciechi come il grande cantore Omero.

Bisognerebbe riuscire a non essere dominati dalla televisione e dagli spot pubblicitari.

Bisognerebbe chiudere gli occhi per un solo istante e vedere con il cuore.

Bisognerebbe isolarsi per un solo attimo dal mondo, solo con la presenza di un libro di poesie, leggerne una e poi lasciarsi trasportare.

Ilenia Viola

 

11 febbraio 2009 La guerra

Siamo nel 2009, e purtroppo ancora sentiamo parlare di guerra. Soprattutto nei paesi più poveri che ancora non hanno un governo stabile o al potere ci sono dei dittatori. La guerra è vecchia quanto l’uomo perché c’è sempre stata provocando danni e morti dal numero inestimabile. Sembra proprio inevitabile e incontrollabile e nessuno riesce a fermarla o almeno ad attenuarla. La guerra, ancora oggi, viene vista come la soluzione dei problemi, perché i capi di Stato non riescono a risolverli tra di loro pacificamente. Dichiarando guerra invitano i cittadini a combattere per sconfiggere il nemico e difendere la patria, così tutti gli uomini lasciano la loro famiglia e vanno a combattere e là, sono costretti anche ad uccidere per difendersi e sperare di riuscire a tornare  a casa. A volte,  quando  c’è un attimo di  tregua, alcuni  soldati riescono a capire che chi sta dall’altra parte  e quelli  con cui stanno  combattendo non sono “nemici” ma “uomini”, uomini come loro. Una testimonianza, che dimostra di come in guerra si può manifestare un po’ di umanità  a differenza di quella  brutalità che circonda tutti, è data da Emilio Lussu che, a più di vent’anni di distanza, rievoca un episodio vissuto da lui in prima persona durante la prima guerra mondiale. Nel brano “Anche il nemico è un uomo” riporta quella sua esperienza dalla quale ha compreso che quelli che riteneva suoi nemici invece erano degli uomini che vivevano nel fango, mangiavano, bevevano il caffè e fumavano, esattamente come si faceva tra i suoi compagni. Fu una ”presa di coscienza” quando insieme al suo caporale raggiunse a carponi la trincea dove erano i “nemici”. Ma non trovarono il coraggio per sparare e uccidere, perché videro persone uguali a loro. Non era il “nemico”  chi gli stava di fronte, ma semplicemente un “uomo”.

Io penso che la guerra non risolva  nessun problema e che nessuno  alla fine del conflitto, quando ormai sono morti parecchi soldati, si possa dichiarare il vincitore. Sarebbe la guerra ad essere portatrice della giustizia e quindi della pace? Non è affatto così  perché  essa porta solo distruzione, miseria, morti e dolore alle famiglia che hanno perso i loro cari. La guerra non serve a nulla  e per questo chi è un grande e intelligente capo di Stato cerca di risolvere qualsiasi problema pacificamente discutendone, perché chi ama e vuole portare sviluppo alla propria patria, fa  solo del bene e cerca di evitare spargimenti di sangue. Solo  così si potrebbe sperare che la guerra diventi solo un vecchio ricordo che serva  da esperienza  per le generazioni  future in modo che queste  tragedie non avvengano mai più.

 Federica Sacchinelli

3 aprile 2009 – L´Anticonformismo nel tempo

Nel corso del XX secolo si sono verificati vari avvenimenti che hanno generato ondate di anticonformismo, le quali hanno investito principalmente il settore della musica e quello dell´abbigliamento. Negli anni ´60 nasce l´”Hippy movement”, che determina la formazione di un particolare gruppo urbano, quello degli hippies, conosciuti anche come “figli dei fiori”. Questo gruppo si batteva contro la guerra che gli Stati Uniti d´America stavano conducendo in Vietnam: gli hippies si prefiggevano così l´obiettivo di riportare una pace duratura nel mondo. Essi generalmente portavano capelli lunghi ornati con fiori, indossavano camicie con motivi etnici o floreali, pantaloni o gonne larghi, e calzavano sandali sia d´estate che d´inverno oppure camminavano scalzi; viaggiavano per il mondo, a bordo dei loro furgoncini arricchiti di simboli della pace, muniti delle loro inseparabili chitarre. In ambito musicale, gli hippies prediligevano i Beatles, formatisi a Liverpool negli anni ´60, e in particolare John Lennon. Negli anni ´70 nasce in Inghilterra il movimento punk, i cui rappresentanti si oppongono generalmente a ogni sorta di regola, sentono la necessità di vivere in piena libertà se non addirittura in una totale anarchia e si ribellano ai canoni imposti dalla società. I giovani punk tingono i loro capelli con colori violenti, indossano abiti sdruciti e di pelle, e portano spille come orecchini. In ambito musicale il punk assume varie caratteristiche e si divide così in punk rock, ska punk (un punk fuso a sonorità reggae), punk77 (quello tipico degli anni ´70), etc. Generalmente la musica punk è caratterizzata da scarsa qualità di suono, dall´utilizzo di pochi accordi e da un ritmo frenetico, oltre che da testi pungenti e diretti. Tra le bands che hanno offerto un grande contributo al movimento punk si ricordano i Ramones, nati nei pressi di New York negli anni ´70, i Sex Pistols, formatisi nei sobborghi di Londra nello stesso decennio, i Clash, anch´essi inglesi di formazione. Attualmente la scena musicale punk vede ai vertici del genere i Rancid, gruppo nato a Oakland in California nei primi anni del ´90, i NoFX, anch´essi riunitisi a Oakland negli anni ´80, e i Bad Religion, nativi di Los Angeles e attivi dagli anni `80. A partire dalla seconda metà degli anni ´80 nasce a Seattle il genere musicale grunge, che in inglese letteralmente assume il significato di “sporco”,”sudicio”, parola che evidenzia l´aspetto estetico dei protagonisti di tale genere, i quali erano alquanto trasandati e non curavano l´aspetto tecnico della loro musica bensì la forza che questa esprimeva. Tra gli esponenti del genere grunge i più celebri furono i Nirvana di Kurt Cobain. Attualmente non sono cessati di esistere gruppi anticonformisti che giorno dopo giorno si battono per la pace nel mondo così come facevano gli hippies negli anni `60, e per una maggiore libertà, rispecchiando così gli ideali del movimento punk.

Rossella Gaccetta

20 giugno 2009 – La mia Vibo Valentia

Per molte persone la città di Vibo Valentia,  provincia dal 1992, è “pesante”, soprattutto per i giovani. È vero, ma sono del parere che non bisogna abbattersi, dopotutto abbiamo un meraviglioso castello Normanno-Svevo, una struttura architettonica che si innalza sull´acropoli a dominare un ampio panorama. In esso troviamo la sede del Museo Archeologico Statale, ricco di quadri, statue ed arazzi; abbiamo il bellissimo Palazzo Gagliardi di tipo rinascimentale con dei vani organizzati attorno a una piccola corte centrale.

È una città che non ha molto da offrire, come tutto il sud, ma è una città che ha voglia di qualcosa in più e quel qualcosa lo cerca nei giovani, che non avendo discoteche o luoghi dove incontrarsi se non in associazioni come gli scout o all´oratorio, riescono sempre a formarsi un futuro che va ben oltre le prospettive, anche se non mancano quei ragazzi che purtroppo non riescono a trovare la loro strada.

Spesso quando qualcuno viene a Vibo Valentia, rimane senza parole, la descrive come una città “morta”. Ed è vero, così è come appare, ma è anche vero che cerchiamo di migliorarci ogni giorno sempre di più.

Non abbiamo discoteche, università, locali “fashion”, i ragazzi non vedono l´ora di evadere da qui, ma nonostante questo tornano sempre nella loro Vibo. Tornano dagli amici, dalle persone che hanno conosciuto o solo visto per strada, tornano a Casa.

Noemi Rampulla

 

10 gennaio 2010 Dall’antica Roma a.. Rosarno!

Sono molti coloro che stanno con “Spartaco”, con lo schiavo che si ribella, con gli immigrati sfruttati, umiliati, che alzano la testa. Non con coloro che hanno le bende agli occhi di fronte alla vergogna quotidiana di condizioni disumane e, quando lo schiavo si alza in piedi, lo condannano perché usa la violenza o lo invitano ad abbassare la testa. In un giorno che (quasi) tutti hanno vissuto in tranquillità, ovvero giovedì 7 Gennaio, c’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: due extracomunitari sono stati malmenati da alcuni Rosarnesi, e da qui è partita la scintilla che ha acceso il fuoco della rivolta. Macchine, vetrine, abitazioni distrutte dalla rabbia di persone che si ribellano di fronte alla violenza quotidiana esercitata dall’imprenditoria criminale che sfrutta la manodopera immigrata. Sangue e lacrime fuse insieme, tra la collera degli abitanti che hanno perso i propri cari e i propri beni, e la paura di questi “schiavi” oggetto di armi da fuoco, feriti non solo esteriormente. Molti sono andati e andranno via, altri saranno collocati nel centro di accoglienza temporanea di Crotone, e mentre la cittadina sembra riprendersi in tranquillità, ci si accorge che questo è un avvenimento sul quale si deve riflettere.

Rischiamo di divenire un popolo che attua discriminazioni, che maltratta i propri lavoratori, un popolo di razzisti? E’ questa l’accoglienza che abbiamo in serbo per chi cerca lavoro in Italia, cosa offriamo ? Una paga ridotta a 20 euro giornalieri e abitazioni senza tetto, camere divise da muri fatti con i cartoni, giacigli fatti di lerciume dove per compagnia ci sono i topi e condizioni igieniche disumane? In fondo vengono qui ad occuparsi di lavori che i disoccupati disdegnano. L’altro “schieramento”, quello di commercianti e paesani che si trovano con danni da pagare a caro prezzo, è rappresentato dalle parole del ministro Maroni il quale afferma che c’è stata troppa tolleranza nei confronti degli immigrati irregolari.

Spartaco morì crocifisso dai romani, agli immigrati cosa accadrà?

Ilaria Roccisano

 

8 febbraio 2010  Filarmonica briaticese: musica del passato per musicisti del futuro

La filarmonica di Briatico ha acquisito una notevole considerazione nel vibonese, esibendosi in tutta la provincia. Nata nel 2006, aveva come obiettivo quello di dare la possibilità a coloro che avevano dimostrato discrete capacità musicali durante il percorso della scuola media di continuare i loro studi in quell’ambito. L’orchestra ha nel tempo incrementato il numero dei componenti richiamando giovani musicisti da tutta la provincia, grazie anche alla responsabile, la professoressa di flauto Giovanna Filardo, sempre disponibile ad accogliere chiunque voglia avvicinarsi alla musica. L’orchestra, infatti, è costituita da una batteria, due tastiere, un pianoforte, uno xilofono, due corni, nove chitarre, dieci violini, dieci flauti e un clarinetto, per un totale di circa quaranta elementi. Un gruppo numeroso per un progetto sempre più ambizioso sostenuto dal pubblico, che si dimostra sempre caloroso. Anche il preside della scuola di Briatico, prof. Rocco Cantafio, descrive questo progetto come il fiore all’occhiello dell’Istituto. Le marce in più dell’orchestra sono l’ampio repertorio, che spazia dalla musica classica a quella moderna, e l’interpretazione dei brani, in cui si uniscono la “professionalità” degna di grandi artisti e la spensieratezza che contraddistingue l’età adolescenziale.

Il “tour” natalizio, realizzato in collaborazione con il coro della Chiesa San Nicola di Briatico, ha visto l’orchestra esibirsi in diverse chiese della provincia, con un repertorio comprendente un gran numero di canti popolari a sottolineare l’attenzione verso le tradizioni locali.

Emanuele Marzano

 

22 febbraio 2010 La storia della Calabria – Nascita e degrado di un grande paese

La Calabria, culla della cultura greco-romana, è stata per secoli terra di conquista da parte di innumerevoli popoli.  Tra l’VIII ed il VII sec. a.C. giunsero sulle coste calabresi i primi colonizzatori greci, che fondarono Sibari, Crotone, Reggio e Locri (i quattro grandi centri attraverso i quali la cultura ellenica si estese a tutta la regione), e successivamente altre città divenute poi potenze politiche ed economiche indipendenti. Dalla Grecia arrivarono in Calabria l’arte, la letteratura e la filosofia che influenzarono in modo decisivo la vita delle colonie. Nelle poleis della Magna Grecia si raggiunse un tasso di sviluppo e istruzione pari a quello della madrepatria. I coloni ellenici, infatti, dopo aver sottomesso le popolazioni indigene stabilirono fiorenti città con biblioteche e centri di studi che formarono i più abili filosofi, letterati e dotti di tutto il bacino del Mediterraneo. Tra il sec. VI e il IV a.C., una serie di lunghe contese insanguinò il suolo calabrese: la guerra fra Crotone e Locri con la famosa battaglia della Sagra e la distruzione di Sibari ne furono gli episodi principali. Oltre alla presenza greca la regione fu caratterizzata, a partire dal IV secolo a.C., da quella di un altro popolo: i Brettii. Queste genti di stirpe sannitica, proclamarono la loro indipendenza nel 356 a.C. e combatterono a lungo contro le popolazioni greche contendendosi il dominio del territorio. Il dominio greco lasciò tracce profonde in Calabria, tanto che questa, ancora nel tardo Medioevo, era conosciuta col nome di Magna Grecia. Dopo la conquista da parte dei Romani, nel III secolo a.C., le poleis magnogreche erano destinate a perdere la propria autonomia in favore di un’alleanza o di una sottomissione ai conquistatori come nel caso di Locri Epizefiri, Crotone e delle altre città minori. I Romani concretizzarono il loro dominio con la fondazione di colonie nei centri nevralgici della regione: Temesa nel 194 a.C., Copia nel 193 a.C.,  Valentia nel 192 a.C. e Scolacium nel 123 a.C. Durante l’età imperiale, la Calabria, che Augusto aveva  unito alla Lucania, decadde social­mente ed economicamente, mentre si andava sempre più diffondendo il latifondo.

Tiziano Mazza

22 febbraio 2010 Illegalità: un problema da affrontare

Illegalità. Una parola che frequentemente viene utilizzata in tv, sui giornali, dai vari mass media, per descrivere la realtà che incombe ai giorni nostri. Ma qual è il significato di questo termine?

Se la legalità è il rispetto delle regole stabilite dallo Stato, l’illegalità è l’opposto.

Reati, traffico di droga, estorsioni… E il tutto condiziona fortemente l’economia, la vita quotidiana, le regole da rispettare.

È diffusa la mentalità del “farsi giustizia da soli”. Ma perché? Il popolo, forse, non vede attuata la giustizia e quindi sente l’esigenza di provvedere da sé. Ma perché non c’è giustizia? E qui entra in gioco un’organizzazione criminale tanto conosciuta: la mafia. Questa impone le proprie regole su un determinato territorio, e gli strumenti utilizzati sono la violenza, la prepotenza, ma anche le istituzioni pubbliche. In fondo cosa sarebbe la mafia senza lo Stato? Ciò non vuol dire che questi due enti coincidano. Ma “la talpa”, la spia, si trova sempre, in qualsiasi circostanza. Inoltre, bisogna constatare una differenza tra mafia e popolo mafioso. Quest’ultimo, in realtà, permette un condizionamento sulla mentalità oggi diffusa. Un esempio: la vicenda di Rosarno. Qui era già presente una situazione anomala. Mancava il sindaco, vi era sfruttamento del lavoro nero. Gli immigrati venivano maltrattati, non erano assicurati, svolgevano lavori non dignitosi e sottopagati. Erano intollerati. Il problema, più che razzismo, è l’inciviltà delle persone, dai più piccoli ai più anziani.

Cosa possono fare i giovani contro le illegalità?  << La soluzione: l’impegno quotidiano di informarsi, di occuparsi di queste cose>> dice Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, alla conferenza tenuta il giorno 10 febbraio 2010 presso il Liceo Berto.

Ma sarà veramente così?

È tutto l’insieme di un circolo vizioso, a cui difficilmente si porrà fine.

Caterina Fortuna

24 febbraio 2010 Un giorno mi farai una grande Chiesa!

Sono passati quasi quattro mesi dalla sua scomparsa ma nessuno si è dimenticato di lei. Natuzza si mantiene viva nel ricordo di tutti coloro che anche in vita le sono stati vicini.
“Natuzza è ancora più viva di prima”, dicono gli abitanti del suo piccolo paese, Paravati, che dal lontano 1944 sono spettatori e protagonisti dei suoi straordinari fenomeni. Infatti la sua è “solo” un’assenza fisica perché lo spirito continua a vegliare, in particolare sui tanto amati giovani, i suoi figli spirituali. E ora? Un solo obiettivo. Portare avanti il grande progetto della chiesa Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime che la Madonna le ha commissionato la prima volta che le è apparsa nella sua casa dicendole: << Un giorno mi farai una grande chiesa! >> Il 30 maggio 2006 Natuzza ha dato il via ai lavori e adesso il progetto ha bisogno dell’aiuto e del sostegno di tutti. La struttura, che sta crescendo, è alimentata dalla generosità di quanti contribuiscono alla costruzione che, forse per maggio, sarà pronta in cemento armato. Natuzza non ci sarà quando il progetto sarà finito ma lei stessa ha raccontato che la Madonna le aveva già fatto vedere l’opera realizzata: la cittadella chiamata Villa della Gioia che comprenderà il centro Ospiti della Speranza per malati terminali con annesso il Villaggio del Conforto, per ospitare gli ammalati e i loro familiari; attraverso il Viale della Misericordia si arriverà al complesso per la riabilitazione, dal nome Recupero della speranza. Tutte le vie interne, tramite il Viale della Salvezza, porteranno alla grande Chiesa. Sono molte le iniziative con lo scopo di raccogliere fondi per finanziare i lavori: numerose riffe e la vendita di prodotti artigianali offerti da tanti che sperano di poter realizzare al più presto questo sogno. Una nuova e grande casa per alleviare le necessità di giovani, anziani e di quanti altri si troveranno nel bisogno. Per questo i giovani promettono di essere pietre vive della Chiesa.

Valentina Varone

 

 

22 marzo 2010 La gioia di essere figli! (dedicato ad Asia nata oggi, 22 Marzo)

L’attesa a volte può sembrare eterna, stancante, ma quando poi giunge il momento in cui un nuovo essere prende vita, immensa è la gioia e grande l’emozione. Già il dolce pianto di quel secondo che segue il parto e il taglio del cordone ombelicale diventa importante. Un bambino cambia la vita, spesso la altera talmente tanto che ogni giorno che passa diventa sempre più complicato e faticoso. Ma cosa rende più felici dell’innocenza di un bambino che teneramente, con la mano piccolina e fragile stringe quella della mamma che a differenza della sua sembra essere quella di un gigante? Vederlo crescere poi dà un senso maggiore alla vita di chi, con cura, lo guida in quel lungo cammino che fin dal momento in cui s’intraprende, fa un po’ paura.  Ma è una paura che giorno dopo giorno scompare. I suoi primi passi, le sue prime parole, i suoi sorrisi, quei vestiti talmente piccoli che fanno rinascere la voglia di tornare bambini, alzarsi nel bel mezzo della notte perché svegliati dal suo pianto, e dopo la montagna di regali e giocattoli che danno nostalgia, per non parlare di quando, ormai grandi, soffriranno per il primo amore o saranno preoccupati per il compito del giorno dopo. Momenti che creano un filo d’amore. Certo, essere bambini è bello ma a volte non è semplice, come ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. Spesso una richiesta fatta ai genitori, giusta o sbagliata che sia, rifiutata, un litigio, un rapporto difficile con qualcuno, li porta a commettere errori enormi da cui poi è complicato uscire o rimediare. Ma anche se tanti sono gli sbagli, un figlio è sempre un figlio, con tutti i suoi difetti e pregi.

Caterina Teti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Noi dentro la cronaca

 

22 novembre 2003 Strage in Nassiriya

18 ottobre: Bin Laden indica l’Italia come prossimo obiettivo. Il 12 novembre alle ore 12.40, un’autocisterna con 2 persone a bordo, una delle quali ha aperto il fuoco contro gli uomini di guardia, ha sfondato l’ingresso del Quartier generale italiano, il mezzo si è poi schiantato contro l’edificio, per aprire la strada ad un’automobile imbottita di esplosivo, è l’inferno. Crolla quasi completamente la palazzina e investe anche un altro edificio dove ha sede l’ufficio stampa. Alcuni mezzi militari prendono fuoco. Si cerca di soccorrere i feriti, di spegnere gli incendi, si scava fra le macerie. Le fiamme proseguono sino al deposito di munizioni e le riserve di benzina che esplodono a loro volta. È il panico. 27 morti, di cui 18 italiani, 12 carabinieri, 4 dell’esercito e due civili. Diversi feriti, tra i quali 20 italiani, 15 carabinieri e 4 soldati, un militare in gravi condizioni, che muore ore dopo. Morte 4 bambine che si trovavano chiuse su uno scuolabus, oltre all’autista. Tra i feriti, un bimbo iracheno, di un anno: non è in pericolo di vita, ma ha perso gli occhi e il naso. Si parla di un attentato suicida, con l’ipotesi che in mezzo ci sia Bin Laden e i suoi uomini. Il terrore negli occhi, la morte nel cuore. L’Italia piange i suoi caduti morti da “eroi”. Si scopre una sola verità, la guerra in Iraq continua. È purtroppo in guerra si muore. Le bombe, i kamikaze non distinguono divise, bandiere, colori. La guerra non legge negli animi umani, gli intenti, i sentimenti… Ed è così che un bambino si troverà ad apprendere dalla madre che il padre è morto in una città di morte e dolore, dove vivono “anche” persone innocenti, per difendere la pace; quella pace che dovrebbe essere la chiave di quell’Io che nasce dentro ognuno di noi sin dai primi insegnamenti, e che diventa oggi una parola difficile da comprendere. Alle madri, alle mogli, ai figli, agli amici di quelle 19 vittime, ora rimarrà di “ognuno” il ricordo di quella persona così tanto cara. E’ proprio in questo che il terrorismo si alimenta? In fondo quei morti non sono i fratelli di tutti? Arriverà il momento in cui l’uomo pagherà i suoi mali, ma non siamo noi a dover giudicare. Noi siamo quelle persone che dalla storia, dai nostri sentimenti, dagli episodi recenti, possiamo e dobbiamo aiutare a credere in un mondo migliore, non solo noi stessi, ma anche “quelle” persone che non sanno lottare per i loro diritti usando armi di pace.

Chiara Prestia

20 febbraio 2005 Scoperta eccezionale: sei milioni di anni fa, le acque del Mediterraneo si prosciugarono

La scoperta cui è pervenuto il Gruppo Palentologico della città di Tropea è la soluzione alla teoria che, da anni, affascina gli studiosi di geologia, ovvero la “teoria messiniana del Mediterraneo”, secondo la quale, sei milioni di anni fa, le acque del Mediterraneo si prosciugarono per la ‘saldatura’ tettonica dell’area mediorientale con il continente asiatico a causa dei grandi movimenti della crosta terrestre che tendono a spingere l’Africa verso l’Europa. Ritornarono a riempire il grande bacino quando, cinque milioni di anni fa, si aprì lo stretto di Gibilterra e le acque oceaniche ricoprirono quella vasta area che si era ridotta ad una distesa costellata di una sparuta serie di lagune salmastre dove non ci poteva essere vita per gli animali marini. Perché il Mediterraneo di potesse riempire completamente di acqua, ci vollero ben 100 anni! Il Gruppo paleontologico ha lavorato per più di un anno intorno ai reperti di fauna fossile rinvenuti a Cessaniti, portando avanti approfonditi e accurati studi. Dai reperti, si è potuto risalire al profondo stato di sofferenza che le faune marine affrontarono a causa della forte salinità del Mediterraneo e quindi alla situazione fortemente drammatica cui questo venne sottoposto per l’evaporazione delle sue acque e del suo progressivo prosciugamento. Tale scoperta ha interessato il professor Daryl Domning, che da anni rivolge i suoi studi verso le tappe evolutive della storia dell’uomo sulla terra. L’anello mancante al completamento del suo grande lavoro, lo ha trovato proprio qui, a Cessaniti, e grazie all’impegno che il Gruppo Paleontologico tropeano infonde in questo speciale studio. Il professor Carone, ha illustrato i momenti più importanti del loro lavoro, presentando anche all’assemblea gli autori delle scoperte dei reperti nelle persone di Mario Bagnato e Giovanni Privitera. “Gli strati geologici di Cessaniti, – ha detto tra l’altro Carone – già da tempo noti agli studiosi per la grande quantità di reperti fossili, non finiscono mai di stupirci; infatti possiamo ora affermare che l’area Cessaniti-Zungri è il luogo dove meglio si conservano le testimonianze delle condizioni più estreme della crisi del Messiniano pre-evaporitico, e la sua fauna fossile mostra in maniera inequivocabile lo stress fisico e ambientale al quale è stata sottoposta prima del definitivo prosciugamento dell’intero Bacino marino”. Lo studioso Daryl, con l’ausilio di diapositive, in seguito ha proceduto a spiegare la sua teoria sul Messiniano, teoria che oggi può confermare grazie ai reperti provenienti da Cessaniti, attraverso i quali è possibile evidenziare lo stato di sofferenza, soprattutto nelle “Serenidi”, sopportato durante quel lontano periodo; un corpo che si è trasformato gradualmente per cercare di adattarsi alle nuove situazioni ambientali. Nella conferenza Internazionale per gli studi del Mediterraneo che si è tenuta a Benghazi in Libia, è stato presentato il lavoro che il Gruppo paleontologico ha portato a termine. Un lavoro firmato da Pino Carone e dagli studiosi che vi hanno collaborato tra cui il prof. Daryl, il prof. Walter Landini dell’Università di Pisa e il prof. Giovanni Bianucci dell’Università di Firenze; sarà pubblicato, anche, sulla rivista Natural History di New York. Certola Libia, da oltre venti anni, è la sede destinata alla Conferenza Internazionale per gli studi sul Mediterraneo perché si ritiene sia il luogo principale dove sono stati individuati gli strati geologici più rappresentativi; ma alla luce della nuova scoperta, che porta il nome di Cessaniti e che conferma l’esistenza di stesse condizioni ambientali conla Libiamilioni di anni fa, si potrebbe tentare di spostarela Conferenzaanche nella nostra terra che, probabilmente, avrebbe titoli più legittimi, secondo quanto ha dichiarato Carone. Lo studioso Daryl, che è venuto in Calabria per la prima volta, ha dichiarato che tornerà per continuare le sue ricerche e i suoi studi nella nostra terra infinitamente ricca di storia; in effetti, la pagina che racconta le sofferenze lontane nel tempo del Mare Nostrum, è stata ritrovata, e letta, a Cessaniti.

Vittoria Saccà

21 febbraio 2005 Giuliana Sgrena

Un’altra giornalista sequestrata e nelle mani dei rapitori, trema per la sua vita. Trema così come le persone che la amano e come tremano anche tutti gli italiani che hanno imparato a conoscere la sua esistenza per la prima volta. Giuliana Sgrena. Una giornalista che in terra d’Iraq racconta agli altri come vive la gente, come soffre la gente, come muore… la gente! E muore in un tempo in cui la guerra si dice sia finita, e rischia di morire anche lei, in questo tempo detto di pace. Ma a quanto pare, in quella terra bisogna sospettare di tutto e di tutti, anche della propria ombra. Certo Giuliana non poteva mai sospettare di diventare oggetto da bersaglio e di essere rapita come si può fare con una persona nemica. Perché lei era amica dell’Iraq, era contro la guerra lei, dalla parte della gente che vuole ritornare a vivere senza più paura delle bombe. E nelle foto da lei scattate, ci sono i bimbi colpiti dalle cluster bombe. Chiede al suo compagno di far vedere le foto, quasi deve dimostrare che non è una spia, che il suo è un lavoro portato avanti a testimonianza di quanto sta soffrendo il popolo iracheno. Ma lì non si sanno più riconoscere i buoni dai cattivi, ed eccola inginocchiata di fronte ad una qualche cinepresa ad implorare aiuto, ad implorare la libertà, la vita; a chiedere al nostro governo di ritirarsi finalmente da una missione che chiamano di pace ma che fino ad oggi è costata al popolo italiano venti morti, tra cui giornalisti e foto reporter, sequestri e tantissimo dolore.

Giusy Calabrò

 

31 dicembre 2005 – Anche i polli hanno il raffreddore

Prima di poter affrontare il problema dell’influenza aviaria, dobbiamo meglio analizzare il significato della parola “influenza”: l’influenza è una malattia di tipo virale. Il virus è in grado di attaccare l’apparato respiratorio e, a volte, quello digerente provocando i seguenti sintomi: tosse, lacrimazione, dolori muscolari e talvolta anche problemi di tipo articolare; il nostro organismo riesce normalmente a sconfiggere i virus grazie ad un articolato sistema di anticorpi. Il virus non sempre attacca solo l’ uomo ma talvolta anche gli animali che hanno un sistema di anticorpi molto limitato rispetto a quello umano. Allora possiamo facilmente dedurre che gli allevamenti di pollame del sud est asiatico, in particolare della Cina, del Vietnam, della Corea e della Thailandia siano stati infettati dal virus H5N1; la causa di questa epidemia è sicuramente la mancanza di condizioni igienico-sanitarie favorevoli, per poter allevare un gran numero di animali. Ma come può essere facilmente prevenuta l’influenza aviaria? La diffusione del virus H5N1 si può contenere applicando rigorose misure igieniche su tutto il territorio comunitario, pertanto anche in Italia, in presenza della malattia, gli allevamenti sono sottoposti a rigide misure igienico-sanitarie per prevenire la diffusione del virus e per evitare che le carni e i prodotti degli animali infetti entrino nel regolare circuito commerciale. Sia gli animali ammalati che tutti i loro prodotti derivati (uova, carni) vengono eliminati, in modo da ridurre le possibilità che l’uomo possa venire a contatto. Le mie riflessioni su questa problematica sono le seguenti: come prima cosa penso che i mass media abbiano ingigantito il problema così tanto da portare allarmismi inutili fra la popolazione e provocando il crollo del commercio di pollame in Italia e penso, poi, che la popolazione europea sia ben difesa dall’attacco di questa nuova malattia.

Roberto Lucifora

9 febbraio 2006 – Torino 2006: Olimpiadi Invernali

Ci siamo: l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali che quest’anno si terranno a Torino (ridiventata per l’occasione capitale d’Italia) è alle porte. Rappresentano un momento unico in cui atleti, provenienti da tutto il mondo, si troveranno a gareggiare fianco a fianco per poter raggiungere un grande sogno che portano con loro da sempre. La staffetta con la fiamma olimpica, iniziata l’8 dicembre a Roma, dopo aver attraversato tutte le province italiane, il 10 febbraio giungerà a Torino, segnando l’inizio delle Olimpiadi invernali. L’accensione del braciere olimpico, simbolo di fratellanza tra i popoli, sarà un momento davvero emozionante. Tutti fremono per l’arrivo di questa data e sono entusiasti per il lavoro svolto fino ad ora. È stato questo un impegno che ha mobilitato Torino e tutta l’Italia per circa due anni: sono stati realizzati nuovi impianti sportivi, villaggi che ospiteranno atleti e giornalisti. Inoltre le gare non si svolgeranno solo nelle località sciistiche addossate alla cintura delle Alpi come Sestriére, Salice d’Ulzio, Susa, San Sicario, ma sono stati costruiti veri e propri stadi del ghiaccio all’interno della città stessa. Le discipline ammesse alle Olimpiadi sono 15: il biathlon, il bob, la combinata nordica, il curling, il freestyle, l’hockey su ghiaccio, il pattinaggio di figura, quello di velocità, il salto dal trampolino, lo sci alpino, lo sci di fondo, lo short-track, lo skeleton, lo slittino e lo snowboard. Ciò consentirà agli atleti, provenienti da tutto il mondo di farsi conoscere e far conoscere gli sport praticati. Sono gare molto difficili e sicuramente i campioni che gareggeranno saranno molto competitivi e ci regaleranno molte emozioni. L’Italia sarà rappresentata da 185 atleti. Tra i favoriti, fino a poco tempo fa, era stata Isolde Kostner, ma le notizie del suo ritiro dalle Olimpiadi, perché in attesa di un bambino, ha creato un po’ di dispiacere tra la stampa italiana e la nazionale azzurra. Ciò nonostante altri importanti atleti rappresenteranno degnamente l’Italia, come Carolina Kostner, alla quale toccherà, a soli 19 anni, portare la bandiera tricolore ai Giochi invernali, inoltre cugina di Isolde Kostner, che fu la nostra portabandiera ai Giochi di Salt Lake City (Stati Uniti) nel 2002. Torino, inoltre, non offre solo lo splendido spettacolo delle Olimpiadi, ma dà anche la possibilità a tutti i turisti di poterla visitare e ammirare tutte le sue meraviglie. Difatti a Torino si trovano grandiose costruzioni architettoniche:la Palazzinadi caccia di Stupiningi, uno dei più bei castelli sabaudi,la Mole Antonelliana, il Museo Egizio, il Palazzo Carignano, il duomo con la cappella della Sindone del Guarini, e tanti altri monumenti rinnovati proprio per questa occasione. Alle Olimpiadi sarà presente anche un pezzo della nostra Calabria, perché l’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria allestirà uno spazio espositivo all’interno del villaggio Olimpico di Cesana Torinese. Sarà questa un’occasione per far conoscere a tutti coloro che si recheranno ai Giochi le bellezze del nostro territorio, i suoi prodotti e l’artigianato locale, il suo patrimonio artistico e culturale. Quello dei Giochi invernali di Torino sarà un momento unico e indimenticabile che difficilmente le persone che amano e praticano degli sport dimenticheranno.

Annamaria Galati

28 marzo 2006 Convegno “Mare Tirreno”

Sabato 25 marzo ’06 al castello Ruffo di Nicotera VV) si è svolto il convegno “Mare Tirreno” , a cura del club internazionale Rotary di Nicotera, dedicato appunto al Tirreno che dagli anni ’60 , ’70 ha subito un lungo e progressivo degrado biologico. Organizzatore del convegno è stato il Professor Rocco Calabrò, presidente del Rotary Club di Nicotera Medma, sono intervenuti al meeting, l’Assessore alla Tutela dell’Ambiente e Difesa del suolo della Provincia di Vibo Valentia Matteo Malerba, il Professor Silvestro Greco, dell’Istituto Centrale Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare (ICRAM), e il Dr. Silvano Focardi, del Dipartimento Scienze Ambientali “G. Sarfati” Università degli Studi di Siena. I punti salienti del simposio sono stati meglio esplicitati dal Professore Greco, il quale ha affermato che la nostra Calabria, prima del deterioramento dell’ambiente marino subito in quegli anni e che ancora oggi subisce, ospitava numerose colonie di corallo rosso che, ormai, a causa dell’inquinamento progressivo, ha smesso di popolare il nostro mare. Inoltre le nostre coste, ha precisato Greco, hanno un indice di biodiversità comparabile a quello del Mar Rosso, ma purtroppo, probabilmente a causa di una cattiva gestione urbana, alcune fasce marine della Calabria hanno subito un grave danno biologico tale da causare la morte di ogni essere vivente. Gli effetti dell’inquinamento sul mare sono catastrofici, lo stesso effetto serra ha prodotto in pochi anni un riscaldamento delle acque tale da produrre un processo di alienazione di pesci ed animali marini che ha prodotto cambiamenti consistenti dell’ecosistema. Fortunatamente le nostre acque non subiscono un enorme innalzamento della temperatura, poiché il problema interessa solo la parte superficiale, mentre, al di sotto del termoclimo, abbiamo ancora una temperatura costante. Concludendo il suo intervento sulle problematiche che affliggono le coste del Tirreno, ha puntualizzato inoltre, che difendere e proteggere l’ecosistema terrestre ed in pricipal modo l’ambiente marino delle coste tirreniche non è un lavoro di cui si devono occupare solo politici ed autorità, ma della questione dovrebbe occuparsene ogni singolo cittadino, e pertanto tutti dobbiamo partecipare alla sua salvaguardia ed alla sua tutela poiché è un bene comune di tutti.

Domenico Spasari & Danilo Barbalace

25 maggio 2006 Scandalo orfanotrofi

Solo una minoranza dei bambini è adottabile. Per gli altri case-famiglia o affido. Chi sta in istituto è segnato per sempre. Questi bambini non sanno cos’è l’amore familiare Orfanotrofi: li chiamavano così una volta. Oggi il nome adottato, “diplomaticamente” più corretto, è “istituti per i minori”, ma in sostanza non è cambiato nulla. Immaginate un casermone stile militare che funge da riparo per 30, 40 e a volte anche centinaia di bambini di tutte le età. Di mattina ci si sveglia tutti alla stessa ora, si mangia a mensa, nessuno ti chiede ”com’ è andata oggi a scuola” o ti abbraccia o ti racconta una fiaba prima di addormentarti. Così si presentano gli istituti per i minori: lontani anni luce dall’idea di famiglia che chiunque possa immaginare. La legge sull’ adozione, la 149 del2001, haprevisto per il 31 dicembre 2006 la fine della vita dei cosiddetti “istituti per minori”. Tutto ok! Ci verrebbe da dire, quindi. Ma in realtà le cose non stanno così, perché siamo in Italia, e in Italia di leggi se ne fanno tante. Il vero problema è portarle a compimento, e quando i leader perdono credibilità, quando la loro immagine è fortemente intaccata da verità rivelatesi bugie, da promesse non mantenute, da scelte che non nascono dal perseguimento del pubblico interesse, ma dalla difesa del proprio utile, ecco che alle strette ricorrono a slogan che appaiono persino meno attendibili di loro. Pura demagogia illusoria. Da cinque anni dall’ entrata in vigore della legge il problema più grosso che si è venuto a creare è che gli istituti scompaiono, ma i minori permangono! Non si sa ancora dove andranno a finire, e come se non bastasse, né quanti di questi minori siano adottabili, né quando saranno pronte le strutture alternative che li accoglieranno; ma, peggio ancora, non si sa nemmeno quanti siano effettivamente questi bambini. Tra le tante, in proposito, si hanno due indagini, quantomeno attendibili, anche se largamente discordanti, e nessun censimento certo sui minori in istituto. Il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, con la propria ricerca risalente al 2003, parla di cifre che vanno dai 15 ai 20 mila bambini in istituto; per l’ISTAT invece, con la sua indagine del medesimo anno, la cifra si aggirerebbe sui 30 mila ragazzi in affidamento agli orfanotrofi. Uno scarto pazzesco, insomma, che al di là della diversa metodologia applicata dagli istituti di ricerca, mette in evidenza il punto forte, della nostra nazione: la politica, di cui possiamo essere fieri La questione principale è che i bambini adottabili sono un esigua minoranza tra quelli ricoverati in istituti e che in più per molti di loro la prospettiva di un adozione è più teorica che reale. Sta di fatto che le istituzioni sono in largo ritardo e in pratica dalla data di approvazione della legge niente è stato fatto di concreto. Le situazioni dei minori in istituto, poi, sono tante e disparate. Ci sono pochi ragazzi effettivamente abbandonati e adottabili e molti affidati alle strutture di accoglienza su richiesta del Tribunale dei minori, o perché la famiglia di origine non può o non è in grado di prendersene cura. Bambini che hanno bisogno di aiuto solo per un periodo determinato, e altri che in istituto sarebbero destinati a passarci la vita. Per tutti loro una verità: Chi esce da una struttura del genere difficilmente diventa un adulto indipendente e sereno. Troppe carenze affettive e un passato di abbandono che tronca sul nascere qualsiasi principio di autostima. Nel migliore dei casi, chi è stato in istituto è profondamente segnato. In Italia sono 6 mila oggi le famiglie che si prendono cura di un bambino come se fosse figlio loro, e molte migliaia di più le coppie che, non potendo avere bambini, decidono di adottarne uno. Il problema è che nel nostro paese la burocrazia è lenta, ma così lenta e piena di fantomatici intoppi, che delle migliaia di famiglie che desidererebbe adottare un bimbo, alla fine sono pochissime quelle che riescono a portare a termine le richiesta di tutela. La chiusura degli istituti, quindi, procede per vie distinte senza nessuna fretta; tanto ai bambini basta chiedere di aspettare, come hanno continuamente fatto.

Stefano Vigliarolo

16 ottobre 2006   L’Islam

La storia non ha sempre visto cristiani e musulmani in conflitto fra di loro. Nel medioevo l’occidente provato da invasioni e povertà riconobbe nell’Islam un modello di cultura e di scienza che avviò la rinascita del XII e XIII secolo. Poi vennero il tempo del disprezzo e dell’opposizione. In questo non fu incolpevole l’Umanesimo, preso dal mito dell’uomo misura di tutte le cose e del passato greco-romano che cancellava i secoli di mezzo. Oggi il dialogo è necessario per popoli costretti a vivere fianco a fianco. Un passo è stato fatto dal Concilio Vaticano II. Ma il problema è che, contrariamente a quanto pensiamo noi, gli arabi non vedono nel vaticano o nella chiesa cattolica una controparte, quanto piuttosto nella società e negli stati secolarizzati. Il dialogo, di fatto, con i cristiani che vivono nei paesi arabi è iniziato, ma è ancora ristretto e limitato. Dialogo invece non può esserci con un mondo occidentale che deride ogni religione ed ogni fede. La religione araba è profonda e per nulla ostile alle altre religioni. Essa è una via per la felicità e il benessere interiore e va rispettata da noi occidentali così come noi rispettiamo il buddismo o il taoismo. Per esempio è da considerare che il rapporto dei musulmani con il loro libro sacro, il corano, è assimilabile all’importanza della bibbia per ebrei e cristiani. La differenza sostanziale è che, mentre il Vangelo, e con esso il cristianesimo, è incentrato sulla persona di Cristo, il Corano si occupa di tutto, non solo di religione, ma spiega anche come comprare, vendere, sposarsi, ereditare, ecc… È davvero interessante, però, scoprire che concetti importanti per noi occidentali, come la giustizia sociale e l’orrore per il razzismo sono contenuti nel Corano. Tuttavia, bisogna anche essere realisti: il dialogo con l’islam non è così facile, perché ci sono delle condizioni oggettive che lo impediscono. I musulmani si sentono minacciati da un occidente che li sovrasta da un punto di vista tecnologico e militare. Per loro l’occidente coincide poi quasi con i programmi di varietà e i film trasmessi dalle televisioni, fatti di sesso, violenza e ricerca esasperata del guadagno. Tutto questo è in netta contrapposizione con quanto scritto sul Corano, ed è questo il motivo del forte contrasto alla diffusione della cultura occidentale. Forse non sarà possibile, quindi, un dialogo vero tra due culture così differenti, ma se almeno gli occidentali si presenteranno di fronte agli islamici più convinti della propria identità, della propria storia e dei propri valori, così come lo sono loro musulmani, allora vi sarà rispetto e comprensione reciproca.

Antonino Matina

 

20 dicembre 2006 Soho, Stereo e le comete sungrazer  

Soho il satellite lanciato in orbita dalla Esa e Nasa in collaborazione, ha compiuto 10 anni di lavoro. Molte scoperte sono state fatte dalle camere a bordo del satellite, ma certamente una nota speciale dobbiamo farla per le scoperte di comete. Il 5 agosto dell’anno scorso siamo arrivati a 1000 ed ora siamo oltre 1200. Le camere Lasco C2 e C3 stanno lavorando ininterrottamente da 10 anni, ci hanno permesso di vedere quello che mai avremmo potuto vedere da terra. Una specie di processione con una media di circa 110 comete per anno, alcune delle quali sono state osservate anche da terra. Ma una nuova avventura sta per cominciare.La Nasaha lanciato un nuovo satellite (anzi due), che riprenderanno la nostra stella 24 ore su 24. La missione Stereo è inizita con il lancio perfetto e stiamo aspettando che i due satelliti vengano immessi in orbita. Se tutto va secondo i piani, Stereo è in grado di scoprire le comete fino ad ora viste sa Soho. Stereo consiste di due satelliti quasi identici che osserveranno il sistema sole-terra da due differenti angoli, permettendoci di avere una visione stereoscopica del Sole, della sua atmosfera, della corona e delle CMEs (Coronal Mass Ejections). La principale fonte di immagini a bordo di Stereo è un sest di strumenti conosciuti come Secchi (Sun Earth Connection Coronal and Heliospheric Investigation). Ogni set di Secchi contiene 4 coronografi e un EUV. I coronografi (chiamati COR1, COR2, HI 1 and HI2) funzionano come le camere Lasco, bloccando la luce diretta del Sole con uno schermo occultatore, permettendoci di vedere la debole atmosfera della nostra stella. Ora, mentre attualmente le camere Lasco coprono una zona del cielo attorno al sole che va da circa3 acirca 32 raggi solari, i quattro coronografi Secchi coprono una zona che va da1.1 a215 raggi solari. Questo significa che coprono l’intera area tra il Sole ela Terra. Almomento quindi si può solo immaginare quello che saremo in grado di vedere nella immagini Stereo. Oltre naturalmente alla interazione tra il vento solare e la magnetosfera terrestre, sicuramente saremo in grado di osservare e scoprie le comete che si avvicineranno alla nostra stella. Come detto in alcuni articoli su Astronomia Uai, le comete sungrazer stimate sono circa 20000, oltre naturalmente quelle che non appartengono alla famiglia di Kreutz. Fino ad ora ne abbiamo scoperte circa 1200 con una percentuale bassa di comete non osservate a causa delle manutenzioni del satellite o perché troppo deboli. Ci aspettiamo che la frequenza di comete sungrazer aumenti notevolmente. Inoltre, nel range di magnitudine delle camere Secchi, possono rientrare anche quegli asteroidi che provenendo dalla direzione solare che non possono essere visti da Terra se non dopo il loro passaggio al perielio. Alcuni di questi asteroidi sono risultati pericolosi perla Terra. Comedicevo una nuova avventura sta per iniziare a cui puoi partecipare anche tu, basta un computer, una linea adsl e tanta tanta pazienza per imparare la tecnica di ricerca di comete, prima Soho prossimamente anche Secchi.

Toni Scarmato

21 febbraio 2007 Come un film horror

Sembra un film horror, ma non lo è! La storia di Dalia Sagliani è una di quelle storie che spezzano il cuore. Una ragazza dolce, generosa, appassionata di windsurf. Amava i bimbi di Capoverde, amava il loro sorriso e aveva imparato a conoscerli con i suoi viaggi nell’arcipelago. Per loro aveva raccolto del denaro, sparito dopo l’omicidio, e dall’Italia aveva portato con sé delle medicine destinate alla sorella del suo assassino. Quell’assassino che ha ucciso a colpi di pietre Giorgia, l’amica della ragazza, e ha sepolto viva Dalia, la sua ex. Un ragazzo apparentemente normale, ma con in testa un piano omicida: uccidere la donna che lo rifiutava. Ora Dalia può rivedere la sua mamma, morta qualche mese prima, e proteggere dall’alto quei bambini che tanto ha amato. Audinia Scappatura

18 marzo 2007 Dal produttore al consumatore

Un problema tossico-alimentare causato dalla discarica di Cessaniti

Dopo migliaia e migliaia di proteste, è ancora irrisolto il problema della discarica a pochi chilometri di distanza dal comune di Cessaniti. Proteste dunque inutili dove si evidenzia sia la pessima organizzazione di raccoglimento dei rifiuti dei vari cassonetti posti a Cessaniti e frazioni, e quindi degli orari di raccolta in discordanza con le norme, e sia l’inquinamento provocato dalla discarica stessa. Ovviamente tutti sappiamo che il sacchetto con i rifiuti si produce nelle nostre case. Dentro ci sta di tutto: avanzi alimentari, rifiuti igienici; scartoffie, medicinali, ecc… finisce così nel cassonetto dell’immondizia. Il giorno dopo, se siamo fortunati, viene trasportato alla discarica ma dopo qualche giorno a causa della decomposizione naturale, ne viene fuori un miscuglio di sostanze gassose tossiche. Se qualcuno vuol sentire la fragranza, basta percorrere la strada che da Cessaniti porta al campo d’aviazione. Di giorno le correnti d’aria sono ascensionali, cioè vanno dal mare verso la montagna ma senza condensazione, ed i guai infatti si verificano nella notte quando le correnti d’aria invertono la loro direzione, cioè dalla montagna vanno verso il mare trasportando con essi tutte quelle sostanze tossiche nei campi coltivati, depositandosi quindi sui nostri ortaggi, frutteti, vigneti, uliveti, e tutto il resto dei prodotti appartenenti all’agricoltura ritornando così sulle nostre tavole con il solo imbarazzo di come consumarle. Tutto questo solo perché c’è una scarsa qualità d’impegno da parte dell’amministrazione comunale, a cui è stato affidato il compito, nel compiere il lavoro, di un importante settore come quello dello smaltimento dei rifiuti. L’inquinamento di un’area causato dai rifiuti è direttamente proporzionale alla quantità di essi, maggiore è la quantità maggiore sarà l’area interessata, e questo impone un intervento immediato perché la situazione così andrà avanti solo peggiorando.

Francesco Cascasi

21 marzo 2007 15 marzo un giorno all’insegna della legalità.

Giovedì 15 marzo, nella sala convegni del nostro istituto, si è tenuta una conferenza sulla legalità, presieduta da Don Nino Vattiata, a cui hanno partecipato le classi quinta H, E, M. Don Nino è un rappresentante dell’ associazione “Libera”, nata da un’ idea di Don Ciotti dopo l’omicidio dei due magistrati Falcone e Borsellino, e si batte contro l’illegalità. Questa associazione gestisce i beni confiscati alla malavita e usa i terreni per coltivare prodotti tipici del posto per poi rivenderli, anche all’estero. Qui a Vibo, questa associazione è nata da poco, soltanto il 28 dicembre 2006. Questa è suddivisa in quattro aree: anti-racket; dei diritti dei lavoratori; dell’arte, scuola e cultura; dei beni confiscati alla malavita. Don Nino ha spiegato che nel meridione siamo offuscati da una mentalità mafiosa da cui noi dobbiamo riuscire a liberarci, ma questo si può fare solo cambiando modo di pensare. I primi a dover denunciare i malavitosi dovrebbero essere i commercianti che sono oppressi da questi che richiedono sempre il “pizzo”. I commercianti però hanno paura, perché a differenza dei pentiti a cui è assicurata protezione, i testimoni di giustizia sono abbandonati alla propria sorte senza nessun tipo di protezione, proprio come è accaduto per Pino Masciari. Inoltre i malavitosi hanno così tanti soldi da poter pagare i migliori avvocati e, tanto per cambiare, anche se fossero arrestati, il giorno successivo sarebbero già a piede libero, continuando a fare la vita di sempre. Comunque, noi dobbiamo avere fiducia nello Stato e nella giustizia, dobbiamo essere coraggiosi, dobbiamo unirci e batterci per la legalità, perché si può fare di più con la prevenzione e non con la repressione. Infine Don Nino ha invitato tutti noi calabresi alla manifestazione contro la malavita che si terrà il 21 marzo a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, a cui parteciperà tutta Italia e interverranno anche i familiari dei caduti per mano mafiosa. Ad una semplice domanda, “perché proprio Polistena”, Don Nino ha risposto semplicemente che Polistena è la prima realtà liberata dalla malavita e dove è nata la cooperativa “Valle del Marro”, proprio su un terreno confiscato ai mafiosi.

Alessandro Simone

22 ottobre 2007 Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura

Doris Lessing è una scrittrice inglese, nata in Iran il 22 ottobre del 1919, ma vissuta in Africa. Solo pochi giorni fa, al ritorno a casa, le è giunta la notizia di aver vinto il premio Nobel per la letteratura e le sole parole che le son venute da dire sono state: “ Oh, Cristo!” L’accademia di Svezia aveva selezionato quindici saggi, ma la scelta è andata proprio a lei, a Doris Lessing con il libro “Taccuino d’oro”, considerato da molti studiosi un classico della letteratura femminista.

Il motivo di questa scelta è dovuto al fatto che è stata in grado di descrivere una civiltà divisa. Dalle interviste si definisce una donna cinica, infatti non viene mai meno ad esprimere la sua opinione in un argomento di qualsiasi tipo. Ha vissuto momenti della storia terribili e come definisce lei  “immortali” e questo forse ha contribuito a dare forza al suo carattere. La sua prima opera è stata “L’erba canta” nel 1950 fino a giungere poi a quello del 2004 “Le nonne”.

Le sue opere si dividono in tre periodi: il comunismo quando scrive su temi sociali, il tema psicologico e il sufismo che viene esplorato nella serie Canopus in Argos, considerato il suo libro preferito. E’ pur vero, però,  che le sorprese arrivano quando meno te lo aspetti, ma non è mai troppo tardi ricevere un premio per l’abilità di saper scrivere anche se a 85 anni. E oggi, 22 ottobre 2007, che è giorno del suo compleanno, le facciamo tantissimi auguri.

Annalisa Comerci

 

3 novembre 2007 La suggestiva infiorata di Potenzoni

Potenzoni è un piccolo paese nel Comune di Briatico (VV), situato su una collina verdeggiante non troppo lontano dalla costa, e gode di tutti i benefici dell’aria marina. Dalla sua naturale tranquillità osserva tutto il suggestivo panorama del golfo di Sant’Eufemia. In questo luogo regna una spiritualità congenita che sta emergendo, massimamente con la rigorosa collaborazione tra il parroco e i parrocchiani in genere, e tra questi la benemerita congrega Gema e alcuni giovani volenterosi e capaci. Da questa preziosa collaborazione, nascono numerose iniziative, tutte celebrate con entusiasmo corale. Fra queste, 15 anni fa è nata l´Infiorata, svolta il giorno del Corpus Domini. La data della sua celebrazione fu fissata il giovedì seguente alla prima domenica dopola Pentecoste; attualmente il rito viene invece celebrato la domenica successiva.

L´Infiorata, come tante altre iniziative, ha la capacità di coinvolgere tutti, dai bambini agli anziani, e di attirare numerose persone da ogni parte della Calabria, nonché da più lontano.

Ogni anno, il giorno del Corpus Domini, prima ancora dell’alba, tutti gli abitanti del borgo, dal più piccolo al più anziano, sono svegli e già in opera per ornare le proprie vie con tappeti multicolori; tutti segni della propria fede e della propria gioia perché in serata il Signore passerà benedicente in ogni via del paesino. La tradizione vuole che giovani, adulti e bambini si avventurino nei campi per la raccolta delle qualità più svariate di fiori e perfino gli anziani, forniscono il loro prezioso contributo, collaborando a “spennacchiare” le molteplici qualità floreali, i cui petali saranno adoperati come i colori nella tavolozza di un artista. I fiori raccolti e divisi per colori e qualità verranno poi conservati in appositi stanzoni. Si vive così una giornata comunitaria in cui si mangia e si gioisce insieme. L’amore e la devozione per il Signore Gesù anima la voglia di tutti gli abitanti del paese che s’impegnano ad ornare le vie per onorare il passaggio del Signore in mezzo a loro. Nella scelta dei quadri vi è il primo incontro tra gli artisti dei vari rioni; già molti giorni prima i giovani tracciano i vari disegni, ispirati alla nostra tradizione cristiana, che adorneranno le vie in cui passerà l’Eucarestia. Per accogliere il Signore che passa le vie sono inoltre adornate dalle bandiere tipiche di ogni rione, nonché da bellissime piante; agli angoli maggiormente espressivi vengono allestiti i caratteristici altarini, dove e durante la processione, con il Santissimo verrà benedetto e consacrato l’intero rione. Anche la vena artistica presente nei più giovani viene valorizzata, ogni rione dedica ad essi, un angolo, in cui poter esprimere in libertà, le loro doti. Il momento culminante di questa solenne giornata, si vive durante la celebrazione Eucaristica, dove tutta la popolazione, prima impegnata ad ornare il paese, ora partecipa con assoluto raccoglimento e con assoluta devozione. Il borgo antico è diviso in 4 rioni i cui nomi si ispirano a ricordi storici sulle caratteristiche delle zone, i loro nomi sono Agave, Chiesa, Glicine e Torre.

Per valorizzare l’attività artistica viene indetto un concorso che premia il talento dei rioni; vengono cosi premiate le migliori realizzazioni artistiche, tenendo presente del miglior quadro, del migliore insieme e del miglior altarino. Il concorso prevede inoltre una valutazione distinta delle realizzazioni dei bambini e ragazzi al fine di stimolare l’espressione del loro talento artistico. La premiazione avviene 8 giorni dopo, con la presenza dell’assessore provinciale al turismo. Un appropriata commissione presiede al concorso e valuta le creazione dei diversi rioni. Al primo classificato verrà consegnato il gonfalone del paese e a tutti in maniera al quanto proporzionale, una piccola somma in denaro, offerta dalla provincia di Vibo Valentia. Vi è inoltre un premio a parte, offerto dal parroco padre Lorenzo Di Bruno, al rione che in modo migliore ha realizzato i tappeti. Al termine della santa messa il passaggio di Gesù Eucarestia al di sopra dei tappeti floreali che ornano il centro antico del borgo, consacra e benedice tutto il paese e il lungo lavoro realizzato in suo onore. La totale celebrazione si concluderà, poi, con una bella serata comunitaria, organizzata negli spazi del rione vincente Con questa grande celebrazione, il paesino di Potenzoni, non altrettanto piccolo in riguardo a fede, dimostra pubblicamente la sua devozione nell’importante sacramento che è l’Eucarestia.

Elena Aprile

 

 

7 aprile 2008 L’Etna: un vulcano che affascina

Anche se sono passate un paio di settimane dal 07/03/2008 non possiamo dimenticare l’incredibile escursione avvenuta sull’Etna, probabilmente la più grande opera naturale europea più vicina a noi. Basti pensare che il vulcano Etna viene identificato simbolo di una natura distruttrice in quanto causa di perdite di vite umane e disastri ambientali.

La partenza è avvenuta in  orario non proprio ideale (6:30 di mattina), davanti alla biblioteca comunale in una mattinata poco soleggiata. Il gruppo era composto dai docenti di Scienze, prof. C. Pappa , prof.ssa L. Sorace, prof. A. Galati e da studenti  delle classi 5I,5D,5E,5G,5H. Dopo aver traghettato ci siamo avviati verso Catania, per giungere alla  prima tappa del nostro tour: l’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dove siamo stati accolti calorosamente dal responsabile  dell’unità funzionale, il quale ha tenuto una lezione riguardante il concetto di rischio sismico/vulcanico, dei meccanismi di mitigazione e di prevenzione nonché della dinamica di eventi sismici e dei fenomeni vulcanici.

Abbiamo, poi,  potuto visionare le apparecchiature dell’Istituto: sismografi e computers che raccolgono i dati, i primi in analogico e i secondi in digitale, delle attività di Stromboli, Vulcano e dell’Etna; la rete di sorveglianza che permette ai ricercatori del centro il monitoraggio video dei suddetti vulcani 24 ore su 24.

Rientrati in hotel, dopo aver pranzato, abbiamo visitato Aci Trezza  col suo meraviglioso litorale sede  di affioramenti di basalto colonnare.

Abbiamo raggiunto alla fine del pomeriggio Catania, dove si è fatto shopping lungo la via Etnea e il Centro.

Soddisfatti e affamati ci siamo avviati nuovamente all’albergo situato a Nicolosi.

Dopo una lunga notte, la mattina seguente abbiamo raggiunto il versante sud dell’Etna, e grazie ad un esperto che ci ha fornito l’abbigliamento adeguato, abbiamo potuto iniziare l’escursione che ci ha permesso di scalare parte del monte vulcanico nonostante i numerosi centimetri di neve. Abbiamo così constatato, per la prima volta, la reale grandezza del complesso vulcanico (3323 metri3 ). Abbiamo raggiunto i Crateri Silvestri Superiori dove un abile esperto ci ha fatto da guida ed ha tenuto una lezione sulla tettonica, l’evoluzione e i regimi eruttivi dell’Etna, illustrandoci i prodotti della attività vulcanica. s.l.m,150 km di perimetro di base, volume500 km

Ci ha colpito vedere ancora  la neve i primi di marzo sui versanti dell’Etna, scolpiti dalla mano di una natura non contaminata dall’uomo quanto mai spettacolare: un paesaggio quasi irreale, come se fossimo su un altro pianeta.

Prima di salutare la splendida Sicilia abbiamo trascorso gli ultimi momenti per uno sfrenato shopping per le vie di Messina.

Come tutte le cose belle anche questa volge al termine. Sul pullman che ci riporta a casa il viaggio è allietato dalla simpatia di tutti i partecipanti. Siamo arrivati a Vibo Valentia giusto in tempo per festeggiare la festa delle donne.

Moscato Alessia – Currao Giuseppina  – Arena Chiara

 

 

 

9 ottobre 2008 II nuovo istituto “G. Berto”: realtà o solo un sogno?

Ancora brutte notizie per gli studenti del  Liceo Scientifico “G. Berto”  di Vibo Valentia .

Anche se è  solo questione di tempo, sembrerebbe ormai certo che gli studenti di questo istituto non potranno mai frequentare l’edificio che qualche mese fa è nato per dare alloggio a tutti coloro che si trovavano a fare lezione nella sede succursale situata vicino la clinica “Villa dei Gerani”.

Ma quel che  è peggio è  sapere che questi ragazzi dovranno ancora svolgere le lezioni, per tempo indeterminato, nei  garage  adibiti ad aule e nei vari laboratori scolastici.

Tutto ha avuto inizio l’11 settembre. Gli alunni  si sono recati entusiasti a scuola per l’inizio di un nuovo anno scolastico, ma ciò che hanno appreso ha lasciato loro e gli stessi docenti senza parole. Le aule a disposizione non erano sufficienti, dieci erano le classi che avrebbero potuto spostarsi nell’edificio accanto, sebbene ancora il secondo piano dello stesso non fosse completato, ma alcuni problemi tra costruttore e Provincia non hanno reso possibile l’apertura della nuova scuola.

Ed ecco  che sono iniziati i primi rimandi.

All’inizio era questione di giorni, poi di una settimana, alla fine neanche un mese è bastato a risolvere i problemi. Continue sollecitazioni sono partite dal Dirigente Scolastico dell’Istituto e dagli stessi studenti, i quali si sono recati personalmente presso la sede  della Provincia per chiedere spiegazioni e cercare di affrettare i tempi. Le risposte ricevute hanno solo alimentato la speranza dei ragazzi di varcare un giorno la soglia della nuova scuola, che si presenta attualmente del tutto accessibile ad ospitarli. “Il nostro obiettivo è quello di fare presto, anche perché se l’accordo dovesse saltare la Provincia intende procedere ad avviso pubblico per reperire altri locali da destinare alle aule in esubero del Liceo Scientifico” è ciò che è stato dichiarato dal Presidente  della Provincia Francesco De Nisi in una sua intervista alla stampa del 06 settembre u.s. ed è ciò che è stato poi ripetuto, a distanza di settimane, a tutti coloro recatisi  per chiedere  informazioni, tra cui gli stessi genitori dei ragazzi, anche se, ancora oggi, nessuno spiraglio di risoluzione è stato cercato, e più passa il tempo e più aumenta la convinzione che questo non accadrà mai, offendendo così la sensibilità e l’intelligenza degli stessi studenti. Il continuare a lavorare in locali (laboratori e garage) e stanze non adeguate a svolgere le lezioni, perché troppo piccole, non li mette di certo nelle condizioni di continuare ad essere ancora tolleranti e pazienti alle tante illusioni che sono state date loro solo per tenerli sotto controllo. I ragazzi però, sono fermamente convinti di voler insistere ancora per garantire la tutela dei loro diritti che pretendono siano rispettati.

Anna Chiara Meddis

Sabrina Tambuscio

28 ottobre 2008 Pullman di tifosi si ribalta

L’ uomo di oggi, a volte disorientato, privo di entusiasmo e di gioia di vivere, trova nello sport la possibilità di godere la vita, di migliorare il corpo, di rafforzare la mente, ha, cioè, modo di perseguire l’ ideale del corpo di atleta e della mente di saggio. Gli antichi avevano inteso il valore di questo ideale e i contemporanei lo stanno scoprendo sempre più. Molte persone praticano dello sport, ma necessariamente tra tutti i praticanti un’ attività sportiva, non manca il campione a cui sono riservati amore, gloria e denaro. Lo sport attuale è animato anche da interessi economici e da esagerati fanatismi che non hanno nulla a che vedere con gli ideali della sportività, della lealtà, della sana competizione e dell’educazione fisica e morale.

A mio parere oggi lo sport è prima di tutto affare- industria, affare -evento “mass-mediale”, è un prodotto da reclamizzare che purtroppo può diventare una violenza . Molti tifosi vanno a fare il tifo allo stadio per la loro squadra del cuore, ma oggi non si può parlare di semplice tifo allo stadio; le partite di calcio ci hanno insegnato a distinguere i tifosi dai teppisti che popolano gli stadi e trasformano un momento di piacere in uno di odio e di violenza.

A volte si verificano tragedie che superano qualsiasi risultato sportivo  anche fuori dagli stadi come ad esempio la sera di martedì 21 ottobre 2008. Si tratta della morte di due persone, gli autisti del pullman che si è schiantato in Valle d’ Aosta, a Etroubles, nel pomeriggio.

Nell’ urto terribile sono rimasti feriti anche una trentina di tifosi che si stavano recando a Torino per assistere al match di Champions League. La strada che dall’uscita del tunnel del Gran San Bernardo scende fino alla fazione di Etroubles è in forte pendenza con curve particolarmente impegnative, non basta solo prudenza, bisogna anche conoscere i tornanti. Il torpedone era partito da Neuchatel in mattinata, a bordo c’ era un’ atmosfera di festa, nessuno poteva immaginare che da lì a poco sarebbe successo un vero dramma: ma già dai primi tornanti, si erano accorti che l’autista  scendeva troppo veloce e che non aveva dimestichezza con le curve.  Poi… lo schianto.

Gli abitanti di Etroubles, comune poco meno di 500 residenti, situato a26 chilometricirca da Aosta, hanno raccontato di aver visto il pullman sfrecciare lungo la statale 27 prima del fortissimo impatto. La scena dell’ incidente, così come si è presentata a soccorritori e forze dell’ordine, è stata spaventosa, i corpi dei due autisti erano rimasti intrappolati tra le lamiere e solo dopo l’ arrivo del magistrato sono stati ricoverati all’ ospedale d’ Aosta. A tarda sera, il bilancio dell’ incidente era ancora provvisorio ma dalle prime ricostruzioni appare chiaro come la tragedia  avrebbe potuto assumere dimensioni più gravi. Juventus e Real Madrid hanno osservato un minuto di raccoglimento in memoria delle due vittime e la società bianco nera ha espresso il”proprio cordoglio e la propria vicinanza alle famiglie delle vittime e ai tifosi feriti”.

Ilaria  Asturi

11 novembre 2008 Barack Hussein Obama

Barack Hussein Obama, candidato del partito democratico americano, è il nuovo presidente degli Stati Uniti . Questo il verdetto delle elezioni presidenziali che si sono svolte il 4 novembre2008. Habattuto largamente il proprio antagonista, McCain. Votato da giovani e intellettuali progressisti, Obama, è il primo presidente nero della storia americana. Una novità che dimostra la vitalità di una democrazia in grado di superare remoti pregiudizi sulla razza e sul colore della pelle. Una società, quella americana, aperta e capace di portare ai propri vertici una persona ritenuta dotata di grandi qualità.

Barack Obama è nato il 4 agosto del1961 aHonolulu.

Dopo il liceo, studiò per un paio d’anni all’Occidental College, prima di spostarsi al Columbia College della Columbia University. Là si laureò in scienze politiche, con una specializzazione in relazioni internazionali. Si trasferì poi a Chicago per dirigere un progetto che assisteva le chiese locali nell’organizzare programmi di apprendistato per i residenti dei quartieri poveri nel South Side.

Nel 1988 lasciò Chicago per tre anni per studiare giurisprudenza ad Havard. L’impegno politico di Obama cominciò nel 1992, anno in cui, dopo un’aggressiva campagna elettorale, aiutò il presidente Bill Clinton nelle elezioni presidenziali, portandogli circa 100.000 voti. Personaggio abbastanza conosciuto a Chicago, dove lavorando in uno studio legale si era occupato di diritti civili, nel 1993 favorì l’elezione al Senato di Carol Moseley Braun, prima donna afro-americana  a diventare senatrice.

Comunque, quello che anche solo un anno fa nessuno avrebbe ritenuto possibile, dunque è successo. Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Sul suo cammino c’erano ostacoli come antagonisti già dati vincitori in partenza, come Hilary Clinton.

Ma per Barack Obama non sarà facile passare dalle parole ai fatti ed evitare al suo paese una fase di recessione, a causa delle casse pubbliche vuote. Sta iniziando a prendere forma la nuova amministrazione di Barack Obama. All’indomani del suo trionfo elettorale, il neo-eletto presidente ha già assegnato il primo incarico importante. Capo di gabinetto sarà il deputato di Chicago Rahm Emanuel, 48 anni, stretto collaboratore di Obama.

Secondo il programma che ha illustrato durante la campagna elettorale, Obama mi sembra molto propenso ad agevolare la scuola e la sanità pubblica, fonti, a mio parere, di grande rilevanza in uno Stato democratico, anche se il dialogo che lui vorrebbe avviare con l’Iran, mi pare al momento  poco probabile vista la situazione attuale.

La sua elezione è una forma di ribellione verso le guerre insensate, quindi una ventata di realismo, dove la povertà può diventare una condizione comune e non una realtà dei “quartieri neri”.

Le sue origini umili fanno di lui un’ottima guida per una grande potenza come gli Stati Uniti.

Spero, tuttavia, che l’obiettivo di Obama sugli investimenti nelle energie rinnovabili trovi il giusto sostegno e possa giungere a compimento.

In lui vi sono riposte le tante speranze non solo del popolo americano, ma di tutto il mondo.

Domenico Piro

17 marzo 2009 Il miglior amico dell’uomo non si smentisce mai!

I due stupratori fuggono, ma il dramma grazie a un cane non si trasforma in tragedia.

Mantova – Violentata una ragazza di soli vent’anni. Il 20 gennaio la vita di Giovanna Rizzo  cambia radicalmente, rovinata da due uomini di circa cinquant’anni. Uomini? No, bestie! Di sera, la ragazza, studentessa della facoltà di medicina di Mantova, terminate le lezioni, si reca da sola alla fermata dell’autobus non molto lontana dalla sede universitaria. Ad un tratto dei rumori! La ragazza viene afferrata all’improvviso e violentata da due malviventi di origine russa. Le grida e le urla della povera ragazza, che in realtà non è altro che una bambina indifesa, non servono a sottrarla a questa tragedia. Ma ad un certo punto, ecco la salvezza! Il migliore amico dell’uomo non si smentisce mai. Un semplice cane, di razza Terranova, giunge sul luogo e, aggredendo le due “bestie”, riesce a far scappare i due malfattori. Grazie al cane “salvatore” il dramma non si è trasformato in tragedia.  “Mi hanno rovinato la vita”, afferma la ragazza con voce rotta dal pianto. “Sento ancora sul mio corpo le loro mani, il loro respiro, il loro sguardo malvagio. Mi torna in mente tutto, i miei occhi che si perdono nei loro, nel nulla più profondo”. Cosa sarebbe successo se non fosse arrivato il cane il cane “salvatore”? Cosa avrebbero continuato a fare alla povera  Giovanna? Parole piene di ira soprattutto da parte dei genitori :”Giustizia!”

La cronaca è colma di questi episodi che a volte, nel peggiore dei casi, si concludono con l’uccisione della ragazza violentata. Si chiede un intervento da parte dello Stato e una collaborazione da parte della autorità per fare Giustizia. In questo mondo, appassito e reso orrido da uomini come queste “bestie”. Dante aveva visto bene! Esiste un inferno, un cono rovesciato organizzato in cerchi, in ognuno dei quali viene punita una colpa, i peccatori dai meno malvagi ai più crudeli. Peccato che non sia così anche nella realtà! Lo Stato non è finora riuscito a istituire una linea veramente dura, con provvedimenti seri, come aveva fatto, moltissimi anni fa, il nostro caro Dante. Dopo l’identikit fornito dalla ragazza, si attende la cattura dei disgraziati e gli adeguati provvedimenti da parte dello Stato.

Ilenia Viola – Caterina Marcianò

Caterina Scuglia  – Alberto Arena

 

3 aprile 2009 L’operatore d’oro

Si è tenuta il 31 Marzo alle ore 9:30, nella sala del Valentianum a Vibo Valentia la manifestazione intitolata “L’operatore d’oro” con il motto rivolto ai ragazzi: “Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo”. All’incontro erano presenti: i presidi del Liceo classico Michele Morelli, del Liceo Scientifico “G. Berto”, dell’Istituto Prof. Serv. Comm. e Turistico “N. De Filippis”, dell’Istituto di Istruzione Sec. Superiore “Vito Capialbi” e dell’Istituto Professionale di Stato “G. Prestia”, tra l’altro promotori dell’iniziativa che si porta avanti ormai da tre anni. Le figure che in questa terza edizione hanno ricevuto il premio “L’operatore d’oro” sono state il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Salvatore Boemi, il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Francesco Scuderi,  e Bruno Nardo, docente dell’università di Bologna e primario dell’unità operativa di chirurgia dei trapianti nell’ospedale Annunziata di Cosenza.

Il primo tra i premiati a prendere la parola dopo i vari interventi degli altri ospiti, è stato Salvatore Boemi che ora insegna diritto all’università della Calabria e che ha deciso di parlare direttamente alla marea di studenti che ha popolato  la sala. Egli ha voluto denunciare l’illegalità  ormai molto diffusa, spesso tra i ragazzi, dicendo che bisogna stare molto attenti alle scelte che si decidono di seguire, alle varie compagnie che si frequentano e si deve cercare di migliorare la società in cui viviamo.

I principi fondamentali su cui si è basato il suo discorso sono stati tre, il primo: il dovere di riflettere sul futuro dei giovani e rifletterci per bene per non cadere in mani sbagliate; il secondo: cosa scegliere di fare nel proprio futuro e quindi prendere una decisione giusta e personale che permetta loro di vivere al meglio la vita  e il terzo trattava le varie conseguenze a cui si potrebbe andare incontro se non si cerca di costruire un buon futuro. Ha affermato che senza scelte si rischia di non essere protagonisti della propria esistenza. Ha aggiunto anche che la vita di ogni singola persona dipende dalle scelte effettuate e proprio per questo bisogna impegnarsi per agire costantemente nel bene.

Per quanto riguarda la mafia, che è la causa principale dello sviluppo dell’illegalità meridionale, ha voluto specificare che non è più un’associazione segreta, in quanto si conoscono ormai tutte le famiglie che appartengono a questo ramo della malavita e si può addirittura capire dove, al giorno d’oggi, agisce.

Dopo il suo discorso, seguito da un lungo applauso, la parola è passata al dott. Bruno Nardo. Quest’ultimo è nato e ha studiato a Vibo Valentia. Ha iniziato a lavorare a Bologna come chirurgo ma ora lavora nell’ospedale di Cosenza; si è dimostrato soddisfatto per aver saputo che dopo il suo trasferimento in Calabria, il numero dei pazienti a Bologna è diminuito e non poteva che essere fiero di questo.

La sua scelta di vita è stata definita dal giornalista calabrese Pino Nano, una sfida. Ma il dottore Nardo ha voluto ricordare che non è il solo a partecipare a questa sfida, ma molta altra gente combatte come lui per costruire una Calabria migliore, lontano dalle telecamere.

Un modo per poter vincere è quello di seguire gli stili di vita di buoni modelli; lui per esempio, ha seguito il nonno, che come lui era un dottore e il suo professore di chirurgia che svolge il proprio lavoro con tanta passione e amore. Nel lavoro del medico si ha sempre paura che un giorno possa arrivare insieme alle bollette qualche avviso di garanzia a causa della malasanità, “Ma per fortuna- ha detto – sono solo multe per eccesso di velocità sulla strada che collega Cosenza a Bologna!”

È stata una manifestazione molto interessante e spero vivamente che stavolta non siano state solo parole sentite, ma parole ascoltate e anche messe in pratica.

Chiara Fusca

17 ottobre 2009 Obama conquista il mondo con la pace
Inaspettato il premio Nobel che ha ricevuto il Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama. Primo uomo al quale viene conferito il Premio Nobel per la pace, non per le cose che ha fatto, ma per quelle che intende fare. Il presidente statunitense, in carica da soli nove mesi, si è prefisso alcuni obiettivi molto impegnativi. Uno fra tanti è quello di normalizzare i rapporti tra est e ovest affinché il muro che divide il mondo, fondato sulla differenza di fede, razza e religione, venga abbattuto. Il mondo in cui Obama vuole vivere, è un mondo fondato sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma, prima di raggiungere questo obiettivo c’è molta strada da percorrere, perché il presidente statunitense deve fare i conti con un Paese allo sfascio, con molti problemi politici, sociali ed economici. Obama, però, a differenza dei suoi predecessori ha la capacità di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e di dare alle persone maggiore speranza per il futuro. Questo perché la sua diplomazia è fondata sul concetto che coloro che guidano il mondo devono farlo sulla base di valori condivisi dalla maggioranza della popolazione mondiale.
L’assegnazione del Nobel per la pace ad Obama, ha diviso l’opinione pubblica. Alcuni non pensano sia un premio meritato per ciò che Obama ha fatto, ma per gli impegni molto importanti che si è assunto e soprattutto, per gli sforzi fatti per un mondo senza armi nucleari.
Per altri invece, questo è un premio assegnato all’apparenza, cioè a quello che il presidente dice di voler fare e non a quello che ha fatto. Per cui, questa premiazione sarebbe assurda e priva di una base concreta. Ma Obama ha affermato che questo riconoscimento è uno stimolo a lavorare ancora più duramente, ma soprattutto che questo premio va diviso con chiunque nel mondo lotti per la giustizia e la dignità di ogni uomo.

Angela Iozzo

18 gennaio 2010 Scappano via i fratelli africani

Rosarno –  Una tragica settimana nella provincia di Reggia Calabria che ha coinvolto l’intera la regione e l’Italia tutta, accompagnata dalle discussioni dei parlamentari e dalle testimonianze dei cittadini coinvolti. Giorni di tensione e tristezza dove è emersa, sfortunatamente per la nazione, l’incapacità degli italiani di avere un dialogo solidale con gli ospiti emigrati dai loro paesi con la speranza di una vita migliore,e  non semplicemente in cerca di fortuna. La parola sfruttamento, utilizzata spesso in questi giorni, non è servita a spiegare il modo in cui è stata annichilita la dignità dei lavoratori di colore, non è riuscita a spiegare la bassezza delle loro condizioni chiamate riduttivamente misere. Vivere, anzi tentare di sopravvivere, in una cartiera squallida, chiamata dalla popolazione “La Rognetta”, una volgare denominazione che però rappresenta precisamente un luogo dove più di 300 extra-comunitari hanno condiviso cibo, alloggio, problematiche e “paghe”, se così si possono chiamare quei 20 euro che percepivano in nero a fine giornata. Erano considerate persone? Senza uno straccio di carta che indicasse i loro nomi e cognomi, la provenienza e lo stato sociale, questi individui erano ridotti a semplici lavoratori in nero, sfruttati forse perché abusivi o per il colore della pelle?Presi di mira dai giovinastri, perseguitati giorno per giorno dalle loro bravate, sono arrivati a non poterne più di ricevere oltraggi e subire soprusi. I ragazzi di Rosarno, nell’ennesimo “gioco” contro gli africani, hanno sparato alle gambe di uno di loro, ferendolo e facendo nascere il panico nel loro gruppo. Gli extra-comunitari in preda al terrore e accecati dall’ira hanno dato inizio ad una sorta di battaglia con la cittadinanza di Rosarno, aggredendo le abitazioni ed i veicoli dei cittadini. Molte famiglie hanno assistito alla distruzione delle loro case o delle vetture dentro le quali si trovavano. Le forze dell’ordine hanno cercato di riportare la calma in questa terribile situazione che vedeva uomini accecati dalla rabbia, incomprensione da parte dei politici, che si sono limitati a condannare banalmente gli atti violenti esplosi per le strade. Conseguenza di questo evento è stata una fuga dei fratelli africani, che fino a pochi giorni fa appartenevano ad un mezzogiorno che vive di un’economia povera e spesso obsoleta, ma soprattutto che non è in grado di far fronte alle diverse problematiche legate al sociale e in particolar modo, ovviamente, non è in grado di offrire la giusta accoglienza a quanti chiedono ospitalità e lavoro. Il ritorno in patria di questi uomini è paragonabile ad una seconda migrazione, un tornare indietro portandosi addosso un’amarezza ed una delusione inimmaginabile per noi. Le autorità locali e statali non hanno fatto una dovuta analisi del fenomeno scoppiato nel sud Italia, la repressione e le polemiche sono state le protagoniste di questa orribile pagina della storia italiana.

Francesco Messina

23 gennaio 2010 Reggio Calabria: lo Stato appoggia la lotta contro la mafia nella giornata della legalità.

Il 21 gennaio si è tenuta a Reggio Calabria, presso il Liceo artistico statale “Mattia Preti”, la giornata della legalità, nella quale sono stati accolti da alcuni studenti calabresi e dalle più importanti cariche regionali il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il Ministro della Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini . L’evento è stato dedicato al “giudice solo”, Antonino Scopelliti, un servitore del nostro paese che negli anni in cui l’Italia è stata disintegrata dalla mafia e da altre organizzazioni ha cercato di limitare i danni prendendo parte a numerosi processi che hanno in qualche modo fermato questa piaga sociale. Sono state molto commuoventi le parole della figlia, Rosanna, che ha fatto un lungo discorso sul padre ucciso dalla ndrangheta e del quale ancora oggi dopo 19 anni non si conoscono i nomi degli assassini. Un uomo che a suo parere è da paragonare ad un albero di ulivo, aggrappato alle sue radici e capace di crescere anche nei terreni più difficili. “La realtà che non riesco ad accettare è cha la mafia ha emesso una condanna a morte nei confronti di un uomo che ha la sola colpa di essere un servitore dello Stato”. Così lo ricorda Rosanna Scopelliti che è ora Presidente dell’associazione antimafia fondata in memoria del padre. Durante questa giornata, mentre alcuni ospiti erano impegnati a fare interventi esponendo le proprie idee riguardo la situazione sociale in Calabria, le forze dell’ordine di Reggio hanno trovato un automobile abbandonata con un vero e proprio arsenale dentro. Dopo alcune indagini preliminari si suppone che questo sia stato un gesto intimidatorio da parte delle cosche locali nei confronti del capo delle Stato Giorgio Napolitano. Quest’ultimo nel suo discorso si è soffermato in particolare sui fatti avvenuti a Rosarno nelle ultime settimane, rendendo pubblico il piacere provato quando ha ascoltato una bambina che raccontare la sua storia. Una bambina di origine polacca venuta a vivere insieme alla sua famiglia in Italia, a Rosarno, che difendeva questo paese dicendo di essersi trovata sempre bene, di avere tanti amici e che la maggior parte degli abitanti rosarnesi sono tutti persone per bene. Il Presidente ha poi concluso il suo intervento sottolineando la lodevole iniziativa delle scuole, che hanno organizzato questa giornata all’insegna della LEGALITA’, e le ha invitate a ripetere iniziative di questo genere, perché ruolo primario di tutte le istituzioni, in particolare delle scuole, è quello di formare i giovani alla cultura della legalità, unico modo vero e concreto per distruggere e sconfiggere le mafie. Perché i giovani devono essere proiettati verso un mondo basato sul buon senso, sulla sincerità e sul disprezzo nei confronti della criminalità per combattere la ‘ndrangheta’. È stata un’iniziativa utile in cui non è mancato l’appoggio dei rappresentanti dello Stato italiano che ha dato la sua piena disponibilità in questa lotta contro la criminalità organizzata.

Gregorio Gullello

 

11 febbraio 2010 Visita al Quotidiano della Calabria

Mercoledì 3 febbraio 2010 gli alunni appartenenti alla redazione del giornalino scolastico School Times e la classe 2 F del liceo scientifico ‘G. Berto’, accompagnati dalle docenti referenti del progetto, hanno visitato la sede principale del Quotidiano della Calabria.

Dopo essere giunti a Cosenza alle ore 11:00 i ragazzi e le professoresse sono stati accolti da Andrea Gualtieri, redattore, che ha tenuto una breve conferenza durante la quale ha illustrato l’attività del giornalista e il lavoro che c’è dietro l’uscita di ogni copia del giornale, gli aspetti positivi e negativi di tale mestiere e la giornata tipo di un giornalista, seguita da un breve dibattito durante il quale gli allievi hanno posto alcune domande.

La mattinata è proseguita con la visita agli uffici e il breve incontro con il direttore, Matteo Cosenza, che ha accolto cordialmente gli ospiti, e con la foto di gruppo che è poi apparsa sul giornale insieme ad un articolo il giorno successivo. Gli alunni hanno poi avuto modo di osservare, guidati dal signor Elpidio Della Rossa, i locali in cui il giornale da ‘virtuale’ diviene materiale e cartaceo, ovvero i complessi macchinari che stampano, tagliano e imbustano i giornali che durante la notte vengono trasportati nelle varie edicole permettendo una diffusione capillare dell’informazione.

Il Quotidiano della Calabria è, come i ragazzi hanno potuto apprendere dal demo visto all’arrivo in sede, una macchina complessa che necessita, per funzionare correttamente, dell’impegno e dello spirito collaborativo di molte persone, dal direttore ai conducenti dei furgoni che trasportano le copie fresche di stampa: grazie dunque a tutti per la disponibilità e la professionalità dimostrata nell’accoglienza.

Valentina Lascala

13 febbraio 2010 Un sogno tramutato in tragedia

Nodar Kumaritashvili è il nome del giovane atleta georgiano che poche ore fa ha perso la vita durante un allenamento per la prova di slittino. Oggi,  poco prima dalla cerimonia di apertura delle olimpiadi invernali di Vancouver 2010 lo sportivo è morto sul colpo a causa di una frattura al cranio dovuta ad uno sbandamento per la perdita del controllo dello slittino e il terribile scontro con le sbarre di contenimento. Viaggiava ad una velocità di circa140 km/he per il 21enne non c’è stato nulla da fare, inutile l’immediato intervento del pronto soccorso sportivo. Grande commozione da parte dei dirigenti della squadra  georgiana e di tutti gli atleti partecipanti, che dopo numerosi dubbi e incertezze sulla loro partecipazione hanno deciso di portare il nome del compagno scomparso a queste olimpiadi. La morte di Kumaritashvili “e’ stata devastante, per noi, per la delegazione georgiana, per i nostri atleti e il nostro popolo – ha sottolineato in conferenza stampa il ministro georgiano della Cultura e dello sport, Nikolos Rurua -. Era giovane, molto promettente ed e’ morto durante un allenamento”.  Ha lavorato duro l’atleta per poter realizzare il suo sogno, un sogno che si è trasformato in incubo. Sono infondati i commenti dati sulla possibile inesperienza del giovane, poiché nonostante l’età era un atleta ben preparato e agonisticamente pronto ad affrontare con consapevolezza i rischi di questa disciplina. Coloro i quali si occupano del settore stanno tuttora effettuando le dovute verifiche in pista e rinforzando le misure di sicurezza per far sì che un simile incidente non capiti mai più. Gli atleti georgiani si sono presentati in lutto alla cerimonia di apertura, accompagnati da un grande applauso di conforto da parte di tutto lo stadio, ‘’Dedicheranno a lui le nostre vittorie’’ hanno affermato gli affiatati colleghi sportivi.

Fabiana Grillo

 

22 marzo 2010 25 anni di Radio Ondaverde.

Si sono tenuti il 28 Febbraio scorso, nel salone degli specchi del 501, i festeggiamenti per i 25 anni di Radio Ondaverde. La radio, che è ormai l’ultima rimasta attiva nella nostra provincia, è infatti attiva dal 1985.  A presenziare ai festeggiamenti, oltre a due dei tre fondatori (Piero Muscari e Pino Scianò)  circa 40 tra collaboratori, vecchi amici, politici e ascoltatori. In apertura del convegno che ha preceduto il momento del taglio della torta, dopo la premessa di Pino Scianò, Piero Muscari è intervenuto sottolineando l’importanza dell’autonomia di pensiero e della capacità di sognare come elementi necessari per il raggiungimento di obiettivi concreti e doti fondamentali per chiunque abbia voglia di salvare il nostro paese dalla superficialità, dalla corruzione e da una passività che ha spento lo spirito di cambiamento che aveva caratterizzato il dopoguerra. Proprio questi elementi hanno permesso a tre ragazzi, tre sognatori, di prendersi la responsabilità di portare avanti un progetto così importante e di arrivare, partendo dalla prima piccola sede di Vibo Marina, a festeggiare il frutto del loro impegno 25 anni dopo. Anni in cui la radio, oltre ai programmi di intrattenimento (musicale e sportivo) e a quelli un po’ meno “leggeri”, ha promosso diverse iniziative, ideate e presentate da Piero Muscari, tra cui ricordiamo, primo tra tutti, lo “School day” e anche serate importanti come “Il Faro”.  Dopo l’intervento di Piero Muscari, si sono susseguiti i contributi da parte dei presenti che indistintamente, dal Sindaco e dal presidente della Provincia agli speaker storici come Vittorio Brizzi ed Eleonora Rombolà, hanno riconosciuto il ruolo importante che la radio ha ricoperto in “Un quarto di secolo attraversato assieme al territorio, ai suoi eventi sportivi, vivendolo e commentandolo sempre in diretta”.Ospiti della serata sono stati: Umberto Smaila, dj, attore e conduttore televisivo, che è intervenuto a sua volta commentando il video mostrato dopo i primi interventi, in cui si raccontavano, sia pure in maniera un po’ nostalgica, questi 25 anni di comunicazione e, anche se solo telefonicamente, i due comici Bove e Limardi .Conclusosi il convegno, i partecipanti si sono recati nella sala attigua per la foto commemorativa dell’evento e per l’attesissimo taglio della torta. Sono passati così 25 anni di Radio Ondaverde, che “continuerà con la stessa energia di sempre”, come afferma Piero Muscari. Appuntamento, dunque, ai  prossimi 25 anni!

Claudia Muscari

Accenno di una Cronaca triste per il nostro School times

 

 

23 gennaio 2007 Federica Monteleone e i suoi sogni

La mia Federica in questo momento sta dormendo. Non è sui libri a studiare come l’ho sempre immaginata prima di quella terribile telefonata. E’ stata la sua mamma che ha inteso avvertirmi della tragedia che si era consumata nel giro di una manciata di minuti. “Professoressa, so quanto volete bene a Federica. Per questo voglio essere io ad informarmi su cosa le è successo!” Cosa poteva mai esserle successo. Nella frazione di un secondo ho pensato a mille eventualità, ma non che poteva essere in coma! Conosco Federica già dall’anno scolastico passato. Sono la sua insegnante di lettere e per questo ho affrontato con lei tanti argomenti. Attenta e studiosa, non ha mai trascurato nulla. Dall’italiano, al latino, alla storia, alla matematica, a tutte le materie di studio. Studio che ha sempre fatto con il massimo del suo impegno. Quando le ho proposto di scrivere per il giornale del nostro Istituto, il liceo scientifico di Vibo Valentia, lei non si è tirata indietro, anzi, ricordo che i suoi occhi si sono illuminati. Dopo il primo articolo, mi ha confessato che il suo sogno era quello di fare la giornalista. E perché no? Le risposi. E’ un sogno che si potrà realizzare. Così, Federica ha continuato a scrivere e a scrivere meritando di entrare a far parte della redazione dello School times, e la sua produzione giornalistica è diventata davvero tanta. Nell’anno scolastico passato il nostro giornale ha vinto un premio nazionale, così mi è sembrato giusto inserirla nel gruppo di coloro che sarebbero andati a Fiuggi per il ritiro del premio, perché lei era stata una delle più assidue collaboratrici alla stesura di articoli. Era felice. E’ caduta su di lei, in quest’anno scolastico, la scelta di chi avrebbe dovuto fare l’introduzione ai lavori di un convegno che abbiamo fatto a scuola sull’importanza della parola scritta e sul giornalismo. Lei, ricordo, timidamente cercò di tirarsi indietro, perché temeva di non farcela. Ma io la rincuorai. Chi vuole fare la giornalista, le dissi, non si può tirare indietro, deve affrontare tutti gli ostacoli. E quando fu il momento, la mia Federica aprì i lavori con un … cipiglio da gran professionista. Avevo fatto bene a puntare su di lei, ero felice della mia decisione e mi convinsi ancora di più che su di lei potevo contare sempre. Federica è una ragazza dolce, ubbidiente, studiosa, forse anche un po’ timida, ma in grado di sapere raccogliere tutte le sue forze per affrontare qualsiasi ostacolo. Lei ha già superato il dramma dell’alluvione del 3 luglio. Sì, perché la sua casa è a Vibo Marina ed io ho rivissuto le ore di quella catastrofe attraverso le sue descrizioni. Mi ha raccontato della furia delle acque, del fango, del dramma di tante famiglie. E ora, questa tenera fanciulla, dai capelli neri e lunghi, dagli occhi scuri e profondi, dal sorriso sempre pronto, dal cuore buono che non esita ad aiutare i suoi compagni, che sogna di fare la giornalista, ora sta lottando per riaprirsi alla vita. Di Federica avrei tante cose da dire, perché è una ragazza come pochi se ne incontrano tra i banchi di scuola, ma preferisco fermarmi qui perché mi è impossibile non soffrire per questo dramma che si sta consumando su quell’esile corpo di deliziosa fanciulla.

Vittoria Saccà

26 gennaio 2007 Federica!

Federica, alunna modello della II F, hai lasciato la scuola quel lontano 16 genn.2007 a causa di un leggero malessere. Aspettavamo quanto prima il tuo ritorno con una normale giustificazione come fanno tutti gli studenti…. ma invano. Dopo pochi giorni un triste destino, inaspettatamente, ha stroncato la tua giovane vita. Ancora ci chiediamo perché è successo, non si può accettare che una giovane vita venga fermata per una banale appendicite. Forse è stato un errore umano ad allontanarti da noi ma la tua anima sopravvive e sovrasta tutte le miserie umane. Ti sei elevata, leggera e leggiadra, tra gli Angeli ma ogni giorno rileveremo la tua presenza in classe seduta su quel banco vuoto che hai lasciato a scuola.

Il tuo Preside Fiorenzo Restuccia

 

 

27 gennaio 2007 – Un nuovo Angelo è salito in cielo

La nostra Federica ci ha lasciato..…non ce l’ha fatta. E’ però andata in un luogo migliore dove lei sicuramente rivestirà un ruolo importante. Dio l’ha voluta con sè privandoci di un grande angelo. Ma adesso noi soffriamo. Non scorderò mai quel momento in cui, arrivati davanti all’ospedale, ansiosi di incontrarla, di abbracciarla, il preside ci è venuto incontro scuotendo la testa. No………….non può essere vero…….non è giusto….. Subito dopo è venuta la madre, donna esemplare dalla grande forza d’animo, che con le lacrime agli occhi ci ha consolato come una vera mamma. Noi eravamo andati lì per aiutare lei (e tutta la sua famiglia) ma invece è stata lei ad aiutare noi. Un nuovo angelo è salito in cielo e, per favore Federica, aiutaci tu da lassù. Aiutaci a vivere in questo mondo ingiusto e proteggici pregando perché ne abbiamo veramente bisogno. TVB per sempre, non lo scordare!!

Anna Bartalotta

11 febbraio 2007 Mi manchi, piccola Kika

 

Sono passati 14 giorni da quando Kika non è più qui con noi. Sono stati 16 giorni difficili, faticosi, dolorosi. Tutti in classe, dai professori a noi alunni, ci chiediamo perchè Fede ci hai lasciati! Perchè così presto, tutti noi ancora avevamo bisogno di te. Avevamo bisogno del tuo silenzio, delle tue poche parole ma soprattutto di quel sorriso ke nessuno mai più potrà ridarci indietro. Ma è proprio in questi giorni che abbiamo anche capito che dobbiamo andare avanti, che dobbiamo farcela non solo per noi stessi ma anche e soprattutto per te. Adesso le lacrime non servono più, adesso tu ci devi guidare da lassù. Volteggiando in punta di piedi su quel prato azzurro guidaci uno per uno. Fede, piccola Fede, mi manchi! Mi chiedo se vale la pena vivere, mi fermo a pensare e dico si, vale la pena per te. Tu che sei diventata un angelo fra gli angeli non lasciarmi mai da sola….Io ti voglio bene e te ne vorrò sempre perchè tu sei e sarai un angelo venuto a farmi visita, come un amico che dopo una bella vacanza deve andare via, ma questa partenza è molto più dolorosa. Fede io ti faccio una promessa, cercherò di stare vicino ai tuoi genitori e al tuo fratellino, verrò a trovarti ogni volta che mi sarà possibile ma soprattutto ti porterò per sempre nel mio cuore. Addio piccolo grande angelo, ti voglio bene.

Giusy Ciardulli

 

 

30 aprile 2007 Vane speranze

Per giorni abbiamo sperato per la vita di Federica. Abbiamo intrecciato sentimenti di rabbia e rancore con le profonde speranze di sapere che è ritornata a scuola, a scrivere, a danzare. Oggi, resta soltanto rabbia e dolore, probabilmente dovuti alla consapevolezza che avrebbe potuto farcela, se la banale operazione d’appendicite si fosse svolta con la fluidità di sempre. Ma ipotizzare e pensare a quello che avrebbe dovuto essere, non può rovesciare l’amara verità. Una verità che è semplice, chiara, ma immensamente difficile da accettare: Federica è stata l’ennesima vittima di un sistema approssimativo, abietto, che non garantisce niente per la salute e il benessere dei suoi cittadini.La Cartadi Ottawa, che risale al 1986, definisce la promozione della salute come un processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla per raggiungere benessere fisico, psichico e sociale. I cittadini, quindi, dovrebbero essere in grado di realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, cambiare l’ambiente circostante e di farvi fronte. E il benessere dei Calabresi, dov’è andato a finire? Soprattutto, se c’è, in quale di queste forme si realizza? Dopo quanto accaduto, ci aspettiamo di vedere le consuetudinarie vacue promesse e sorridenti strette di mano per garantire un miglioramento delle condizioni dei nostri ospedali. E, invece, chi conosce profondamentela Calabria, sa che per poter davvero cambiare è necessario un lungo processo di sviluppo multidimensionale. Infatti, prima ancora di ricevere ipotetici stanziamenti per la (ri)costruzione di servizi, sarebbe più utile intraprendere un forte progresso culturale e sociale. Soltanto dopo una crescita formativa si potrebbe intravedere la speranza di una terra migliore e più vivibile. Adesso, dalla sanità, si passerà alla giustizia: ce ne sarà abbastanza per la morte di Federica e, soprattutto, saremmo sufficientemente maturi da impedire che questa tragedia non venga forzatamente riposta nel dimenticatoio? Indignati e scioccati da quel numero 16 che affianca il nome di Federica, tutti i Calabresi vivono il dolore dei genitori per la perdita di una figlia che è stata strappata loro ingiustamente. Vittima di una realtà che ci ostiniamo ad affrontare stringendoci indifferentemente tra le spalle e aspettando che qualcun altro, presto o tardi, cambi per noi. Qualche ottimista sostiene che sia necessario un cambio generazionale ma, se si continua a lasciare in eredità debiti da risanare e trasbordanti forzieri di apatie, la speranza di risollevarci continua a scemare insieme a quella fragile fiducia di poter vivere serenamente nella nostra terra.

Giusy Calabrò

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Speciali ricorrenze

 

12 dicembre 2004 “Presepe si, presepe no”

Il Natale è il periodo nel quale tutti, in modo sincero o meno, cercano di essere uniti e solidali. Da sempre uno dei simboli del Natale è il presepe; sarebbe difficile cancellare questa immagine, perché senza di esso non si saprebbe individuare il vero significato del Natale. Purtroppo, oggi, nella maggior parte dei casi, il Natale si è ridotto al solo consumismo; nessun altro interesse, se non questo, ricorda la speciale festività. Le vetrine ben addobbate che ci attirano e poi ci convincono quando si leggono prezzi dimezzati; luci e decorazioni in ogni angolo. Offerte di regali, solleticamenti vari delle nostre vanità e dei nostri desideri. E’ questo che ci fa ricordare che è il tempo del Natale. Ma il vero tempo del Natale è quello che si presenta a noi con il presepe dove poggia la statuetta di un bambino in fasce che rappresenta Gesù. La parola Natale racchiude vari significati, tra i quali, unità e pace. Per evidenziare a pieno le qualità di questa festa, l’iniziativa di fare il presepe è stata ampiamente dibattuta anche in alcuni locali scolastici dove, ormai, sono presenti stranieri con culture diverse e, per questo motivo, si cerca di far collaborare gli studenti in armonia nella sua creazione. D’altra parte la scuola è lo specchio della società moderna e questi problemi lo dimostrano. Per la presenza di ragazzi con culture diverse, nelle quali sono racchiuse anche le religioni, ci sono stati, e ci sono, conflitti sulla creazione del presepe, poiché si pensa che questa possa essere una forma di mancanza di rispetto nei loro confronti. Ma gli stranieri vengono accolti nel nostro paese e sono ospiti, e come tali devono rispettare e accettare le nostre scelte e tradizioni senza condizionarle; d’altronde, come anche loro desidererebbero si facesse con le loro scelte. Da questo scaturisce l’opinione di molti sulla creazione del presepe nelle scuole; il problema del rispetto è a volte una scusa, perché la tradizione del presepe è ormai ‘‘antica’’. In fondo, un motivo per abolire questa tradizione non c’è. Grazie ai mass-media si possono apprendere notizie davvero ‘‘strane’’che a volte, per quanto ci si possa sforzare, non si riescono a concepire. Ora esiste anche il presepe multietnico; statuette con occhi a mandorla, con pelle di diverso colore, abbigliamento caratteristico dei vari paesi. Sì, certo, ci deve essere ‘‘unità’’, pace, rispetto, solidarietà, ma non la mescolanza di tutte le tradizioni di ognuno; se questo dovesse accadere, il mondo con tutte le sue sfaccettature non sarebbe più il mondo. Con tutto questo non si vuole e, non si pensa, di manifestare forme di razzismo, ma solo di esprimere il desiderio che tutto rimanga come prima, come sempre. Il presepe è la nostra storia e deve restare sempre tale e immutato, com’era ai tempi dei nostri avi, dei nostri nonni, dei nostri genitori, senza cercare di trasformarlo in modi inaccettabili. Un esempio? L’ultima ‘‘novità’’, oltre alla tendenza della trasformazione del presepe in multietnico, è l’arrivo, tra i pastorelli, di statuette che rappresentano personaggi della tv; è assurda l’idea! Chi la mette in atto dà eccessiva importanza a persone che non la meritano in un discorso solamente religioso; anche se solo simbolicamente, è una mancanza di rispetto. Le tradizioni, la storia racchiusa in esse e le festività che le rappresentano, vanno rispettate per quello che sono e che sono state. Non si può modificare il passato.

Maria GiovannaLa Bella

 


29 gennaio 2005
27 Gennaio: giornata della memoria

Da anni i nonni raccontano ai propri nipoti la storia di un mostro senza scrupoli, cieco ed immenso, generato dalla superbia e dalla malvagità di individui difficilmente definibili “umani”; un mostro crudele, che si è divertito a torturare e perseguitare persone, la cui unica colpa era quella di non appartenere alla razza ariana, la razza perfetta, destinata a “ripulire”la Terrada coloro i quali non facevano parte di tale stirpe. Il 27 gennaio, giornata della memoria, tutti noi, piccoli e grandi, siamo chiamati a riflettere sulle atrocità commesse dai nazisti, soldati del terrificante di cui sopra, in nome di questa folle idea che, secondo le loro menti pacate, doveva portarli al completo dominio del pianeta. Ma perché ricordare? Così facendo, forse, gli 25 milioni di uomini uccisi e/o perseguitati dal nazismo vengono in qualche modo ripagati degli innumerevoli, abominevoli, talvolta inimmaginabili torti subiti? Assolutamente no. Si ricorda per non sbagliare di nuovo, per non commettere gli stessi errori e per non dimenticare mai di cosa sia capace il genere “homo, con la sua scienza esatta persuasa allo sterminio”, come disse Quasimodo. Sarebbe impossibile e, forse, anche inutile, elencare tutti gli aberranti delitti compiuti sotto il regime nazista, delitti, questi, in cui immagini più volte sono state sottoposte alla nostra attenzione dai moderni mezzi di informazione e che, inevitabilmente, hanno lasciato impronte indelebili in ognuno di noi: nessuno può restare impassibile di fronte al macabro spettacolo di impensabili esperimenti effettuati su uomini, donne e, troppo spesso, bambini, precedentemente torturati dopo essere stati deportati nei campi di concentramento, i campi ove sbocciano i fiori del male e della sofferenza. Qui, in molti casi, vittime innocenti hanno trovato la morte o, comunque, sono stati costretti ad annullarsi completamente, perdendo ogni dignità umana, per assecondare la volontà di gente malata, capace delle più terrificanti crudeltà. A rischiarare le tenebre di questo oscuro periodo di terrore, la cui colonna sonora era costituita dalle urla delle madri, dal grido silenzioso dei padri, dai gemiti dei bambini e dall’agghiacciante risata dei nazisti, vi è stata, però, l’opera di donne e uomini coraggiosi, talvolta anche tedeschi, che non si sono piegati innanzi alla paura e che hanno continuato a lottare per gli ideali in cui credevano. Questi hanno cercato in ogni modo di aiutare quelli che sono i martiri di questo tempo a sfuggire al loro triste destino, per loro scritto dagli uomini al servizio di Hitler, vero padre del nazismo. Fra i nomi di questi eroi del ‘900, risuona fino alle nostre orecchie quello di Perlasca, un uomo giusto, che ha voluto trascorrere la propria esistenza nell’anonimato, rifiutandosi di ostentare la propria lodevole impresa. Tuttavia, i loro sforzi non sono bastati a porre fine alle stragi naziste. Oggi, cosa si può fare innanzi a tale raccapricciante squallore? E, nella giornata della memoria, cosa diranno i grandi a noi giovani ai quali hanno sempre insegnato che nulla accade senza un motivo ben preciso? Forse la cosa più umana e semplice, e cioè che si può e si deve piangere, arrabbiarsi, ribellarsi e che, dopo aver dato spazio alle emozioni non resta che chinarsi innanzi alle innumerevoli vittime del nazismo; tenersi stretti gli uni agli altri, immobili, con gli occhi asciutti da lacrime ormai consumate, in silenzio, poiché le parole sono alito e soffio di luce, piene di niente, svuotate dall’onnipotenza, più volte discussa, di quel Dio che, per noi credenti, rappresenta l’unica àncora di speranza in questo mare turbinoso di nefandezze e crudeltà. Ci diranno, inoltre, che ci è stato affidato un compito importantissimo, in quanto noi siamo coloro i quali daranno vita alla società del domani e che, per questo, il futuro è nelle nostre mani. La giornata della memoria, quindi, va vissuta come tale, soprattutto da noi ragazzi; sta a noi, infatti, imparare dalla storia, al fine di realizzare quello che è il sogno di ognuno di noi: un mondo ove tutti possano essere se stessi, un mondo ove nessuno debba più piangere!

Silvana Pizzonia

1 febbraio 2005 I giorni della merla

I previsti giorni più gelidi dell’ inverno, quelli che vedranno termometri in picchiata, sono i giorni della merla. La leggenda, che si e’ trasformata ormai in una tradizione, narra che durante un rigido inverno, in cui la neve nascondeva ogni briciola, un merlo che si trovava con la sua famiglia, decise di volare oltre quella nevicata, per trovare un rifugio lontano dal freddo. Intanto la merla, per proteggere i figlioletti, in attesa del marito, costruì il nido su un tetto vicino ad un comignolo dal quale proveniva un po’ di tepore. Tre giorni durò il freddo. Al ritorno del marito, la merla e i tre figli erano ormai diventati neri per via della fuliggine. Da allora, questi tre giorni di gelo ( 28 – 29 – 30 Gennaiom) furono ricordati come i giorni della merla. La ” storiella” della merla, assume versioni differenti in base al luogo ma, dovunque, lo scopo e’ uguale. Tutti concordano nel dire che “se sono freddi, la primavera sarà bella, se sono caldi, la primavera arriverà tardi”…. Va però ricordato che i meteorologi sostengono che i giorni della merla non coincidano con i più freddi dell’ inverno, anzi… E’ proprio dopo il 10 del mese, infatti, che, secondo le statistiche la temperatura tende ad aumentare, anche se la fine di Gennaio potrebbe essere da noi percepita ” cuore dell’ inverno”. Va comunque detto, che questi giorni di fine gennaio sono stati caratterizzati da freddo, molto freddo con neve e gelo, tanto che persino l’autostrada Salerno- Reggio Calabria è rimasta chiusa e molti poveri automobilisti, con tutti i disagi del caso, sono rimasti bloccati per tre giorni! Se non sono questi i giorni della merla…

Serena Bonavena

1 febbraio 2005 Carnevale

Periodo festivo, tra il Natale ela Quaresima. Dovrebbeincominciare il giorno di santo Stefano ma si fa iniziare o il 2 febbraio (giorno che segue la purificazione) o il 17 gennaio (giorno di Sant’Antonio abate). Non di rado si limita la festa agli ultimi tre giorni, o addirittura al martedì “grasso”. Nel mezzogiorno d’Italia si dice “giovedì muzzillo” quello che nella Toscana è comunemente detto “berlingaccio” o giovedì grasso, il quale è seguito da un altro giovedì detto “berlingaccino”. Nella Sicilia i lunedì e i martedì grassi sono comunemente detti “giorni del pecoraio” perché si pensa siano dei giorni concessi da Gesù al pastorello giunto troppo tardi per partecipare ai divertimenti della domenica. Qualunque possa essere la durata del carnevale, le tre ultime giornate sono trascorse in spassi e banchetti. Nell’antichità in Calabria v’era l’uso di far fare un giro in groppa ad un asino, a chiunque fosse sorpreso a lavorare in quei giorni. Vi sono pietanze tradizionali, come i ravioli nell’Abruzzo, le castagnole nelle Marche; i contadini della Romagna mangiavano la più vecchia gallina del pollaio, credendo così di preservare le altre dalla morte. In Basilicata e nell’Abruzzo si mangiava per ben sette volte nell’ultima giornata di carnevale e talvolta mettevano da parte un piatto di maccheroni per consumarlo poco prima della mezzanotte. Nelle vie e nelle piazze si svolgono le gare dei carri carnevaleschi e folleggiano le maschere. L’ultima sera prima della mezzanotte la tradizione vuole che arrivi la tradizionale maschera di carnevale (un omaccione disteso sul cataletto), accompagnato da un corteo fra cui vi sono il medico e il notaio; questi per costatare la morte e quello per redigere il testamento. Tramonta così il periodo della baldoria. Più volte è stata rilevata la somiglianza che il carnevale italiano e quello degli altri paesi latini presentano coi saturnali antichi. Secondo le moderne indagini il personaggio burlesco che si mette pubblicamente a morte, dopo un breve periodo di dissipatezze e di piaceri, non è che il discendente dell’antico re dei saturnali.

Alessio Barbato

8 marzo 2005 8 Marzo, la festa delle donne

Nella società medioevale la donna, dal momento del matrimonio, abbandonava la casa paterna ed entrava a far parte della “grande famiglia patriarcale” del marito, gli unici ruoli che poteva svolgere erano i lavori domestici e nei campi. Con la trasformazione capitalistica dei rapporti di produzione che richiamavano verso le città enormi masse in cerca di lavoro, si affermò la “piccola famiglia patriarcale” composta di un solo nucleo famigliare e il conseguente ingresso della donna nell’ambito lavorativo della fabbrica che ha permesso l’inizio della sua emancipazione pur senza permetterle di acquisire un’istruzione che le consentisse una reale parità con l’uomo. Dopo secoli di “progresso”, la donna dei Paesi industrializzati, ha faticosamente conquistato la parità con l’uomo. Sappiamo che nelle città del nostro Paese, così “libero” e “democratico”, sono state scoperte ragazze e bambine ridotte a lavorare in semi-schiavitù oltre 12 ore al giorno per qualche soldo. Così come nella ex Germania Orientale, dopo la distruzione del socialismo, per avere la speranza di un posto di lavoro, le donne dovettero ricorrere perfino alla sterilizzazione. Queste tragedie convivono con il consumismo più sfrenato, ottenuto con lo sfruttamento atroce dei popoli del Terzo Mondo, dove, per permettere il nostro consumismo 40.000 di bambini muoiono ogni giorno di fame. L’8 marzo ha radici lontane. Nasce dal movimento internazionale socialista delle donne. Era il 1907: Clara Zetkin dirigente del movimento operaio tedesco organizza con Rosa Luxemburg la prima conferenza internazionale della donna. Ma la data simbolo è legata all’incendio divampato in un’opicificio di Chicago nel 1908, occupato nel corso di uno sciopero da 129 operaie tessili che morirono bruciate vive. Nel1910 aCopenaghen, in occasione di un nuovo incontro internazionale della donna si propone l’istituzione di una” Giornata Internazionale della donna”, anche in ricordo dei fatti di Chicago. Successivamente, la giornata comincia ad essere celebrata in varie parti del mondo e anche in Italia durante e dopo la prima guerra mondiale. La tradizione, nel nostro Paese, viene interrotta, nel 1943, dal fascismo. La celebrazione riprende durante la lotta di liberazione nazionale come giornata di mobilitazione delle donne contro la guerra, l’occupazione tedesca e per le rivendicazioni di diritti femminili. Nascono i gruppi di difesa della donna collegati al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) che daranno origine all’UDI (Unione Donne Italiane). Nel 1946 l’UDI prepara il primo 8 marzo nell’Italia libera, proponendo di farne una giornata per il riconoscimento dei diritti sociali e politici delle donne, e sceglie la mimosa come simbolo della giornata. Tutt’ora, ogni 8 Marzo in Italia si festeggia la “Giornata Internazionale della donna”. Auguri a tutte le donne, oggi, 8 marzo 2005.

Domenico Tarzia

13 febbraio 2006 –  Le Foibe

A distanza di 60 anni, il parlamento italiano ha finalmente istituito, il 10 febbraio,”la giornata del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e gli esuli italiani, giuliani e dalmati. Molti parlamentari si sono espressi per l’occasione e ognuno di loro, in base alle specifiche idee politiche, ha condannato o giustificato la tragedia dell’ esodo e del genocidio. Da alcune interviste, fatte in televisione, ho notato che poche persone, a causa del lungo silenzio, conoscono questa parte di storia. La foiba, per gli abitanti del retroterra istrino e triestino, è una profonda cavità carsica in cui venivano buttati oggetti inutili. Buttare quindi un uomo in quel pozzo, significava considerarlo un rifiuto. Il fenomeno degli infoibati conobbe due periodi distinti. Il primo riguarda l’Istria e va dal 9 settembre al 13 ottobre 1943 e cioè dopo l’armistizio firmato da Badoglio, quando la penisola tra Trieste e Fiume cadde sotto il controllo dei partigiani; il secondo periodo va dal 1° maggio alla metà di giugno 1945 e riguarda le città di Trieste e Gorizia. Quandola IVarmata di Tito, il 1° maggio alle ore 9,30, entrò nella città di Trieste gli ordini erano :”Epurare subito”, “Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’ odio nazionale”. La carneficina non risparmiò neanche gli antifascisti italiani. Ci furono torture, fucilazioni, deportazioni infoibati. Le accuse erano quelle di :squadrismo, collaborazionismo, persecuzioni degli slavi, spionaggio a favore dell’ Italia . I soldati di Tito entravano nelle case dei civili, li caricavano sui camion, li portavano sull’ orlo dell’ abbisso e con una scarica di mitra li facevano cadere per centinaia di metri. Alcuni morivano subito, ma altri, giunti in profondità, continuavano ad agonizzare, anche a causa dell’atroce dolore causato dagli spuntoni delle rocce. Alcune persone prima di essere uccise, venivano spogliate e seviziate, altre venivano lapidate, dopo aver portato sulle spalle le pietre per la loro esecuzione, altre arse vive. La testimonianza emblematica è la profonda foiba di Basovizza, dove furono infoibate 2500 persone. Si è trattato di un nuovo potere rivoluzionario, intenzionato a mostrare la propria capacità di vendicare i torti individuali e storici, subiti dai croati dell’ Istria. La tragedia delle foibe è una conseguenza dell’aggressione da parte dell’Italia fascista, dal 1922 al 1943, nei confronti dei popoli jugoslavi. Combattere l’italiano significava eliminare l’assassino, l’aguzzino che aveva portato via tutto, dalla lingua alla casa, dalla terra alla scuola. Si fece di tutta l’erba un fascio, i termini “fascista”e “italiano” ebbero un unico significato e ogni italiano veniva visto come un potenziale ostacolo alla realizzazione di uno stato nazionale forte e libero. Ripercorrendo la storia, infatti, quando, nel1920, il trattato di Rapallo assegnò definitivamente l’Istria all’ Italia, la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera che manifestò particolare aggressività e ferocia ai danni del popolo slavo: furono aboliti tutti gli enti culturali, con un decreto del 1927 furono italianizzati i cognomi di famiglia e fu perfino cambiato il nome dei defunti sulle lapidi. Un avvenimento che mi ha molto colpito e che ho desunto da internet è la strage fatta a Podhum, un villaggio a nord di Fiume. In questa località, furono mandati dal regime fascista due insegnanti, Franca e Giovanni Renzi. Costoro furono mandati dal regime fascista per impartire ai ragazzi del luogo la lingua italiana. Agli alunni che sbagliavano un vocabolo, il professore affetto da tubercolosi, gli sputava in bocca. Il prefetto di Fiume fece rastrellare la popolazione per trovare i due maestri, ma questo non avvenne e tutti gli abitanti di Podhum furono uccisi. Io sento che bisogna eliminare queste atrocità ed evitare di alimentarle servendosi di ideali politici. Né Sinistra né Destra si possono accusare a vicenda nascondendo antichi misfatti, ma solo facendo conoscere al mondo intero quelli che sono stati i crimini dell’ umanità si potrà evitare un nuovo disastro, e affinché questo non succeda, l’ uomo si deve liberare dalla sete di conquista e di sopraffazione. Antonio Mammoliti

7 aprile 2006 La Pasqua…Storia e curiosità

Il termine Pasqua deriva dalla parola latina “pascha” e dall’ebraico “pesah”, che significa probabilmente passaggio. Con questo nome si indicano due feste molto diverse tra loro, quella ebraica e quella cristiana.La Pasquaè una festa religiosa solenne per ebrei e cristiani; i primi richiamano alla memoria la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, i secondi celebrano la resurrezione di Gesù Cristo. È la festa più antica e importante della cristianità.La Pasquaè preceduta dalla Quaresima, periodo penitenziale preparatorio di quaranta giorni. La settimana precedentela Pasqua, detta settimana santa, inizia con la domenica delle Palme: si tratta di una settimana di lutto in ricordo della passione e morte di Gesù Cristo. Particolare importanza liturgica hanno gli ultimi tre giorni: giovedì santo, venerdì santo e sabato santo. La domenica delle Palme, che commemora l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, prende nome dai rami di palma che la folla agitava al suo passaggio ed è celebrata dalla Chiesa cattolica con una processione di fedeli che recano le palme benedette. Il giovedì santo commemora l’ultima cena di Cristo, mentre il venerdì santo ricorda la crocifissione e la morte di Gesù. Il sabato santo ricorda la sepoltura di Gesù. La data della Pasqua è mobile, (varia di anno in anno), e fu stabilita dal Concilio di Nicea (325), che la fissò nella prima domenica dopo il plenilunio successivo al 21 marzo. A causa di ciò la data della Pasqua è stata contestata fino al VI sec. Storicamente, il giorno della crocifissione di Cristo si celebrava alla vigilia della Pasqua ebraica, corrispondente al venerdì prima della Pasqua cristiana. Secondo il Vangelo di Giovanni, questo venerdì corrispondeva al giorno 14 del mese ebraico di Nisan. In base al Vangelo di Giovanni, la data della morte di Gesù corrisponderebbe al 7 aprile dell’anno 30 d. C. Nel nostro Paese i festeggiamenti della Pasqua variano da regione a regione, pur restando, in linea di massima, legati alla liturgia cristiana. Ogni piccolo paese italiano ha le sue processioni, e ricorda la passione ela Resurrezionedi Cristo in maniera specifica. Una particolarità della Pasqua italiana risiede anche nella sua cucina. Tutte le regioni italiane si preparano ai festeggiamenti anche con piatti tipici.La Pasqua, come il Natale, è una festa religiosa di grande importanza, ma anche l’occasione in cui le famiglie si riuniscono, a tavola e nelle piazze; in tutte le città del nostro paese, riti sacri e divertimenti profani si intrecciano. La festività coincide con l’arrivo della primavera ed assume quindi un particolare rilievo per la vita contadina: come anticamente numerose feste pagane in questo periodo dell’anno celebravano l’arrivo della bella stagione, oggi in tutta Italia, da Nord a Sud, nei paesi si rinnovano le tradizioni popolari, con processioni, feste, riti religiosi, spettacoli sacri, tradizioni folcloristiche. Durante tuttala Settimana Santainteri paesi scendono in piazza per celebrare il dramma sacro delle Passione e della Resurrezione del Cristo. Nella notte del Venerdì Santo le strade, illuminate da sole fiaccole, vengono percorse da affollate processioni: talvolta i penitenti sono a piedi scalzi o in catene per rendere più difficili e faticosi i percorsi della Redenzione. Il giorno di Pasqua tutto si trasforma in un tripudio di gioia, in un volare di colombe, a ringraziare il Cristo risorto. I simboli della Pasqua sonola Colombae l’uovo di pasqua. L’uovo di pasqua ha origini antiche: si pensa, infatti, che siano stati i Greci, i Cinesi ed i Persiani che se li scambiavano come dono per le feste Primaverili; nell’antico Egitto le uova decorate erano scambiate all’equinozio di primavera, data di inizio del “nuovo anno”, quando ancora l’anno si basava sulle stagioni. L’uovo era visto come simbolo di fertilità e quasi magia, a causa dell’allora inspiegabile nascita di un essere vivente da un oggetto così particolare. Le uova venivano pertanto considerate oggetti dai poteri speciali: erano interrate sotto le fondamenta degli edifici per tenere lontano il male, portate in grembo dalle donne gravide per scoprire il sesso del nascituro, schiacciate dalle spose prima di entrare nella loro nuova casa. Le uova, associate alla primavera per secoli, con l’avvento del Cristianesimo divennero simbolo della rinascita non della natura ma dell’uomo stesso, della resurrezione del Cristo: come un pulcino esce dell’uovo, oggetto a prima vista inerte, Cristo uscì vivo dalla sua tomba. Nella simbologia, le uova colorate con colori brillanti rappresentano i colori della primavera e la luce del sole. Quelle colorate di rosso scuro sono invece simbolo del sangue del Cristo. L’usanza di donare uova decorate con elementi preziosi va molto indietro nel tempo: già nei libri contabili di Edoardo I di Inghilterra risulta segnata una spesa per 450 uova rivestite d’oro e decorate da donare come regalo di Pasqua. Ma le uova più famose furono indubbiamente quelle di un maestro orafo, Peter Carl Fabergé, che nel 1883 ricevette dallo zar Alessandro, la commissione per la creazione di un dono speciale per la zarina Maria. Il primo Fabergé fu un uovo di platino smaltato bianco che si apriva per rivelare un uovo d’oro che a sua volta conteneva un piccolo pulcino d’oro ed una miniatura della corona imperiale. Gli zar ne furono così entusiasti che ordinarono a Fabergé di preparare tutta una serie di uova da donare tutti gli anni. Infatti l’uso di regalare uova è collegato al fatto chela Pasquaè festa della primavera. L’uovo rappresentala Pasquanel mondo intero ela Pasquaè segno di rinascita, pace e armonia con se stessi e con gli altri.

Nicola Gentile – Danilo Barbalace

 

21 aprile 2009 Pasqua in Italia – Pasqua in Bulgaria

La settimana santa rappresenta per gli abitanti di Pizzo e del circondario la festa più importante di tutto l’anno. Le funzioni religiose del periodo pasquale non si esauriscono solo nelle chiese ma escono anche nelle piazze e nelle vie con continue processioni durante tutta la settimana santa. Entrano nelle case e nelle famiglie, entrano nei cuori e costituiscono il periodo più bello e sentito dell’anno. I riti religiosi vengono normalmente svolti in tutte le tre parrocchie cittadine. In una però,quella di San Giorgio Martire,esse assumono un carattere speciale. Sono le secolari tradizioni religiose del popolo pizzicano scrupolosamente osservate da tutti,che danno ai riti pasquali un sapore d’antico. Un gusto particolare che ti coinvolge ,ti fa soffrirela Pasquadel Signore e ti fa gioire con il Gloria della notte pasquale. Le processioni della settimana santa iniziano il giovedì santo con la discesa degli apostoli. La sera del giovedì, dopo la messa in Coena Domini, in tutte le chiese parrocchiali le ostie consacrate vengono conservate nel primo altare a destra di quello centrale. Tali altari vengono addobbati con fiori,grano tenero appena sbocciato,tessuti e tende preziose. Sono chiamati dal popolo, I Sepolcri, e vengono onorati e visitati da tutta la popolazione. Praticamente tutti coloro che riescono a stare in piedi fino a tardi,escono per visitare i sepolcri. Tutte le chiese,anche quelle non parrocchiali,ne hanno uno proprio. E’ un via vai continuo di gente che prosegue per tutta la notte. Inoltre in partenza dalla chiesa della Pietà, una processione di fedeli si reca al cimitero.  Si continua il venerdì santo con la famosa “Affruntata” nella quale San Giovanni incontra Maria per annunciarle la triste notizia della morte di Gesù. Sabato mattina c’è la processione degli “Angelej”, mentre la sera si svolge la fiaccolata della madonna Addolorata. Inoltre dallo scorso anno, la mattina della domenica di Pasqua, alla parrocchia di San Ferdinando Re,si rivivela Risurrezionedi Cristo. Infine a Pasqua, oltre alle tradizionali uova di cioccolato,si è soliti preparare dei dolci dal grande valore simbolico. Sempre più frequenti sulla nostra tavola sono i dolciumi come la pastiera e i mostaccioli.

Nel mio Paese d’origine invece,la Bulgaria, a Pasqua si svolge in tutt’altro modo molto più semplice ma altrettanto simbolico. Nei giorni precedentila Pasquasi fanno grandi pulizie nelle case, si preparano dei dolci tipici detti kozunazi e si colorano le uova (di gallina), dei quali il primo uovo dev’essere colorato rosso,perché possa portare salute. A mezzanotte del sabato santo la gente si scambia gli auguri e le uova…oltre ai diversi dolciumi tipici della Pasqua bulgara.   Sei domeniche prima della Pasqua, in Bulgaria è un giorno particolare, oltre a essere SIRENIZA,un giorno in cui si prepara un formaggio tipico,è il giorno del perdono in cui si chiede scusa e perdono alle persone care,ai famigliari e agli amici. Generalmente sono i più giovani a chiedere alle persone più anziane perdono degli errori anche involontari e dei torti. Un po’ in tuttala Bulgaria,ma soprattutto lontano dalle città più grandi, c’è ancora la fantastica usanza di preparare un falò in cui “bruciare” simbolicamente gli spiriti maligni e l’inverno. Tutti saltano sul fuoco per purificarsi e avere un anno di salute e prosperità. Questa è una festa che segna la fine dell’inverno e l’inizio della nuova stagione agricola,accompagnata da usanze pagane sopravvissute dai tempi dei Traci. Uno di questi è il rito dei Kukeri, celebrazioni che si possono vedere solo in alcuni paesini della Bulgaria, in cui uomini travestiti con pelli di pecora ed enormi e coloratissime maschere di legno spaventose, ballano per propiziare la semina e il raccolto futuro. Al centro del gruppo balla l’uomo considerato il più forte, il Kuker, che salta in maniera pesante e lenta, mentre gli altri lo accompagnano saltando e ondeggiando intorno. Tutti i kukeri portano legati alla vita dei campanacci molto pesanti di rame che con i movimenti ripetitivi degli uomini sbattono a ritmo, producendo la musica naturale del rito.

A questi balli partecipano solo uomini.

Sono questi i riti tipici del mio Paese d’origine ai quali purtroppo non ho mai avuto la fortuna di assistere ma mi piacerebbe molto.

Darina Geogeva – Simona Grasso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensioni

 

22 novembre 2003 “Memorie di quand’ero italiano”

“Memorie di quand’ero italiano “ Storia poco conosciuta dell’economia meridionale, raccontata da Nicola Zitara. In questo romanzo storico, lo scrittore calabrese Nicola Zitara ricostruisce i tratti della questione Meridionale rivisitando le tappe della sua personale esperienza. La testimonianza che riesce con estrema lucidità a fare emergere, fornisce un quadro esauriente delle vicende della storia meridionale dagli anni immediatamente precedenti la guerra d’Etiopia a quelli successivi alla seconda guerra mondiale e riesce a sistemare in una lettura unica alcuni degli interrogativi sulla storia meridionale spesso trascurati o poco considerati: perché ed attraverso quali meccanismi monetari ed economico-politici, l’industria meridionale preunitaria fu soffocata? Vi fu una ricchezza agraria meridionale? E perché, questa ricchezza, non si poté trasformare in ricchezza industriale così come successe altrove in Europa? L’attenzione dello scrittore si sofferma su una realtà mai riconosciuta al Meridione, l’esistenza di “…una borghesia degli affari, moderna ed intraprendente, la quale venne deliberatamente soffocata per realizzare una selvaggia “accumulazione primitiva” a favore degli intrallazzi padani” e fa comprendere come “…all’interno della classe padronale del Sud, la parte redditiera sarebbe stata perdente, se non fosse stata rimessa saldamente a cavallo dai Piemontesi e dai loro aventi causa”. Zitara, con una scrittura capace di intrecciare storia e poesia, traccia le tappe della riduzione dei meridionali da produttori a consumatori; da classe produttiva ad assistiti. Fa conoscere al lettore alcuni tratti poco o affatto conosciuti della storia economica meridionale che, interpretati non episodicamente, ma nel loro intrecciarsi, rendono a pieno il senso della storia del Meridione e della Calabria come attuazione di un “colonialismo interno” alla storia economica italiana. Ricostruendo le fortune e le disfatte di una famiglia borghese meridionale, quella dei Mercugliano, egli ritrova la presenza e la valenza di una borghesia meridionale affaristica e mercantile per più tempo capace di creare ricchezza e lavoro, sconfitta solo dall’intervento di uno Stato estraneo e nemico, portatore di interessi contrastanti e devastanti quelli del Meridione. Anche il Meridione ha avuto, insomma, una sua capacità a produrre merci per l’esportazione venendo fuori dall’economia del mero autoconsumo di sussistenza. Un importante tentativo, in tal senso,la Calabriaaveva già sperimentato nel corso dei secoli precedenti, con la produzione della seta greggia e lavorata . La filatura e la tessitura della seta erano state molto importanti per l’economia della famiglia contadina, ed aveva visto le famiglie contadine applicarsi a quella produzione, nei tempi morti del lavoro nei campi, “…C’è però da precisare che quel lavoro aggiuntivo non aveva modificato l’economia di villaggio, o non l’incise tanto da rivoluzionarla o da trasformare i borghi in città”. “Il villaggio era rimasto chiuso, gli assetti sociali fondamentali e il paesaggio agrario non avevano subito radicali mutamenti: In una parola, l’artigianato domestico dei contadini non aveva sradicato l’economia naturale” (pag. 34). “…In Calabria fu l’esportazione dell’olio a determinare il passaggio dalla chiusura medievale alla produzione per il mercato” (p.33); fu verso la fine del secolo diciottesimo che, a fronte di una massiccia richiesta di olio nel mercato occidentale si sviluppò enormemente la olivicoltura calabrese. “…In sostanza, la produzione e la vendita dell’olio, richiedendo ai contadini gran parte del tempo lavorativo, impose loro l’acquisto di merci esterne, un’apertura per giunta sollecitata dal ribasso del prezzo del grano e dei manufatti, che adesso cominciavano ad essere prodotti industrialmente, tutte cose che squarciarono le chiusure dell’economia di villaggio e modificarono il modo di produrre e di consumare”. “…La sua produzione coinvolse tutto e tutti. Il mercato non restò alla periferia della vita contadina e fuori del villaggio, ma iniziò la sua opera di intima penetrazione: nell’esistenza delle famiglie, nei consumi, nell’organizzazione del lavoro, nei rapporti tra le classi, nella posizione della regione nell’ambito della divisione internazionale del lavoro fece mutare ( o meglio avrebbe fatto mutare, se non fosse sopravvenuta la sciagurata unificazione politica sotto il Nord) le relazioni trala Calabriae l’Europa transalpina” (p. 34). L’autore scopre il legame che si consolidò, fra questi “produttori” e gli insediamenti napoletani ed amalfitani nella nostra regione. “Questi ultimi soprattutto, si collocarono a fattore di progresso in grembo alla comunità esistente, sfruttando, secondo il loro millenario costume, soltanto le opportunità commerciali che l’ambiente offriva” (p. 34). Le tappe di “…quell’incessante viaggiare delle golette amalfitane tra Napoli e le coste della Calabria, per incettare olio, trasformò le basi economiche della società locale” (p. 48). L’anno 1880, rappresentò il massimo di vitalità dell’economia calabrese anche in seguito all’effetto rivitalizzante dell’influsso mercantile amalfitano e napoletano, ma fu l’anno della guerra doganale conla Franciache bloccò notevolmente l’apporto positivo della produzione dell’olio. Fu anche l’anno della svolta: in seguito alle restrizioni conseguenti, il paesaggio agrario di gran parte del Meridione, riuscì infatti a convertire interessi e capacità produttive (e mercantili collegate) alla produzione per l’esportazione degli agrumi. Al rapporto città-campagna, a quanto “…in quel mio mondo antico, la campagna fosse separata dalla città e i contadini dai civili del paese” (p. 76), l’Autore dedica molte pagine autocritiche ricostruendo il suo stesso iniziale atteggiamento e della generazione a lui contemporanea, di estraneità nei confronti delle classi agrarie calabresi. Il rapporto cultura di sinistra, cultura unitaria e meridione; il rapporto (o la guerra) degli istituti bancari con l’economia meridionale, sono tutti elementi su cui la narrazione di Zitara costringe il lettore a riflettere grazie anche ad una scrittura semplice ed avvincente che convince profondamente il lettore dell’esistenza di un’economia meridionale ricche di una reattività che “…non può essere neanche lontanamente immaginata da chi non l’ha vista e purtroppo è ignorata dagli storici e dagli economisti, sempre intenti a misurare non solo le opinioni, ma anche i fatti, con il bilancino della coerenza sabaudista. Soltanto un narratore, Domenico Rea, ne ha fatto più volte cenno” (p.159).

Miriam Durante

11 novembre 2004 “Le chiavi di casa” – Un film più efficace dell’articolo n.104.

Un film toccante, vero; non c’è esagerazione né sentimento esorbitante, non si nota alcuna sbavatura. Riguarda lo scoglio dell’approvazione della diversità, in particolar modo nell’ambito familiare. È la storia di Gianni (Kim Rossi Stuart), padre di Paolo (Andrea Rossi), che dopo 15 anni di assenza decide di prendersi cura del figlio portatore di handicap che ha avuto da una ragazza morta al parto; lo accompagnerà a Berlino, dove il ragazzo seguirà specifiche cure mediche. Qui Gianni fa la conoscenza di una donna (Charlotte Rampling), madre di una ragazza anch’essa disabile, che gli dà una mano a superare il disagio psicologico nell’affrontare il problema di un figlio” diverso”. Il regista, Amelio, ha realizzato un film realistico e forte che, agendo con acume sulla psicologia dello spettatore, lo coinvolge in una situazione decisamente amara e gli fa provare il medesimo affetto che il padre prova per quel figlio che per lungo tempo ha rifiutato di vedere. Sconvolge la scoperta dell’affetto smisurato che una madre prova verso una figlia, che le è più cara ed è più sua proprio perché handicappata: “il lavoro sporco delle madri”, dice l’attrice nel film, “gratifica, anche se corrode…” Ma i propositi di un film del tipo non sarebbero stati di certo raggiunti se la trama, pressochè inesistente, non fosse stata supportata da dialoghi duri, che a volte trafiggono come spade, intercalati da silenzi lunghi, sapienti, angosciosi. Complimenti ad Amelio, così come agli attori. Il ragazzo, Andrea, fa colpo per la sua spedita naturalezza; fa quasi credere, per come recita, che l’handicap sia un problema a lui estraneo. Gli corrisponde un Kim perfettamente calato nel suo ruolo; sia lui chela Ramplingdimostrano la loro consumata capacità d’impersonare ruoli affatto semplici, dando un giusto peso di drammaticità alle scene. Il film si inserisce nel drammatico-sociale, e particolarmente nella problematica dell’isolamento dei portatori di handicap, con naturalezza, quando Gianni capisce che il figlio non potrà avere un normale rapporto con Cristina, la ragazza di cui è innamorato; o quando la signora spiega che i disabili generano compassione solo nel momento dell’infanzia, e riesce a darsi persino la giustificazione dell’abbandono del marito. Gianni è un personaggio dinamico, al principio si vergogna del ragazzo e non ammette che sia suo figlio; si fa poi la convinzione di poterlo aiutare; di fronte all’evidenza dei fatti (il ragazzo non migliorerà mai) prima si dispera ma poi si rassegna. Paolo, lui non cambia, continuerà per tutta la vita ad amare lo spor , ad essere tifoso della Lazio, a tenere a mente i suoi “doveri” di casalingo, a desiderare di tornare a casa come ad un guscio capace di proteggerlo dall’incomprensione altrui. Nel montaggio di Simona Paggi sono presenti pochi cut ( come quello del piroscafo). Le inquadrature, essenzialmente di primo piano, evidenziano le emozioni dei personaggi. Il film ha la durata di 105 minuti ed è a colori . Il titolo originale è “id”, il secondo “Le chiavi di casa”, che simbolicamente rappresentano l’aspirazione all’ indipendenza che c’è in ogni adolescente. Diversi i momenti di spannung: la fuga del ragazzo, il test in ospedale che sconvolge il padre, l’urto con la signora, la scena con la tv, con il videogame e con il claxon; tutti ottengono il risultato di una tensione che non dà tregua e non indulge a sentimentalismi . L’opera è dedicata a Giuseppe Pontiggia, dal cui romanzo (“Nati due volte”) si è preso spunto. Raccomando la visione di questo film; va direttamente al cuore, coinvolge la mente e, secondo me, è più efficace dell’articolo n.104.

Marlis MadeleineLa Caria

 

11 novembre 2005 Il “Codice” Da Vinci

Ecco la parola d’ordine per una discussione attuale… “Il Codice Da Vinci”. Il best seller di Dan Brown ha superato tutti i precedenti traguardi in campo letterario. I numeri parlano chiaro… otto milioni sono le copie vendute nel mondo di cui tre milioni e mezzo solo negli Stati Uniti. Varie sono state le discussioni che si sono accese nei programmi televisivi di “cultura”, affrontando il tema portante del libro dal punto di vista cristiano e laico. Per ciò che concerne il suo autore, si assicura che sia nato ad Exeter, nel sud del New Hampshire, il 22 giugno1964. Hastudiato all’Amherst College, si è laureato alla Phillips Exeter Academy. Dopo una non fruttuosa carriera come pianista in California, decide di tornare alla città natale e di insegnare lingua nell’ università in cui aveva studiato e in cui lo stesso padre insegnava. Nel 1996 si dedica completamente alla scrittura e scrive i suoi quattro libri di cui l’ultimo è appunto il famosissimo “The Da Vinci Code”, Il codice Da Vinci per farla all’italiana. La trama (per chi ancora non la conoscesse) è la seguente: al museo del Louvre di Parigi avviene l’inspiegabile assassinio del suo direttore, Jacques Saunière. Si intreccia un labirinto dentro il quale i protagonisti, lo studioso di simbologia Robert Langdon e la crittologa Sophie Neveu, in uno scenario intriso di suspence, districandosi in numerose analisi crittografico – artistiche (con particolare attenzione all’opera di Leonardo Da Vinci), si muovono all’interno di teorie rivoluzionarie rispetto alle attuali conoscenze fondamenti del mondo cristiano. Proprio per queste teorie che hanno dato una scossa notevole al mondo religioso (nel romanzo viene tirato in ballo l’Opus Dei in modo significativo) in tutto il mondo non sono mancate le polemiche, talvolta feroci, e le tesi di smentita, concretizzatesi in numerose pubblicazioni editoriali che hanno iniziato una sorta di crociata “anti-Codice Da Vinci”. Scendendo più nei particolari, è giusto che il mondo cristiano (e in particolare quello cattolico) si sia accanito contro questo capolavoro letterario? La risposta sembra semplice ma non lo è. Scorrendo tra le pagine del libro si possono notare numerosi riferimenti al fatto che Gesù Cristo avesse contratto matrimonio conla Maddalena, considerata dai cristiani come la meretrice che Gesù salvò dalla lapidazione con la celebre frase: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”. In effetti la dottrina cattolica non contempla assolutamente il matrimonio di Cristo e l’ affermazione precedente minerebbe alle basi di tutta religione, in quanto dovrebbe cambiare tutti i Vangeli accettati come non apocrifi. Tuttavia l’autore, onde evitare equivoci, ha preferito avvertire i lettori senza prendere posizione, scrivendo fin dalle prime pagine “Questo libro è un opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’ autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi, e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale”. A sostegno di tali ipotesi, si potrebbero porre i vangeli apocrifi degli stessi discepoli, come Giuda Taddeo, il quale afferma chiaramente che Gesù ela Maddalenavivevano insieme. Esistono poi i cosiddetti “Dossiers Secrets” in cui si fornisce l’identità di numerosi membri del Priorato di Sion, una società segreta che si dice custodisca il Sacro Graal, cioè i documenti che attestano che Cristo era sposato conla Maddalenae aveva figli. A tale società segreta apparteneva Leonardo Da Vinci, che ci dà testimonianza nelle sue opere pittoriche, nascondendo in ognuno dei suoi capolavori simboli e codici da scovare e interpretare. Il Priorato di Sion, comunque, costituisce uno snodo importante di tutta la vicenda; si dice infatti che i templari abbiano fondato tale ordine per nascondere al mondo intero la verità, quella verità che in molti non sono disposti ad accettare. La storia parla di avvenimenti come il famoso Venerdì13, incui l’ordine dei Templari venne quasi sterminato, dicendo che il mandante di questa “esecuzione di massa” era stata la stessa Chiesa. Viene spontaneo allora chiedersi perché tanta ferocia nel reprimere questo ordine cavalleresco se non per la distruzione dello scomodo segreto custodito dai Templari. Non essendo vissuti all’epoca, non possiamo affermare con assoluta certezza le nostre tesi ma possiamo tentare di avanzare ipotesi e cercare una risposta ai nostri dubbi. È lecito infatti per noi usare il nostro intelletto al fine di scoprire ciò che ci è utile, cercando di laicizzare il nostro pensiero il più possibile, in quanto con la fede non si può spiegare tutto. A caro prezzo infatti si è imparato a mettere in discussione l’affermazione “ipse dixit” che sanciva l’assoluta ragione dell’ “auctoritas” a scapito dei pensatori che individuavano nel processo cognitivo la reale verità. Appare scontato a questo punto credere chela Chiesaabbia solamente ingannato la comunità di fedeli, abbindolati da promesse di vita oltre la morte, vita migliore di quella terrena, dove Dio avrebbe perdonato i peccatori e li avrebbe redenti in cielo, condannando coloro i quali non si sarebbero pentiti dei mali commessi. Questa deduzione tuttavia non rispecchia la realtà perchè al Gesù cristiano non vengono contestate le ideologie bensì la stato sociale. Non è lecito eliminare completamente la dottrina ma lo è rinnovarla perché l’innovazione è ciò che ha reso possibile lo sviluppo della civiltà. Per un Cristiano che ripone la sua fede in Dio non è infatti importante se Cristo fosse o no sposato; anzi sapere che Cristo sposòla Maddalenapotrebbe essere utile perché verrebbe spontaneo pensare che Dio, vero amore abbia provato quel semplice sentimento che noi comuni mortali chiamiamo amore, e quindi l’abbia reso più vicino a noi uomini senza tuttavia allontanarlo da Dio in quanto suo figlio. Dopo queste riflessioni è quindi possibile farsi una propria idea e quindi abbozzare una risposta al quesito precedentemente esposto e qui per comodità riportato: è giusto che il mondo cristiano (e in particolare quello cattolico) si sia accanito contro questo capolavoro letterario? La risposta che personalmente sento di dare è negativa in quanto l’accanimento del progetto anti-Codice Da Vinci è stato esagerato, generato da un qualche impulso mal controllato, che ha portato ad un clima di paura verso ciò che è diverso, da quanto acquisito culturalmente nei secoli. Ed è così che, con le innovazioni all’apparenza troppo diverse per funzionare il mondo si evolve.

Fulvio Ventura

24 novembre 2006 Dove nascono le stelle

Dalla vita ai Quark: un viaggio a ritroso dalle origini dell’Universo.

L’autrice, Margherita Hack, celebre astrofisica, oggi professore emerito di Astronomia all’Università di Trieste e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, dopo una vita dedicata allo studio del Cielo, dopo aver diretto l’Osservatorio Astronomico di Trieste, avendo lavorato con l’ESA e presso Osservatori americani ed europei, si è occupata prevalentemente di divulgazione ed ha pubblicato numerosi libri rivolti soprattutto al grande pubblico. Il sottotitolo del testo spiega bene dovela Hackvuole arrivare: partendo dalla constatazione che nel cosmo c’è la vita, ci accompagna in un insoliti e affascinante viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio fino alla nascita dell’universo, miliardi di anni fa. Nel primo capitolo si pone la fatidica domanda: ”Siamo soli nell’universo?dove e sotto quale forma può svilupparsi la vita? E ancora: quale origine hanno i sistemi planetari? Dove nascono le stelle? Si sono formate prima le stelle o le galassie?cosa c’era prima di esse? L’espansione dell’universo è frenata o accelerata? Il viaggio a ritroso porta quindi alle stelle, alla nascita degli elementi e ai mezzi usati dagli astrofisici per svelare questi misteri. Il passo successivo conduce alle galassie ed infine al caos primordiale che con la sua evoluzione ha permesso di arrivare a degli esseri intelligenti. Il testo è corredato da splendide immagini , da un piccolo glossario , e da una post fazione in cui si narra di un incontro trala Nostrae due giornalisti che evidenziano la sua semplicità.La Hackparla di sé, dell’infanzia, delle arrampicate sugli alberi, delle fughe in bicicletta e dell’incontro con suo marito Aldo. E parla ovviamente del suo rapporto con la religione:”Si,sono non credente” esordisce , ma alla domanda: ”E se tra cent’anni, quando morirà, dovesse scoprire che esiste la vita eterna cosa direbbe a Dio?” “Che ho sbagliato, e forse tutto sommato, sarebbe bello; meglio essersi sbagliati! Conclude così l’autrice che riesce a rendere comprensibili i concetti astrusi e difficili con una prosa semplice e chiara.

Alice Barbieri

 

13 gennaio 2008 –Elena Loewenthal, ”Dimenticami”, Bompiani, pp. 352, euro 15.

“Non puoi chiedermi di dimenticare: no! Non posso dimenticarti, Viola, mi è impossibile – e poi non voglio, non ci riesco, non sarà mai così. È un comando assurdo il tuo”. Questi i pensieri di Alberto, fotografo protagonista del romanzo “Dimenticami”, in cuila Loewenthalaffronta e riflette, sul sentimento della memoria e sul grande potere che i ricordi detengono nella conduzione della nostra vita. Perché “Dimenticami” è il romanzo della ricerca, nata da una parola pronunciata in una serata tranquilla, ”come tutte le altre”. Parola così intensa e carica di significato da divenire il titolo del romanzo; parola che sconvolge la vita di Alberto: con essa (e per essa) inizia un percorso che riguarda se stesso, i suoi ricordi, il tentativo di sottomettersi a quella decisione improvvisa ma inappellabile. Un itinerario, composto di incontri familiari, passioni di una notte, eros, attimi fuggenti che non riescono a sollevare il suo animo. Viola rimane presente, in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni parola. Dimenticare è possibile? Perché Alberto non riesce a soddisfare la richiesta di Viola? Di pagina in pagina,la Loewenthalsembra dirci che dimenticare è un istinto naturale, viviamo e, scorrendo le pagine della nostra vita, finiamo per sfumare, modellare o consumare i nostri ricordi. Tale è la realtà che raffigura Alberto, per il quale Viola è ombra, è un fantasma, è semplicemente un nome dimenticato. E solo nelle ultime pagine, che Viola riprende la parola, per spiegarci il motivo del suo inatteso imperativo.La Loewenthal, nota studiosa di Ebraismo, affronta un tema non semplice, in un romanzo (non più inserito in una cornice ebraica), discorsivo e leggero, ma non privo di qualche passaggio che sembra appesantire il libro. D’altro canto, il romanzo è positivamente dotato di descrizioni pacate e dettagliate, e di momenti abbastanza avvincenti e tali da consentire al lettore di arrivare sino in fondo.

Danila Rossi

13 gennaio 2008 La vita scorre lenta come le nuvole nel cielo.

Sandro Veronesi, “Caos calmo”, Bompiani, pp. 462, Euro 17,50

“Tu fai conto che sto qui ad aspettarti finché non esci.  Anche se non mi vedi, capito? Io sono qui”, dice Pietro Paladini, vedovo di quarantatre anni, alla figlia di dieci. Così si piantona lì, davanti alla scuola elementare di Claudia, nell’abitacolo della sua Audi per mesi, per non abbandonarla davanti alla “grande botta” della rielabo-razione del lutto, quella che lui stesso inspiegabilmente non prova,  ma aspetta, mentre cerca di sfuggirgli. È l’immagine di un uomo apparentemente realizzato, un po’ superficiale, ma normale: chi non ha paura del dolo-re, di affrontare delusioni e frustrazioni? In questo pic-colo angolo di paradiso in terra, Pietro abbandona la sua quotidianità per ripercorre la propria vita attraverso i ricordi, le visite della quasi-cognata che tendono a col-pevolizzarlo e gli svelano lati sconosciuti della mancata moglie, la musica dei Radiohead che lo conforta e che sembra essere la voce di Lara. Riceverà le visite dei colleghi e dei capi del mondo aziendale,cinico e opportunista,tutti preoccupati dalla grande fusione, mentre la società caotica milanese assiste meravigliata alla sua quiete. Attraverso una scrittura fluida e quasi magnetica, non senza qualche vena di erotismo, si partecipa di quel caos calmo, silenzioso e latente dello animo di Pietro; vengono stimolate emozioni vere. Veronesi parla di una storia tragica non senza la dovuta ironia, rendendo i suoi personaggi a volte ridicoli (comica la “caccola” di Steiner), altre degli eroi, pur restando sempre delle persone, cioè conservando la loro umanità: amabile il gioco instauratosi tra Pietro e il bimbo down, cui l’ Audi “ricambia” il saluto. Un roman-zo introspettivo che si esplica attraverso un continuo fluire di pensieri e di domande, una tormentata analisi senza la capacità di scorgere che la risposta è sempre sotto il nostro sguardo, se solo si riuscisse a capire che il tempo dei giochi è passato ormai da tempo. Pietro lo capisce troppo tardi, riportato al mondo degli adulti proprio dalla sua bambina. Un finale abilmente conge-gnato per la sua ambiguità e che pone fine a una serie di storie secondarie, forse troppe, che avrebbero potuto protrarsi all’infinito. Un libro per chi ha voglia di emozionarsi e calarsi nella complessità dell’animo umano senza la voglia di giudicare, ma di comprendere e riflettere.

Maria Caterina Pugliese

13 gennaio 2008 Tra madre e figlia

“Cuore di mamma” il romanzo di Rosa Matteucci, è un piccolo capolavoro pubblicato dall’Adelphi; un libro rapido, disilluso in cui da poche righe emerge la storia drammatica di due donne sole (Luce e Ada), del loro conflitto con la esistenza e con il mondo: la vecchia e insopportabile madre Ada viene descritta con tragico realismo anche nelle sue fisiologiche manifestazioni corporali; Luce, invece, è una donna sola, che crede nei sogni, nel principe azzurro, nella vita nonostante tutte le speranze deluse. Le due donne nei loro caratteri specifici ci presentano il vero protagonista del romanzo: il rapporto tra genitori e figli, il rapporto della società con gli anziani. L’autrice con straordinaria capacità descrittiva, “dipinge” con i personaggi uno spaccato sociale che è la forza del romanzo, infatti pone l’accento su un dramma quotidiano,nessuna storia eccezionale è presente nell’intreccio ma solo il “dramma del vivere” di una vecchia signora che lotta tra il non voler essere subordinata ad una badante e il non poter esserlo a causa della sua vecchiaia; allo stesso tempo il dramma di una figlia che per necessità, per la  testardaggine e la misantropia materna deve “seppellire i suoi sentimenti, deve essere forte” ed imporre alla madre la sua volontà. Il romanzo è articolato su una prosa visiva, tagliente, incisiva che dà un taglio originale al romanzo arricchito inoltre dal linguaggio vario, che cambia continuamente tono dal classico sublime al gergo di una comicità volgare; tutto ciò contribuisce a creare una atmosfera disincantata, pervasa da una triste amarezza che abbraccia ogni piccolo gesto quotidiano e si esemplifica in un tono spesso grottesco, ironico, mordace, tragico che ricorda le antiche farse e le commedie plautine. Il finale è quasi inatteso, immerge il lettore in un clima nuovo e spiazzante che lascia dell’amaro in bocca poiché mette Luce e tutti noi di fronte alla realtà, al mondo; il triste finale porta Luce a guardare fuori e dentro di sé come non aveva mai fatto e ciò genera nella donna un groviglio di emozioni, domande che vengono fuori come un fiume in piena.

Le ultime pagine sono un’apertura al mondo, alla società e ciò ci fa andare dalla particolarità della storia narrata all’universale. Il romanzo è bello, appassionante, tristemente tragicomico, mette in luce rancori e ipocrisie familiari, ci mette di fronte alla realtà ma soprattutto a noi stessi poiché fruga nell’orrore dei gesti quotidiani.

Tiziana  Arena

 

21 gennaio 2008 La persona nel corso del tempo

L’idea di persona viene da lontano e, in modi diversi, nei pensieri sorgivi dell’Occidente. La polivalenza dei suoi sensi ha però portato a una dispersione della sua identità originaria. Siamo ormai ben lontani dalla meditazione stoica sul carattere rappresentativo della persona e anche dalle articolate riflessioni della teologia cristiana dei primi secoli e dell’età scolastica, che andò declinando l’idea di persona insieme con quella della trinità di Dio.

Tutto questo ha a che fare con la crisi dell’uomo borghese e con la serializzazione indotta dal progresso tecnologico, che si è inevitabilmente tradotto in una perversa massificazione dei costumi, dei bisogni, perfino dei desideri. Ci si può anche chiedere se questa caduta dell’identità personale non sia stata sostenuta all’origine sul piano della idee, dalle diverse versioni del naturalismo e dell’idealismo: in questa prospettiva l’identità personale non era, infatti, che un frammento fenomenico, un passeggero centro di sintesi e di azione della natura o dello spirito in una fugace processualità della Natura assoluta o dell’assoluto Spirito. Si può allora comprendere perché il risveglio della conoscenza filosofica, già alla fine dell’800, abbia portato a una ripresa critica dell’idea di persona solo dopo la messa in questione sia del pensiero idealistico, sia quello positivistico.

Il tema della persona, allora, è antico, ma ha assunto una particolare rilevanza dalla prima metà del ‘900 sino a oggi, spesso in antitesi alle forme dilaganti dell’individualismo e del consumismo borghese.

Nella prima parte del volume vengono ripercorse le diverse voci del personalismo contemporaneo, da quelle che amarono l’incandescente stagione del movimento “Esprit”, fra gli anni ’30 e ’50 a quelle non meno rilevanti del personalismo tedesco e italiano.

Sullo sfondo dei guadagni teorici del personalismo novecentesco, l‘ Autore traccia – nella seconda parte del volume – una sintesi teorica del tema, muovendo dalle antiche parole, che nella lingua greca e in quella latina, dicono dell’uomo come persona. La storia della parola viene poi tradotta in una serrata analisi delle strutture stesse della vita personale. Di là da ogni dualismo mente-corpo, ne risulta una figura unitaria dell’uomo, inteso come prospettiva che dalla concretezza del proprio esserci è intimamente volta alla ricerca e al vissuto di un ultimo senso dell’essere: l’uomo dunque come capacità di trascendere, nella percezione dell’universale, la condizione determinata dei propri spazi e dei propri tempi. E’ su questo sfondo che viene poi a disegnarsi lo scenario della libertà con i suoi percorsi e le sue elevazioni, m anche con le sue cadute e le sue malattie.

Un’attenzione particolare emerge in tal senso verso i grandi temi del rapporto interpersonale, dell’eros, della differenza tra uomo e donna, della riconoscente reciprocità e del rispetto, quali cardini essenziali della vita etica.

Ed ecco, un sapiente percorso che illustra la persona da come veniva intesa nella filosofia greca fino a come viene intesa nella filosofia contemporanea.  (Virgilio Melchiorre, Essere Persona)

Michele Restuccia

 

22 maggio 2008 – Premio Grinzane Cavour

Tiziana Arena vince il primo premio al “Grinzanelettura – Incontro con l’autore” per la recensione al romanzo “Cuore di mamma” di Rosa Matteucci.

Con i complimenti dell’intera redazione dello School Times, riportiamo di seguito il suo elaborato.

“Cuore di mamma” il romanzo di Rosa Matteucci, è un piccolo capolavoro pubblicato dall’Adelphi; un libro rapido, disilluso in cui da poche righe emerge la storia drammatica

di due donne sole ( Luce e Ada), del loro conflitto con la esistenza e con il mondo: la vecchia e insopportabile madre Ada viene descritta con tragico realismo anche nelle sue

fisiologiche manifestazioni corporali; Luce, invece, è una donna sola, che crede nei sogni, nel principe azzurro, nella vita nonostante tutte le speranze deluse. Le due donne nei loro caratteri specifici ci presentano il vero protagonista del romanzo: il rapporto tra genitori e figli, il rapporto della società con gli anziani. L’autrice con  straordinaria capacità descrittiva, “dipinge” con i

personaggi uno spaccato sociale che è la forza del romanzo, infatti pone l’accento su un dramma quotidiano, nessuna storia eccezionale è presente nell’intreccio ma solo il “dramma del vivere” di una vecchia signora che lotta tra il non voler essere subordinata ad una badante e il non poter

esserlo a causa della sua vecchiaia; allo stesso tempo il dramma di una figlia che per necessità, per la  testardaggine e la misantropia materna deve “seppellire i suoi sentimenti, deve essere forte” ed imporre alla madre la sua volontà. Il romanzo è articolato su una prosa visiva, tagliente, incisiva che dà un taglio originale al romanzo arricchito inoltre dal linguaggio vario, che cambia

continuamente tono dal classico sublime al gergo di una comicità volgare; tutto ciò contribuisce a creare una atmosfera disincantata, pervasa da una triste amarezza che abbraccia ogni piccolo gesto quotidiano e si esemplifica in un tono spesso grottesco, ironico, mordace, tragico che ricorda le antiche farse e le commedie plautine. Il finale è quasi inatteso, immerge il lettore in un clima nuovo e spiazzante che lascia dell’amaro in bocca poiché mette Luce e tutti noi di fronte alla realtà, al mondo; il triste finale porta Luce a guardare fuori e dentro di sé come non aveva mai fatto e ciò genera nella donna un groviglio di emozioni, domande che vengono fuori come un fiume in piena.

Le ultime pagine sono un’apertura al mondo, alla società e ciò ci fa andare dalla particolarità della storia narrata all’universale. Il romanzo è bello, appassionante, tristemente tragicomico, mette in luce rancori e ipocrisie familiari, ci mette di fronte alla realtà ma soprattutto a noi stessi poiché fruga nell’orrore dei gesti quotidiani.

Tiziana  Arena

 

5 giugno 2008 – “Cinderella Story”

 Cinderella Story è un film del 2004 diretto da Mark Rosman, con Hilary Duff, Chad Michael Murray e Jennifer Coolidge. È una commedia che racconta la storia di una “cenerentola” biondina che si chiama Sam, vive a Los Angeles e ha 16 anni… ma invece di perdere la scarpetta, perderà il cellulare! Anche la colonna sonora è una canzone di genere pop cantata dall’attrice/cantante Hilary Duff. Nel film Sam è una bambina di 8 anni che vive con il padre. I due hanno un rapporto molto intenso e Sam cresce tra il ristorante del padre e i campi da baseball. Ma la situazione cambia quando il padre incontra Fiona, una donna della quale si innamora. I due si sposano e Sam deve sopportare, oltre ad una matrigna antipatica, due sorellastre gemelle, Gabriella e Brianna, che Fiona ha portato con sé. Una sera si verifica un terremoto e il padre si Sam ne è vittima. Da qual momento per Sam tutto va a rotoli: la matrigna la manda in soffitta, dando la sua stanza alle sorellastre, si impadronisce del ristorante e sperpera tutti i soldi del padre per la sua vanità. Sam è costretta a lavorare come cameriera nel ristorante subito dopo scuola, per guadagnarsi i soldi per il college. Trova conforto da questa situazione in un ammiratore segreto (il cui nick-name è “Nomade”) conosciuto in chat (col quale parla fino a notte fonda) che le propone di incontrarsi al ballo in maschera di Halloween, organizzato dalla scuola che frequentano. Così Sam, dopo aver riflettuto molto, decide di andare di nascosto dalla matrigna. Per l’occasione Rhonda, cameriera al ristorante, presta a Sam un bellissimo vestito da Cenerentola ma, arrivata al ballo, scopre che il Nomade, vestito da principe (ma senza maschera sul volto) in realtà è Austin Ames, il giocatore di baseball più popolare della scuola. Nonostante ciò, i due passano una bellissima serata insieme e proprio quando la ragazza si sta per togliere la maschera per rivelare la sua identità, a mezzanotte squilla la sveglia del cellulare di Sam che deve andare via per non farsi scoprire dalla matrigna. Il giorno dopo, Austin, deciso a trovare la sua cenerentola, affigge dei volantini per tutta la scuola ma Sam, per paura di essere respinta, non si rivela. Una mattina, al ristorante vede scritta la frase del padre “Non lasciare mai che la paura di perdere ti impedisca di partecipare”. La chiave del film sta tutta in queste parole che determinano l’epilogo in positivo.

E’ un film che piace a molti ragazzi come me, visto che il messaggio è “Segui il tuo sogno e non farti ostacolare da nessuno”. Credo che nella mia età avere dei sogni e degli obiettivi da raggiungere sia molto importante.

Lorenzo Cutellè

8 giugno 2008 –“Troy”

“Troy” è un film del 2004 diretto dal regista tedesco Wolfgang Petersen, e narra le vicende raccontate da Omero nell’Iliade: il rapimento di Elena,la donna più bella del mondo, la guerra di Troia, la disfatta di Ettore e il mito del grande e possente Achille.Il film è stato prodotto negli USA ed è stato disponibile nelle sale cinematografiche a partire da Maggio 2004. I suoi principali attori sono: Brad Pitt interpreta Achille, Eric Bana interpreta Ettore,Orlando Bloom interpreta Paride, Brian Cox interpreta Agamennone, Brendan Gleeson interpreta Menelao, Diane Kruge intrrpreta Elena, Sean Bean interpreta Ulisse, Peter O’Toole interpreta Priamo, Rose Byrne interpreta Briseide, Julie Christie interpreta Teti, Garrett Hedlund interpreta Patroclo, Saffron Burrows interpreta Andromaca. Film di genere storico narra della famosa guerra di Troia. Guerra che vide contrapposte due fazioni molto potenti, i Troiani e gli Achei, la battagli a durò realmente dieci anni, ma nell’Iliade si narrano solo gli ultimi cinquanta giorni. Paride rapisce la bella Elena, innamoratasi di lui, dopo una promessa che gli era stata fatta dalla dea Afrodite…e fu ciò che scatenò l’intera guerra. All’uscita nelle sale il film scatenò parecchie polemiche dato che troppe erano le differenza con il mito Omerico. Perché nel film ad esempio non compaiono grandi eroi come: Enea, Diomede o Aiace, tutti grandi guerrieri. Il film però è molto coinvolgente. Dato che la sceneggiatura e i testi riescono ad attenersi al tempo  al luogo. Per girare il film infatti si sono usati tre diversi luoghi: Marocco, Malta e Messico. Secondo me si vede benissimo come l’intenzione del regista fosse quella di creare una storia intrigante e passionale che però rispettasse abbastanza la narrazione di Omero. Il film è abbastanza coinvolgente e bello, ciò che maggiormente mi ha colpito è stata l’interpretazione degli attori, si notava infatti una recitazione quasi”divina”. Un Achille capriccioso e forte, un Agamennone vanitosi e tracotante, un Ettore ricco di valori e valoroso in battaglia…  

Giulia Grasso  

9 giugno 2008 – Orgoglio e pregiudizio

“Non è abbastanza bella da tentarmi”…eccola qui, la frase incriminata, che dà il via ad una serie di incomprensioni, equivoci…e che fa sì che due persone destinate a stare insieme perdano un sacco di tempo (circa un anno) prima di capirlo.

Credo che tutti voi, chi può chi meno, ne abbiate sentito parlare, o per aver letto il libro o per aver visto una delle tante trasposizioni cinematografiche. Si tratta sicuramente di un classico intramontabile, che mentre ci narra la storia dei protagonisti, Elizabeth e Darcy, ci trasporta in un’epoca sconosciuta, fatta di etichetta, di convenzioni, ma anche di sentimenti veri. Guardando questi film, in cui i protagonisti si danno addirittura del voi, si innamorano segretamente dopo pochi sguardi, in cui gli uomini si dichiarano e arrivano addirittura a chiedere la mano di donne che non hanno mai nemmeno baciato, mi chiedo “ma cosa c’era di così sbagliato? Non è che questi avevano capito l’essenza vera dell’amore e noi uomini di oggi, col passare del tempo, ci siamo semplicemente fatti abbagliare dal contorno?”

Sinceramente, se avete visto il film, non potete negare che non traspaia, da ogni singola inquadratura e da ogni piccolo gesto, una sensazione di amore che gira nell’aria…un romanticismo e un erotismo molto superiore a molti di quei film in cui ti fanno vedere tutto e niente è lasciato all’immaginazione…e per fare una cosa simile, per rendere una tale atmosfera, posso solo riconoscere che il regista e gli attori hanno dimostrato di essere veramente bravi, e di aver comunicato perfettamente le emozioni, l’amore, la stupidità e l’ignoranza di due persone, chiaramente destinate l’una all’altra, talmente uguali e simili nei comportamenti e nei pensieri da non riuscire a riconoscersi, se non alla fine.

Per tutto il film, Darcy viene presentato come un uomo orgoglioso, a tratti brusco e accigliato, ma è anche leale, posato e fermo nei giudizi. Elizabeth, invece, è così sicura di sé e dei suoi parametri di giudizio, da non lasciare al poveretto nemmeno il beneficio del dubbio, e giudica ogni sua azione negativamente, perché influenzata da un pregiudizio di fondo: vede Darcy e i suoi modi di comportarsi come una forma di ostentata superiorità, e non capisce che lui, nelle sue azioni, è spinto da lealtà e amicizia profonda verso l’amico Bingley, innamorato della sorella di Elizabeth.

La scena più intensa di tutto il film è secondo me quella in cui lui si dichiara…e lei lo respinge in modo molto duro…in quella scena c’è una intensità molto forte, che tuttavia nella versione italiana non rende in pieno…e il poveretto, benché trattato veramente a pesci in faccia, non smette di amare Elizabeth, e addirittura agisce solo per evitarle un dolore, riuscendo a sistemare a sua insaputa una situazione davvero grave per l’epoca (la sorella quindicenne di Elizabeth era scappata con un soldato e aveva compromesso se stessa e tutta la famiglia). Insomma, scende dal piedistallo, e capisce che se vuole avere qualche minima possibilità di successo con lei deve imparare ad essere più umano e, soprattutto, dovrà porre rimedio ad alcuni suoi errori, come quello di separare l’amico Bingley dalla sorella di Elizabeth, compiuto comunque in buona fede, nella certezza che lei non amasse Bingley e fosse attratta principalmente dalle sue ricchezze.

Personalmente ho trovato questa versione cinematografica impeccabile, corrispondente al libro quasi in ogni dettaglio, e con una scelta di attori incredibilmente azzeccati. Keira Knightley è una Elizabeth perfetta, dolce, impertinente, intelligente e determinata. Sembra l’unica, insieme con la sorella Jane, ad avere un po’ di buon senso nella famiglia Bennet. Se proprio le si deve fare un appunto…beh, nel film l’ho trovata eccessivamente magra, un po’ troppo scheletrica….insomma, in certe inquadrature in controluce risultava veramente impressionante. Anche Darcy, interpretato da Matthew Mcfadyen, attore che personalmente non avevo mai visto all’opera, è semplicemente perfetto. E’ esattamente il ritratto di come dovrebbe essere un uomo (vero…ma purtroppo sembra proprio che la razza si sia estinta): forte sia fisicamente che moralmente, uno tutto d’un pezzo, leale, intelligente, pronto a riconoscere gli errori. Molto bravi anche gli interpreti dei genitori di Elizabeth, che rispecchiano perfettamente i personaggi del libro: un marito completamente succube della moglie e delle figlie, che per quieto vivere decide semplicemente di ignorare quello che lo circonda rifugiandosi nelle sue piante e nella sua collezione di insetti; e una madre molto ansiosa di vedere sistemate le 5 figlie femmine, e più interessata ai patrimoni dei futuri generi che al genere di persona che questi sono realmente, nella segreta convinzione che denaro e valori morali vadano di pari passo. Anche le musiche sono molto belle, azzeccate per l’epoca e intonate perfettamente alla scenografia, che oltre a ricorrere ad ambientazioni in interni sontuosi e tipicamente vittoriani, si avvale di paesaggi davvero mozzafiato, boschi, scogliere, il tutto circondato dalla cupezza e dal grigiore del clima inglese.

Insomma, è un film da vedere (e rivedere) come terapia alla frenesia di oggi, che purtroppo ha colpito anche il lato sentimentale e affettivo delle persone. E’ un film pacato, calmo, che non potrà non essere apprezzato e lasciare qualcosa in tutte quelle persone che sotto sotto, nonostante tutto, conservano ancora una certa dose di romanticismo.

Giovanna Rizzo

9 ottobre 2008 Quel bravo ragazzo di mafia

Nell’ultimo libro di Gugliotta e Pensavalli è la realtà che invita ad una scelta, senza retorica e giri di parole

“Mi chiamo Maurizio, sono un bravo ragazzo, ho ucciso ottanta persone”: titolo insolitamente lungo. Tutto sta nella chiave oppositiva tra il bravo ragazzo e gli ottanta omicidi, opposizione che si rivela in effetti falsa, dal momento che “bravo ragazzo” è qui inteso nel gergo mafioso come “picciotto”. Maurizio non è un bravo ragazzo come lo intende la gente comune, quella che non cammina per le strade con il senso di onnipotenza che solo una pistola può dare. E c’è anche lei in copertina, la pistola: a questo punto risulta inutile leggere la trama, è già tutto lì.

Gli omicidi, il killer, l’orgoglio di appartenere al potente clan Santapaola, ma non abbastanza forte  da non cedere infine alla coscienza.

Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli, giornalisti di grande esperienza, raccolgono le testimonianze del pentito Maurizio Avola, ex killer del clan, del giudice che  si occupa delle sue deposizioni e della moglie Silvana, per poi comporle in un quadro di agghiacciante realtà

C’è principalmente il flusso di coscienza di chi un giorno ha deciso di uccidere un uomo, nell’ormai scontata e spasmodica ricerca di rispetto e potere, ma c’è la storia d’amore e sofferenza di una moglie di mafia, una donna che non fa domande perché in fondo non vuole risposte. C’è un boss ricercato che vive tranquillo in campagna e ogni tanto si fa un giro in bici come il più innocuo dei vecchietti, come la criminalità mimetizzata che rappresenta.

C’è un giudice che, pur svolgendo il proprio mestiere, non può fare a meno di farsi domande su Stato, politica e persino religione.

E poi c’è il grande palcoscenico, Catania, con il suo bellissimo mare e le belle ville che lo ammirano dai terrazzi, lasciandosi alle spalle le baracche della periferia e i loschi affari dei loro proprietari.

Piuttosto inusuale l’idea di far raccontarela Mafiada un mafioso, ma molto efficace in una società stanca di affermazioni retoriche.

Maurizio non si fa portatore di nessuna lotta, asseconda semplicemente la propria coscienza, a volte ha persino dei dubbi sulla giustezza del proprio pentimento.

In un libro del genere non ci sono slogan abusati ma la semplice realtà dei fatti, in un periodo “caldo” che va dagli anni 80 ai giorni nostri.

Eppure il messaggio c’è, ovviamente, come in ogni libro di mafia, ed è la scelta, o meglio la possibilità di scelta.

Pensiamo al giovane Maurizio, che sceglie di intraprendere la strada del crimine piuttosto che restare a lavorare al ristorante del padre. Pensiamo a Silvana, la donna che sceglie di restare a fianco al suo uomo anche conoscendo il suo stile di vita. Allargando la visuale, pensiamo alla politica che non si schiera e a quella che invece si schiera dalla parte dei mafiosi, pensiamo alla Chiesa che non ha ferme posizioni al riguardo, e si divide tra i don Pugliesi di turno e quelli che invece preferiscono non esporsi. Poi c’è il lettore: anche lui è chiamato a scegliere, dopo una lettura che lo ha reso di certo più consapevole.

Marzia Mancuso

 

4 dicembre 2008 Viaggio al centro della terra

L’incredibile fantasia di Verne ci porta con lui al centro della terra. Un viaggio fantastico, un’avventura straordinaria. Un libro che rappresenta un capostipite della cosiddetta letteratura fantascientifica e che ha fatto scuola fino ai giorni nostri, ovviamente sotto altre forme e racconti.  La trama di  per sé è molto semplice. Lo stile è lineare ma allo stesso tempo coinvolgente.

Una pergamena trovata in un vecchio libro dal professor Otto Lidenbrock contiene un messaggio cifrato scritto in caratteri runici da  Arne  Sacknussem, celebre scienziato del 1500 che era arrivato appunto al centro della terra grazie ad un passaggio che  aveva trovato all’interno di un vulcano in Islanda.  I due, il professore e suo nipote Alex, raggiungono cosi l’isola e anche grazie all’aiuto del cacciatore Hans scendono nel vulcano. Verne fa fare loro delle avventure mozzafiato nelle immense cavità sotterranee dove dopo molte difficoltà arrivano in un enorme caverna descritta appunto come il centro della terra riempita da un mare che viene chiamato con il nome del professore. I  tre uomini provano ad attraversare questo mare su una zattera e  dopo giorni di navigazione arrivano, o meglio, ritornano alla riva che avevano lasciato naufragati da una spaventosa tempesta;  allora convinti, che proprio in quella riva ci fosse il passaggio per continuare a scendere, la esplorano. Durante la traversata avevano assistito ad una lotta spettacolare tra un ittiosauro ed un plesiosauro, animali primitivi, e ancora vedono vegetali di dimensioni enormi, fossilizzati, un uomo gigante alto12 piediche pascola una mandria di mastodonti  e altri segni di un passato remoto. I viaggiatori però ritrovano il passaggio per scendere ma lo trovano bloccato da una frana. Cercano dunque di farsi largo provocando un’ esplosione che li porta di nuovo alla terra attraverso il vulcano Stromboli, da cui poi ritornano ad Amburgo.

Ho letto questo libro così per caso durante l’estate e la cosa che mi è rimasta impressa di più è la semplicità con cui il professore Lidenbrock confutava e smentiva le teorie della scienza.  Avrete capito bene, infatti, che se fossero state vere,  i due non sarebbero arrivati sulla terra ma sarebbero rimasti sciolti per via dell’elevata temperatura e poi non avrebbero di certo trovato a quelle profondità un mondo di diversi milioni di anni fa, addirittura abitato da animali giganteschi. Credo che sia proprio questo  un insegnamento di questo libro:  la scienza ha delle teorie che non sono affatto sperimentate  ma che poi vengono smentite man mano che si fanno delle nuove scoperte. Questo libro inoltre è stato scritto a fine’800 sull’onda delle nuove scoperte che si stavano facendo in tutti i campi e che a tutt’oggi non sono ancora finite, quindi riflette un pò la corrente che era prevalente a quell’epoca. Anche gli scrittori, spinti dalla sete di conoscenza fantasticavano e scrivevano circa argomenti che prospettavano situazioni inverosimili. Infatti, quell’epoca era caratterizzata da grandi cambiamenti in tutti i campi della scienza; pensiamo ad esempio alle spedizioni geografiche, ai passi avanti effettuati nel campo della medicina e delle scienze. Queste scoperte  non sono ancora finite : oggi si possono effettuare viaggi nello spazio a bordo di shuttle dotati con le più stravaganti tecnologie, si può viaggiare in tutti i luoghi del mondo in poco tempo e con una modesta quantità di spesa, insomma, la tecnologia ha fatto evidenti progressi, che ovviamente continueranno anche nei secoli a venire,  grazie all’apporto che daranno le future generazioni.

Penso che un grande  insegnamento del libro sia anche la constatazione che l’uomo è sempre alla ricerca di nuove dimensioni e nuovi mondi, spinto dalla sua insita voglia di ricercare e di conoscere sempre di più. Anche oggi l’uomo si spinge sempre più ai confini del nostro sistema solare alla ricerca di nuovi mondi, oppure invia satelliti verso altri sistemi planetari per cercare nuove o altre sistemi di vita.

L’altra riflessione che ho fatto leggendo il libro riguarda noi giovani studenti animati, come siamo, dalla voglia di conoscenza e di curiosità per comprendere le cose del mondo e il senso della nostra vita  e che ci porta alla ricerca continua delle risposte a questi grandi interrogativi. Purtroppo, oggi, questa voglia rischia di essere minata dalle cose brutte che accadono nel mondo, ma la curiosità è una fiammella che deve rimanere sempre accesa nel cuore di ognuno di noi.

Pasquale Oscar Cricrì

 

2 novembre 2009 La cultura è vita, l’ignoranza è sua nemica!

“Viva il congiuntivo” di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota ( ed. Sperling&Kupfer)

La cultura è vita, l’ignoranza è sua nemica!

E’ questo il motivo per il quale è stato pubblicato un libro interessante e utile per la nostra società, con un titolo che racchiude in sé tutte le regole da seguire affinché un modo verbale ritenuto in cancrena possa ritrovare la propria via e non scomparire del tutto dalla lingua italiana.

Scritto dalla linguista Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, storico della lingua ( ed. Sperling&Kupfer), “Viva il congiuntivo” è una guida che indica al lettore come e quando usare questo modo verbale, tanto temuto e tanto sconosciuto. Ricco di esempi e di errori commessi anche e soprattutto da personaggi illustri, come alcuni Ministri della Pubblica Istruzione,, fa riferimento anche ad eventi precedenti che riguardano l’evoluzione della lingua. In alcuni di questi troviamo addirittura frasi scritte da giornalisti che riportano elementi fondamentali di grammatica e che dovrebbero farci da guida. Il problema principale del buon utilizzo di questo modo sta nella sua difficoltà ad essere coniugato nel modo corretto, se non addirittura nel fatto che sia sconosciuto per alcuni.

Non aiuta anche il fatto che personaggi che dovrebbero fare da esempio alla nostra società, come il grande ministro Francesco D’Onofrio, facciano un uso spesso e volenteri scorretto del congiuntivo.

Anche se sembrerebbe che il congiuntivo da tempo sia morto, a quanto pare ancora qualcuno lo utilizza, anche se la nostra società più che altro lo ignora, utilizzando quasi sempre l’indicativo.

Ecco quindi la spiegazione del titolo. Bisogna far resuscitare questo “benedetto” congiuntivo, nato per far sì che ci si esprima al meglio, in quanto appartiene alla nostra cultura. Questo piccolo ma utile manuale, ricco di curiosità, ha lo scopo di riportare alla luce il nostro moribondo congiuntivo. Nella parte conclusiva gli autori si divertono a mettere alla prova l’effettiva conoscenza del lettore con una serie di test, per eliminare ogni titubanza, fugare ogni dubbio o reticenza su quanto letto precedentemente.

Carmen Sabatino

 

4 febbraio 2010 E. Hemingway, Il vecchio e il mare

Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway, è la breve ma densa storia di una vicenda che si svolge in pochi giorni sulle acque del mare caraibico, dove un vecchio pescatore, spinto dal desiderio di una pesca fruttuosa, abbandona la terraferma per dedicarsi a una battuta di pesca. Il vecchio è un personaggio emblematico di cui non si dice neanche il nome, come se simboleggiasse l’intera umanità, ma ci si riferisce a lui semplicemente come “il vecchio”.

In poche pagine Hemingway condensa il duello fra il vecchio e un pesce spada, il più grande che avesse mai visto, che non gli concede tregua per più di un giorno, fino al tramonto del successivo. Ma non è una semplice battuta di pesca. Con tono drammatico viene descritto il logoramento fisico che segue a una vera e propria battaglia contro la natura, quella stessa battaglia che il genere umano ha da sempre combattuto fin dalle sue lontane origini. Non ci sono vincitori né vinti, ma solo una reciproca sconfitta. Forse per questo il vecchio si rivolge al pesce come a un fratello, e nella solitudine dell’oceano gli confida i suoi pensieri. Con questo espediente, Hemingway, fa riferimento all’eterno dissidio presente nell’uomo, che da un parte ama la natura, la vede come una madre e si identifica in essa, dall’altra si impone a essa devastandola e consumando le sue risorse, quando per necessità, quando per avarizia.

Il vecchio che affronta il pesce spada finisce per arpionarlo al cuore, ma a prezzo di un’enorme fatica, una mano paralizzata dai crampi e una notte insonne passata a tirare la lenza. Il pesce è troppo pesante per essere issato sulla barca, così il vecchio lo lega alla poppa e ammaina le vele verso una casa che neanche si scorge all’orizzonte, tanto il pesce lo ha trascinato al largo durante la sua agonia. Comincia così per il vecchio un altro estenuante duello con i pescecani, che cercano di lacerare la carcassa del pesce, unico frutto del doloroso viaggio. Il vecchio, disperato, tenta di allontanarli dal pesce, ne arpiona qualcuno, perde l’arpione in acqua, usa il remo, ma perde anche questo, si rassegna quindi alla sconfitta. La natura reclama quanto le è stato preso, e lo ottiene. È l’alba quando il vecchio giunge nel porto; del pesce non è rimasta che una scheletrica carcassa. Il vecchio, dunque, non otterrà alcun guadagno dalla sua fatica, solo un’amara consapevolezza: la natura può togliere e dare, nulla la può sottomettere. Chiunque creda di poter vincere le forze naturali si prepari alla disfatta, ciò insegna la vicenda, e né è una chiara immagine la figura dello scheletro del pesce che biancheggia innanzi al vecchio alle prime luci dell’alba.

Un’attenta lettura fa notare i riflessi della concezione pessimista della vita che ha Hemingway, depresso e morto suicida. Quello visto da lui è un mondo ingiusto, in cui prevale il più forte, in cui vi è un continuo altalenarsi di forze, e fra queste sono le forze naturali a prevalere. Da ricordare che egli visse in un travagliato contesto storico, al quale prese parte attivamente. Il vecchio e il mare, nato dalle sue riflessioni circa la condizione umana precaria in questo mondo, invita a far riflettere sul rapporto che c’è fra l’uomo e la natura, ma vi è altro: Hemingway è riuscito a far sì che il lettore si immedesimi nella vicenda, costringendolo quasi a leggere il libro tutto d’un fiato. L’elevata capacità di coinvolgere e la mancanza di una divisione in capitoli sembra voler appunto spingere il lettore oltre una semplice lettura, verso una personale riflessione.

Mikael Tropeano

 

8 febbraio 2010 Leonardo Sciascia, Una storia semplice

Una storia semplice è un giallo di Leonardo Sciascia. Il titolo del libro rappresenta una sorta di ossimoro, in quanto la storia che viene narrata si rivela tutt’altro che semplice, anzi molto complicata, ricca di intrighi e imprevisti.

Il nucleo centrale del romanzo è un delitto di un uomo che giorni prima di essere ucciso aveva telefonato al commissariato del paese di Monterosso dicendo di avere un’informazione importante da riferire. Questa telefonata viene, però, trascurata, come in un primo momento alcuni particolari che mettevano in luce che non si trattava di un suicidio, come l’assassino aveva voluto far credere, bensì di un omicidio vero e proprio. La tesi del suicidio sarà sostenuta proprio dal commissario di polizia, mentre totalmente contrari saranno invece il brigadiere e il capo dei carabinieri, il quale però non si dimostra disponibile alla collaborazione con il commissariato per unire così le forze e portare a termine un lavoro migliore, anzi le due istituzioni sono invece molto in contrasto fra di loro, e ciò naturalmente non favorisce alcun tipo di indagine, bensì la ostacola. Lo svolgimento e la conclusione della vicenda danno al romanzo uno sfondo di mafia e droga, ma l’aspetto più rilevante è che le associazioni a delinquere coinvolgono proprio le istituzioni come la polizia e perfino la chiesa, che dovrebbero invece rappresentare una sicurezza e un punto d’appoggio per la società. La perdita di fiducia nelle istituzioni che da ciò si genera, è espressa chiaramente nell’ultima frase del libro, pronunciata da un uomo comune che decide di tacere e non raccontare la verità che aveva scoperto, in quanto pensa che rivelandola non avrebbe fatto altro che mettere se stesso nei guai. Molto attuale è sicuramente anche questo aspetto della società: la perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni a volte corrotte è, infatti, purtroppo, una caratteristica negativa presente nel nostro paese.

L’autore siciliano vuole con questo romanzo mettere in luce aspetti negativi della sua realtà, e riesce a farlo al meglio, in quanto una caratteristica peculiare di Sciascia è proprio la sua capacità di descrivere chiaramente scene, luoghi e ambienti anche in pochissime righe; il romanzo infatti si rivela molto piacevole da leggere, e l’effetto della suspence cattura l’interesse del lettore, ma allo stesso tempo la brevità e lo svolgersi molto veloce degli eventi e degli imprevisti, toglie al lettore anche il tempo di fermarsi a riflettere per ipotizzare la conclusione, rendendolo così un libro “da leggere tutto d’un fiato!”

Silvia Iozzo

 

 

8 marzo 2010 Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano).”È questa la frase chiave del più celebre libro di Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, in cui un pilota a causa di un’avaria del motore del suo aereo si ritrova nel deserto. Il pilota-narratore pensa che se non riuscirà a riparare il guasto morirà, poiché ha con sé acqua bastante per una sola settimana, ma inaspettatamente incontra un bambino (il piccolo principe,appunto) che lo porterà a riflettere sul controverso tema dell’abisso esistente tra il mondo infantile e quello adulto. Molti hanno visto nel piccolo principe una trasposizione dell’io del narratore, che si potrebbe benissimo identificare con l’autore: entrambi sono infatti piloti, e anche de Saint-Exupéry rimase alcuni giorni nel deserto in seguito a un danno subito dal suo aeroplano, venendo poi salvato da alcuni indigeni. L’incolmabile distanza tra i due mondi viene sottolineata dal narratore già nell’incipit della storia, in cui narra del suo primo disegno (un boa dal di dentro) scambiato invariabilmente da tutti gli adulti per un cappello. Il racconto prosegue poi con il flashback che riguarda i viaggi del bambino su vari pianeti: il primo abitato da un re, il secondo da un vanitoso, il terzo da un ubriacone e così via. Ogni pianeta (insieme al relativo inquilino) simboleggia una delle tante presunzioni degli adulti, ed appare assurdo al giovanissimo visitatore. “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” è un’altra frase emblematica del libro. È per questo forse che, alla vigilia di un anno dalla sua caduta sulla Terra, il piccolo principe decide di morire facendosi mordere da un serpente. Il libro è corredato dai disegni dell’autore, che aiutano la comprensione anche per coloro che sono dotati di scarsa immaginazione, mentre la prosa semplice ed immediata, senza alcuna pretesa stilistica e simile al linguaggio dei bambini, rende Il Piccolo Principe una lettura scorrevole e limpida, adatta a lettori di qualunque età.

Valentina Lascala

 

12 marzo 2010 Luciano De Crescenzo, Elena, Elena amore mio

Elena Elena amore mio è un libro scritto da Luciano De Crescenzo e pubblicato nel 1993. Già dal titolo si può intuire quale fosse l’ambientazione;  infatti la trama della storia, inventata dall’autore, si intreccia con le vicende mitologiche della guerra di Troia.Il racconto ha inizio con lo scontro tra Achille, durante il nono anno di guerra, e il protagonista Leonte, principe di Gaudos (un’isola greca), che parte alla volta di Troia in cerca del padre, che, partito per la guerra nove anni prima, non farà mai più ritorno in patria. Il giovane, una volta giunto a Troia, scopre le origini della guerra ma soprattutto assiste agli eventi più importanti che hanno caratterizzato quell’anno: la morte di Patroclo, l’uccisione di Ettore da parte di Achille per vendicare l’amico, i funerali, la morte di Achille (colpito al tallone da Paride) e, infine, il cavallo di legno attraverso il quale gli Achei riescono a entrare nella città e a distruggerla. Mentre assiste e vive queste situazioni,  Leonte incontra Ekto, una donna troiana che assomiglia molto ad Elena, e si innamora di lei. Un altro personaggio molto importante è Tersite, uomo che aiuta il protagonista e che viene utilizzato da De Crescenzo per rendere più realistici i personaggi omerici, in quanto ne descrive non solo le imprese belliche ma anche gli aspetti riguardanti il carattere e i difetti non sempre degni di un eroe. Nonostante nel libro ci siano passi tratti dalle fonti antiche originali, quali Ovidio, Virgilio ma soprattutto Omero, il discorso è scorrevole e gradevole, accessibile a tutti. Infatti il lettore si immedesima nella storia come in un vero e proprio romanzo d’avventura; ci sono, infine, dei rimandi al presente che spiegano come aspetti della cultura greca si ritrovino nella società moderna.  Emilio Barbieri

24 marzo 2010 Alice in Wonderland

Lo ammetto. Il trailer in 3D con lo Stregatto che esce dallo schermo mi aveva stregata, perciò già da qualche mese mi ero ripromessa di soddisfare la mia curiosità andando a guardare “Alice in Wonderland”. E se da piccola non apprezzavo la già inquietante versione a cartone animato, ora la prospettiva di vederne una versione ancora più inquietante (come la regia di Tim Burton faceva presagire) è stata determinante in questa mia scelta. Il tentativo di prenotare i biglietti per il primo giorno è stato un buco nell’acqua. Convinta di essere tra le prime, ho scoperto di essere stata almeno la trecentesima ad avere avuto questa bella idea e ho dovuto rimandare. E’ passata una lunga settimana tra i vari commenti su facebook di amici più veloci e fortunati, che non hanno fatto che alimentare la mia curiosità, e finalmente il giorno è arrivato.I trenta minuti di pubblicità sono stati, forse, tra i più pesanti che abbia dovuto sopportare prima di vedere un film, ma ho resistito e finalmente ho potuto indossare gli occhialini e spaparanzarmi come meglio credevo sulla poltroncina. Sono rimasta incantata per due ore senza fare altri movimenti se non quelli necessari per alzare gli occhialini e strofinare gli occhi stanchi ogni mezz’oretta circa (gli effetti collaterali del 3D) e quando il film è finito sono uscita dal cinema soddisfatta. La trama poco ha a che vedere con quella del capolavoro di Carrol a cui invece la versione animata si era attenuta fedelmente. Troviamo infatti un’Alice ormai alle porte dell’età adulta nella cui memoria non resta ricordo delle precedenti avventure se non quello vago fornitole da un sogno ricorrente. La bambina curiosa e loquace che conoscevamo è diventata una ragazza sognatrice e anticonformista, indecisa sul suo futuro e sulla direzione da dare alla sua vita. Direzione che cercano di darle la madre e la sorella portandola ad una festa che la ragazza scopre essere stata indetta per il suo fidanzamento con un giovane snob aristocratico, figlio di un vecchio amico di famiglia. Divisa tra il senso del dovere verso la sua famiglia e il rifiuto di un destino disegnato da altri, Alice chiede qualche minuto per riflettere. Ma, quando il tempo è finito e il ragazzo pretende una risposta, sparisce, tra lo sconcerto di tutti, dietro uno strano coniglio che lei sola può vedere. Lo segue fino a quella che crede essere la sua tana e, sporgendosi per guardare all’interno, perde l’equilibrio. Iniziano allora le sue peripezie, in un paese delle meraviglie che risente sempre più delle tirannie della “capocciona maledetta” (nome con cui i rivoluzionari chiamano la regina di cuori), che il regista rielabora alla la luce di un passato difficile caratterizzato dal rapporto tormentato con i genitori e con la sorella minore che questi le preferiscono a causa delle sue deformità fisiche (appunto la “capocciona” di cui si parlava prima). Compito di Alice sarà ristabilire la pace uccidendo la bestia spaventosa che si frappone, unica serva fedele tra i tanti infedeli della corte, tra la regina rossa e i rivoluzionari che vogliono portare al trono la regina bianca. Ancora una volta Alice si sente in trappola. Neanche nei suoi sogni è libera di scegliere il proprio destino (è infatti convinta di stare sognando) e questo la spinge, in un primo momento, a rifiutare l’imposizione di un ruolo che non vuole ricoprire. Quello di paladina della regina bianca.  Saranno poi i legami di amicizia che stringerà con personaggi come il brucaliffo, i gemelli pinco-panco e panco-pinco e, primo tra tutti, il cappellaio matto (interpretato da un bravissimo Johnny Depp), rafforzati dalla consapevolezza, datole dal recupero dei ricordi del suo viaggio infantile, di non stare sognando, a farle cambiare idea. La storia si conclude infatti con la vittoria dei nostri eroi e il ritorno di Alice nel suo mondo, dove rifiuterà la proposta di matrimonio e prenderà in mano la sua vita mettendosi a capo dell’azienda del padre. A mio parere, il punto forte di questo film è la caratterizzazione dei personaggi, resa possibile dal cast d’eccezione. Oltre a quella del già citato Johnny Depp sono, infatti, degne di nota anche le interpretazioni di Helena Bonham Carter, compagna del regista, nei panni della regina rossa e della giovane Mia Wasikowska, molto credibile come Alice. Un po’ deludente invece Anne Hataway (avete notato che ha lo stesso nome della moglie di Shakespeare?), nei panni della regina bianca che è forse nella mia classifica personale dei personaggi più irritanti della storia del cinema. L’unica cosa forse un po’ al di sotto delle mie aspettative è stata la scarsa presenza di caratteristiche tipiche dei film di Burton. Quel po’ di inquietante che mi aspettavo, ad esempio, mancava. Che anche Burton si stia adeguando al modo di fare cinema degli altri registi? Speriamo di no. Il mio giudizio complessivo sul film è comunque estremamente positivo e consiglio a chiunque abbia voglia di un bel film fantasy di andare a vederlo.

Claudia Muscari

 

25 marzo 2010 Il suono di mille silenzi

159 pagine tramite le quali catapultarsi in un mondo del tutto sconosciuto a noi, gente con un cognome, una casa e trenta paia di scarpe. Emma è il nome di una ragazza che ci racconta nel suo libro ‘Il suono di mille silenzi’ il dramma della ‘vita’ di bambini abbandonati dai genitori e costretti a ‘vivere’ in degli istituti. Scorrono facilmente tra le righe le immagini delle esperienze che Emma ha vissuto. Ci si tuffa in un mondo di sofferenze atroci, fisiche ma soprattutto psicologiche. Troppe cose non dette, troppe ingiustizie e occhi chiusi da parte di chi non vuol sapere, di chi non può capire. In questi istituti, le persone lottano per portare avanti un’esistenza, ignorano le conoscenze elementari della vita, mentono, la cattiveria si trasmette di persona in persona. L’omertà regna sovrana e c’è assoluta mancanza di empatia e solidarietà tra coloro che subiscono lo stesso (mal)trattamento. E’ solo una lotta alla sopravvivenza; nessun legame, nessun sentimento.

Maria Rosaria Rachieli

In giro per Vibo Valentia e la sua Provincia

2 novembre 2003 Vibo Valentia, una città tutta da scoprire

Secoli di storia, celebri monumenti e scorci di paesaggi romantici: la provincia vibonese è tutto questo. Vibo Valentia è tra le città più importanti della Calabria, oltre ad essere una giovane provincia, essa è famosa sotto il profilo culturale, storico, archeologico e artistico. Tutto l’abitato è dominato dal castello normanno-svevo che sorge in posizione eccellente, affacciandosi su tutta la città. Oggi, restaurato, è sede del museo archeologico. Il riutilizzo del monumento offre vantaggi perché diventa un contenitore “parlante” di manufatti e un’utile guida per conoscere le radici di questa antica cittadina. Molto importanti sotto il profilo artistico sonola Chiesadel Rosario, la bella chiesa rinascimentale di San Michele, il Duomo di San Leoluca. Annessa al tempio è l’elegante costruzione rinascimentale, ribattezzata Valentianum. Vibo Valentia è anche detta “giardino sul mare” e “città dei congressi”; non poche sono infatti le iniziative a titolo culturale di cui la città è fautrice. Lo stesso Valentianum è sede di svariati congressi, esso ospita uffici, musei, oltre a un liceo linguistico e una scuola di servizio sociale. La vita nella provincia vibonese è simile a quella di tanti altri centri medi italiani, quando ricca di iniziative costruttive per il suo rilancio e la sua valorizzazione, quando monotona e priva di novità. Bisogna pur mettere in conto che Vivo Valentia è una giovane provincia, e come tale, non è dotata di tutti i comfort e le opportunità che tutti i centri urbani molto più grandi offrono. Ad esempio non ci sono università, cosicché gli studenti che ottengono il diploma, per continuare gli studi devono spostarsi in altre città, spesso molto lontano di casa. Oppure, spesso i giovani non sanno come trascorrere il tempo libero dagli impegni di studio o di lavoro; si annoiano e non hanno molte occasioni d’autentica socialità (sono assenti campetti e attrezzature per praticare sport). E’ così che l’aula scolastica diventa il primo luogo di socializzazione. Diciamo che nel suo piccolo spazio, Vibo Valentia è organizzata discretamente e, soprattutto, è una città in via di sviluppo. La stessa scuola si adopera nell’allestimento di spettacoli, nella coordinazione di corsi di teatro, disegno, lettura pomeridiana e molte altre attività extra scolastiche. Da molti anni è attivo l’oratorio Salesiano che accoglie bambini e ragazzi di ogni età e rappresenta un’ottima occasione per conoscersi e confrontarsi. Negli ultimi tempi sono aumentate le palestre, corsi per imparare le lingue straniere e corsi d’informatica, un ottimo passaporto per il futuro. Il volontariato è un fenomeno intergenerazionale, cioè aperto a tutti, uomini e donne, giovani ed anziani; può essere vissuto all’interno di un’organizzazione di un gruppo, di un’associazione. Tra l’altro, dopo la scuola, ci si ritrova in uno dei punti d’incontro per eccellenza, Piazza Municipio. Mentre si cammina si può osservare una folla di studenti in continuo movimento, in un andirivieni da varie scuole. L’appuntamento irrinunciabile è però quello del sabato sera in Piazza Municipio, dove si ritrovano giovani e non per tipiche “vasche”. La serata trascorre tranquilla tra chiacchiere e pettegolezzi, la sosta poi in un pub o in un locale in attesa che la serata abbia termine. Chi ha la possibilità esce fuori Vibo alla ricerca di divertimento prolungato in qualche discoteca. Sono le 8.00 del mattino e la vita ricomincia nella città “easy”. [….]

Francesca Guzzo


2 novembre 2003
Vibo Valentia, una città ricca di templi

Dopo scavi risalenti al 1916 ancora nessuno sa dove e che ci siano quattro maestosi templi nella vecchia Hipponion. Vibo Valentia è una città ricca di storia. Numerosi sono, infatti, gli archeologi che hanno lavorato sulla nostra città. Il più grande tra questi è sicuramente Paolo Orsi, che nel 1916 scoprì l’antica città greca che vi era sotto Vibo Valentia. Tra i suoi più grandi ritrovamenti troviamo il Tempietto a Cava Cordopatri, un presunto maestoso santuario, il Tempio greco al Belvedere ed il Tempio del Cofino. Quest’ultimo fu rinvenuto nell’estate del 1921 proprio nell’altura del Cofino, che si trova nella parte sud-orientale della città. Il tempio fu depredato fin dai Romani quando vennero a fondare Vibo Valentia nel192 a.C. É di stile ionico e periptero di metri 18,10 X 27,50 e con una cella prostila in antis.Era sicuramente un santuario molto elegante in quanto le basi delle colonne e lo stesso tempio presentavano fiori di loto e palmette rigorosamente ornati con briciole di stucchi colorati. Il tempio Greco al Belvedere, invece, si trova al margine della piazza d’Armi, una posizione strategica poiché si potevano avvistare i nemici che provenivano dal mare. Fu ritrovato nella primavera del 1916, ma in misere condizioni, infatti furono ritrovate solo le fondamenta perché le restanti parti furono distrutte per la costruzione del vecchio Telegrafo. Il tempio è periptero a forma rettangolare di metri 37,45 X 20,50. La cella si componeva del pronaos, del naos e di un opistodomo abbastanza profondo. Il materiale utilizzato fu il calcare arenario, mentre per le colonne e i triglifi si utilizzò dell’ottimo stucco. Il Tempietto a Cava Cordopatri si trova vicino al Castello Normanno Svevo Angioino, nel quale vi era sicuramente l’acropoli. Questo santuario, di un culto imprecisato, fu ricavato da una cava di metri 4,50 X 5,70 dove si costruì un piccolo edificio rettangolare. Purtroppo sono pervenuti a noi solo alcune centinaia di frammenti di piccole statue che vi erano nel tempio. I pezzi di migliore conservazione sono un Sileno abbracciato e baciato da un bambino nudo, un Sileno obeso, un Fauno che suona la siringa, parecchie testoline ellenistiche, una quantità di volti femminili e di ornamenti. Sempre in questa zona dovette sorgere un grandissimo tempio, in quanto nel 1916 fu ritrovata una maschera gorgonia fittile ed una placca in pietra nerastra. Questa maschera è un po’ bombata, ha i capelli raccolti a tre ordini di ciocche ed il diadema o stephane, che la incornicia, adornato con caratteristici serpentelli. La placca è di millimetri 175 X 110 ed è decorata con un fiore di loto. Nella parte superiore presenta un foro che dimostra come essa fosse collegata con altri elementi analoghi. Questa era una parte di Kimation fittile decorato di ovoli di un meandro complicato, quindi in base a queste scoperte, ci dovrebbe essere un grandissimo santuario con decorazioni complicatissime, del quale, però sicuramente son rimasti solo piccoli frammenti. Paolo Orsi decise di sotterrare questi templi perchè non vinissero più danneggiati. Ma perché noi Calabresi, o meglio a dire Vibonesi, trascuriamo tutto questo? Perché uno studente come me deve”scoprire” da solo la storia della propria città? Ai grandi signori politici le risposte!

Giuseppe Salvatore Marrella

 

 

2 novembre 2003 Pizzo

I turisti appena vi giungono rimangono estasiati, appena assaggiano il suo famoso tartufo, se ne innamorano… sto parlando del mio paese, Pizzo, una splendida cittadina in provincia di Vibo Valentia. Questo, come tantissimi altri posti, Capo Vaticano, Tropea, Briatico, offre al turista diverse possibilità di svago e un susseguirsi di attività di ogni tipo: tennis, piscina, sole, mare, beach-volley, corsi di aerobica. Sono quindi per lo più piccoli villaggi che vivono prevalentemente d’estate. I forestieri considerano questi luoghi vere e proprie oasi di tranquillità. E’ inebriante la sensazione che si prova passando per le viuzze che si incastrano a vicenda e percepire il profumo delle varie squisitezze gastronomiche locali; visitare le diverse chiese, ad esempio quella di Piedigrotta a Pizzo, scavata interamente nel tufo; la famosa chiesa di Santa Maria Dell’Isola che si erge maestosa nella piazza principale di Tropea, a ridosso del mare blu, o il duomo di S. Leoluca a Vibo Valentia che costituisce un bell’esempio di architettura barocca. Per i turisti dunque, la provincia di Vibo Valentia è una sorta di paesaggio incontaminato, lasciato in sospeso dal tempo, dove trascorrere i caldi giorni dei magici mesi estivi!! Ma per noi abitanti del luogo, la nostra provincia è davvero così magnifica ed efficiente come appare nel ricordo degli stranieri entusiasti? Beh… anche se a malincuore, devo rispondere negativamente!! Noi che ci viviamo per tutto l’anno, possiamo notare i vari aspetti positivi e i tanti altri negativi, con i quali purtroppo siamo costretti a convivere!! E’ vergognoso, infatti, che per noi ragazzi, ad eccezione di alcuni istituti (per altro presenti solo in determinati paesi), non ci siano altri ritrovi culturali! Basti pensare che un ragazzo pendolare, nel caso in cui volesse integrare le proprie conoscenze scolastiche con ulteriore materiale, avrebbe a disposizione soltanto una biblioteca comunale, sita tra l’altro nel capoluogo di provincia, difficile da raggiungere nelle ore pomeridiane con i pochi mezzi di trasporto in servizio. Un altro aspetto negativo della mia provincia è senz’altro la disoccupazione che nel corso di pochi anni è aumentata a ritmo incalzante e le cui “vittime” sono per lo più i GIOVANI. Giovani che, perdendo la speranza, nell’attesa di un posto di lavoro, trascorrono le proprie giornate seduti ad un bar della piazza, o facendo innumerevoli “vasche” in centro, discutendo di questi problemi, cercando vanamente di trovarne rimedio. Nonostante tutto, c’è chi non dispera e tenta di mettere a frutto le proprie capacità avvalendosi dei pochi mezzi che la città offre… proprio grazie alla forza di volontà di queste persone, possiamo vantarci dei giovani talenti che sono emersi nella nostra provincia in più settori: musicale, teatrale, culturale. Per quanto mi riguarda, anche se è un po’ difficile, cercherò di rimanere ottimista, di sperare in altre migliorie che tra l’altro sono già state apportate anche dall’apparato politico della città. E’ necessario, infatti, che la nostra provincia riceva ulteriori stimoli, che partano soprattutto da noi cittadini e non aver timore e imbarazzo, quindi, di offrire ai turisti, “sbarcati” sulla nostra terra, una visione a trecentosessanta gradi di essa!!!

Carla Morano

 

27 novembre 2003 Soriano, tra passato e presente

Soriano, un paesello adagiato in una conca d’ulivi, sembra avere avuto origini verso il 741 d.C. Nel 1510 si era dato inizio ad un’opera per quei tempi gigantesca: la costruzione di un Santuario con annesso Convento dedicato a San Domenico di Guzman. L’opera raggiunse il suo massimo splendore verso il 16° e 17° secolo. In molte città furono innalzate chiese e tempietti dedicati a San Domenico. Grazie all’aiuto spirituale e materiale da parte di pontefici e monarchi del tempo, strutture ecclesiastiche in onore del Santo furono portate a termine in molte parti d’Italia e d’Europa e persino nelle Americhe, il che contribuiva a far conoscere il nome di Soriano in tutto il mondo. La costruzione del Convento favorì un pellegrinaggio a Soriano da parte di visitatori e giovani che vi accorrevano con l’intento di seguire gli ordinati e severi studi nel Santuario. Ormai all’apice del suo splendore, il Monastero di Soriano sembrava destinato a restare per secoli una delle più grandi immagini di fede ed arte; ma una notte, la tragica notte del 5 Novembre 1659, uno dei tanti terremoti che nei secoli avevano funestatola Calabria, distrusse completamente il Santuario e l’annesso Convento. Ma soprattutto perirono quasi tutti gli abitanti. I secoli che seguirono segnarono il declino dell’ordine domenicano, ma il paese seppe reagire. A questa reazione contribuirono la costruzione di edifici pubblici, amministrativi e opere d’arte: la costruzione del palazzo municipale, dell’edificio delle poste, dell’ospedale civile, della caserma dei carabinieri, dell’edificio della comunità montana, della casa di riposo per anziani, degli edifici scolastici (comprendenti nido, scuola materna, elementare, media e liceo scientifico), della fontana dei leoni, ecc. Tre sono le produzioni che da sempre hanno caratterizzato Soriano. Da generazioni in generazioni si é tramandata l’arte dei vasi, dovuta soprattutto alla disponibilità del terreno a fornire la materia prima: l’argilla. Questa produzione ebbe il periodo di maggior fioritura verso il 1500 con l’arrivo, a Soriano, dei padri domenicani. Oggi, invece, a Soriano, i vasai sono completamente scomparsi e i forni sono tutti chiusi. Lo stesso non si può dire per le altre due produzioni, cioè la manifattura del vimine e la produzione di dolciumi, tra cui i famosi mostaccioli e il torrone. Ne sono testimoni le numerose industrie sia dell’una che dell’altra produzione. Grazie a queste tradizioni (così le possiamo definire), si é creato molto lavoro a Soriano, non solo come manodopera nelle fabbriche, ma anche nel commercio. Oggi, il paese conta poco più di 3000 unità, senza considerare il vicino Sorianello (che ormai fa comune a sé), con il quale , un tempo formava l’intero Soriano, prima di dividersi in Soriano di sopra e Soriano di sotto e arrivare quindi allo stato attuale. Il paese mostra di aver tanta voglia di fare, anche se la criminalità si è sempre fatta sentire con atti vandalici, furti di opere pubbliche (tra cui quello dei due leoni che andavano a formare la fontana). Oggi, il sindaco: l’avvocato Ioppolo, di AN, in carica dal Maggio 2001, sembra voler rivalorizzare la parte storica del paese di Soriano, ma nello stesso tempo, modernizzare il paese. Per iniziare, ha fatto mettere due nuovi leoni per riempire il vuoto lasciato da quelli rubati; ha creato un’illuminazione che abbraccia tutto il centro storico; ha portato a termine lavori di ristrutturazione in piazza; ha creato una navetta che porta gli anziani da una parte all’altra del paese, senza alcuna spesa da parte del viaggiatore; ecc. Mi auguro che in questo paese vi sia la voglia di andare avanti e l’aiuto da parte di tutti, perché Soriano merita di più. Anche se ci vuole un bel po’ di fortuna, Soriano deve tornare ad essere, non ciò che era, ma ciò che fu.

Francesco Varì

27 novembre 2003  Monterosso Calabro

Le origini di Monterosso sono molto antiche e la sua storia è legata alle meravigliose vicende della Magna Grecia. La sua fondazione risale al 950 d.C. ad opera di alcuni abitanti di origine Greca della vicina Rocca Angitola chiamata prima Crissa, dal nome Crisso re e condottiero dei greci focesi, distrutta con Ipponion (oggi Vibo Valentia) nel 900 d.C. dai Saraceni; pertanto focese ed illustre è il sangue dei monterossini. Circa il nome dato al paese “Monterosso”- “Monrusum”- “Mons Ruber”, alcuni dicono che Monterosso abbia preso questo nome per il terreno rosso delle sue colline, altri, invece, sostengono che il nome derivi dal fatto che il tramonto del sole in questa zona, in alcuni periodi dell’anno, crea degli effetti suggestivi e degli aloni di rosso porpora nel cielo e all’orizzonte, che riflettendosi sulle case e sulle colline circostanti, le tinge di rosso. Per la costruzione delle prime case, i greci focesi scelsero la parte più bella e più panoramica della zona: la “Capana” e “Capana” fu forse il primo nome che ebbe Monterosso. Ancora oggi suggestivo e bello è il panorama che si gode. In fondo all’orizzonte si ergono l’Etna e lo Stromboli le cui cime innevate, nei rigidi e sereni giorni invernali, brillano al sole come diamanti. I paesi del vibonese appaiono di sera come un mondo fantastico. Ai piedi del paese domina il meraviglioso specchio del lago dell’Angitola, protetto dal WWF, riserva di rari animali acquatici come lo svasso reale, meta di escursioni scolastiche e comitive turistiche. Ad est, a pochi chilometri da Monterosso, vi è la nostra montagna Appenninica ben curata dai forestali, riserva di acqua pura e fresca, di aria non inquinata, dove lontano dai rumori assordanti e fastidiosi, chi va si può riposare. Il paese conserva ancora la struttura medioevale, la zona bassa, chiamata “Borgo”, superaffollata nei tempi antichi, adesso abitata da poche persone anziane, conserva ancora costumi e tradizioni. La “Bassolata” al centro, è ricordata come la zona degli artigiani e la “Capana” in alto, la zona abitata dai nobili e dai borghesi del paese. Strade strette, vicoli caratteristici, palazzi cadenti sono a testimonianza della storia monterossina. E proprio in uno di questi palazzi, di proprietà della famiglia Amoroso, è stato allestito il “Museo della Civiltà Contadina ed Artigiana”. Corso Regina Margherita saturo di bar, sale giochi, pub, pizzerie e pasticcerie, frequentato da ragazzi e giovani, evidenzia il cambiamento e l’evoluzione del paese. Pur non essendo grande, Monterosso è un paesino vivo. Come in tutti i paesi della Calabria c’è il problema della disoccupazione; la maggior parte dei giovani è costretta a malincuore ad emigrare al nord dell’Italia e all’Estero e ciò provoca il progressivo spopolamento del paese e la perdita di posti di lavoro in molti settori. Monterosso, porta d’ingresso delle Serre, catena dentellata di monti, nel cuore della Calabria, domina lo specchio meraviglioso del lago dell’Angitola, e giace in una zona pittoresca sulle falde del monte Cappari, da dove si intravede il mare. Immerso in una macchia di colori mediterranei dove al verde argento dell’ulivo si alterna il verde pastello e tenue del bosco, il paese, la cui storia è millenaria e le cui tradizioni sono greche, gode molto degli influssi benefici del montano e di quello marino.

Antonio Rizzuti

12 febbraio 2004 Arena – cittadina di stampo feudale

Con l’unificazione Normanna, in Calabria era prevalso l’ordinamento feudale. Tale ordinamento si mescolò a quello municipale derivante dall’antico diritto romano. Arena feudale ebbe un ordinamento municipale e i suoi abitanti lottarono continuamente per affrancarsi delle prepotenze. I conti di Arena all’inizio furono i Corchebret. Nei primi tempi non smentirono le caratteristiche e la durezza della loro stirpe, furono avidi e crudeli. S’impadronirono della terra degli uomini e assunsero un potere di padroni assoluti. Il loro dominio era vastissimo, andava dal crinale appenninico fino alle foreste della Certosa di Santo Stefano del Bosco oltre il fiume Mesima. Il capoluogo Arena era assai fertile, con grandi foreste di uliveti, castagni, elci e querce. Qui esistevano i casali di Acquaro, Ciano, Dasà, Gerocarne, Limpidi, Bracciata, Miglianò, Potami, Pronia, Seminatore.Gli ultimi cinque furono abbandonati dagli abitanti durante il decennio di dominazione francese. La brutalità dei feudatari si ripercorse sui poveri abitanti che vennero ridotti in servitù. Per costruire il castello, furono costretti uomini e donne a lavorare gratuitamente. Questo grande feudo passò per successione dai Corchebret agli Acquaviva D’Atri che nel 1696 lo vendettero ai Caracciolo, i quali lo tennero fino all’eversione della feudalità. L’abitato è rimasto nel tempo sostanzialmente immutato con i suoi vicoli e le sue viuzze e le numerose scalinate; le case addossate l’una all’altra gli danno il tipico aspetto del borgo medievale. L’unico spazio ampio, nel centro del paese, è la piazza dove si svolge la vita cittadina. Il castello Normanno Svevo, le cui origini risalgono al 1220, erge le sue mura gigantesche e superbe dando un senso di sicurezza all’abitato. Nel centro del paese si trova la chiesa di Maria SS delle Grazie costruita nel 1600. La facciata principale risale agli inizi del 1800, essa è stata costruita da artigiani serresi ed è adornata da colonne in granito. L’interno è decorato con stucchi e sul soffitto si può ammirare un affresco di grande valore artistico. La chiesa ospita statue lignee di notevole bellezza:La Madonnadelle Grazie ela Madonnadel Buon Consiglio. Anche nella Chiesa Madre vi sono statue lignee di pregevole valore: Il Cristo Risorto e L’Arcangelo San Michele. Arena, essendo un paesino feudale, conserva due grandi edifici signorili uno è il palazzo del Marchese e l’atro il palazzo del Barone.

Giuseppe Cosentino

 


21 gennaio 2005
Filogaso

Centro della Riforma Cappuccina in Calabria, Filogaso è uno tra i tanti piccoli paesi agricoli con 1176 abitanti, in provincia di Vibo Valentia, dalla quale dista circa15 km. In assenza di ipotesi migliori, il nome Filogaso che significa “terra amica”, si vuole derivare da un probabile fondatore, uno fra i tanti emigrati greci al tempo delle persecuzioni iconoclastiche, il cui appellativo in greco significa “amante della famiglia”. Nella seconda metà del 1500 Filogaso fu il centro della riforma cappuccina in Calabria. Difatti, nel periodo che gli storici definirono Restaurazione, decadenza morale, carestie e pestilenze, portarono allo sbando non solo il mondo civile ma anche la chiesa, che iniziò a entrare in un clima corrotto e corruttibile. Questo nuovo aspetto della chiesa, caratterizzato da interessi personali, si manifestò con l’abbandono dell’autenticità e la semplicità degli insegnamenti trasmessi da San Francesco. Il popolo sentì così il bisogno di riportare la chiesa al suoi antichi grandi valori etici e morali.La Calabriadivenne il luogo simbolo del nuovo pensiero riformatore. L’occasione per stabilire l’intesa fra i due gruppi fu l’incontro nella città santa tra padre Ludovico da Fossombrone e padre Bernardino da Reggio, il quale, al ritorno in Calabria, portò con sé un cappuccio ( simbolo della celestialità) e riferì di quanto stava fervendo a Fra Ludovico da Reggio. Nel 1532 fu portato a conoscenza di tutto ciò il Padre Generale, ma questi minacciò chiunque intraprendesse nuove idee. Pertanto, i frati che intendevano seguire una buona condotta spirituale, cercarono protezione a persone devote e, proprio a Filogaso ricevettero protezione dal duca di Nocera e dalla Duchessa Eleonora Culchebret, fu così che la piccola cittadina divenne la culla dell’ordine dei cappuccini. Questo processo di trasformazione fu guidato da frate Ludovico Como da Reggio, il quale si era trasferito a Filogaso in seguito alla persecuzione del Padre Generale, e qui vi tenne le sue prime riunioni che porteranno in poco tempo alla riforma cappuccina. I frati francescani decideranno di usare una nuova vestizione con cappuccio telato a forma conica attaccato all’abito. E saràla Duchessa Culchebret, sposata con il Duca di Nocera stabilitosi a Filogaso, devotissima alla religione cattolica, a cucire gli abiti dei frati. Inoltre, la tavola su cuila Duchessacucì gli abiti, divenne oggetto di venerazione e venne custodita per molto tempo nella sacrestia del convento come una vera e propria reliquia. Però l’Inquisizione della Chiesa non accettò di buon grado ciò che avveniva in paese e da qui si divulgava nell’intera regione. Ovunque si trovavano i frati, ricevevano scomuniche, e quando venivano catturati venivano lasciati morire in carcere. Un gruppo di Cappuccini che era rimasto a Filogaso, nella chiesa di Sant’Antonio, venne avvisato da un ragazzo dell’arrivo degli inquisitori e riuscirono a scappare così nel vicino bosco del Fallà. Si racconta che durante la fuga frate Ludovico, nel correre tra gli alberi del bosco, inciampò e cadde a terra ferendosi ad una gamba; in quella circostanza gli apparve San Francesco, vestito con l’abito della riforma, che lo incoraggiava a portare avanti il suo disegno. I frati, allora, tornarono a Filogaso, trovando alloggio presso il palazzo ducale; e fu proprio in questo palazzo che prese vita l’Ordine dei Frati Cappuccini, con Filogaso che divenne il centro della Riforma monacale. Nella Chiesa di Santa Maria di Loreto, situata all’inizio delle abitazioni, dove ora si trova l’imbocco per via convento, che contava 6 padri e 9 tra chierici, novizi e conversi, i Cappuccini tennero il primo degli otto Capitoli Generali presieduto dal frate Bernardino da Reggio e da frate Ludovico da Reggio. Pressola Chiesadi Sant’Antonio Abate, i novelli frati cappuccini, fondarono il loro primo Convento e scelsero a loro superiore frate Ludovico da Reggio, già in odore di santità. Il convento, posto su una collina ai piedi della quale sorge l’attuale cimitero, contava 15 religiosi: 9 padri e 6 conversi. Questo convento possedeva una biblioteca, dove, oltre ai numerosi manoscritti di opere di frati Cappuccini, vi erano conservati: una Sacra Bibbia in pergamena del sec. XII che era stata donata al convento da Ferrante Caraffa Duca di Nocera, una pergamena del sec. XV contenente le vite degli imperatori, e il trattato degli illustri Grammatici di Svetonio Tranquillo. Dopo il terremoto del 1783, i libri furono portati nella libreria centrale di Monteleone, e nel 1796 furono restituiti ai vari conventi. Da aggiungere, inoltre, che i terremoti precedenti, del 1638 e del 1659, avevano già provocato non pochi danni. Si racconta che quando frate Ludovico morì, i frati, che non si trovavano con lui, videro da lontano una fiammata salire verso il cielo; segno, questo, che a Filogaso si era compiuta la grande riforma che si era ormai divulgata nelle terre di Calabria. Filogaso comprendeva i casali di Sant’Onofrio, Panajia, San Demetrio, Stefanaconi e Belforte. Panajia era un tempo un villaggio distinto da Filogaso, pur essendo contiguo, diviso soltanto da una croce ( che tuttora esiste ). Il nome Panajia è di origine greca, consacrato in particolar modo alla Vergine Maria, la tutta santa, così come dice appunto la voce greca. Le vicende storiche di Panajia si fusero con quelle di Filogaso. Oggi il paese è unico sia per topografia che per amministrazione. Il territorio di Filogaso ha una superficie pari a23,69 km; la sua economia si basa sulla produzione di cereali, agrumi, sulle attività silvo-pastorali e sul commercio. La chiesa parrocchiale è dedicata a Sant’Agata ed è un edificio di fondazione rinascimentale interamente rifatta in stile eclettico da maestranze locali dopo il terremoto del 1783. Da ricordare sullo stesso corso principale, dedicato a Garibaldi, la chiesa del Carmine e quella di San Francesco di Paola. Oggi, dei tanti edifici costruiti, a causa dei violenti terremoti, esiste solo qualche rudere della chiesa della Madonna dell’Arco e il pozzo coperto di muratura, situati in cima al bosco del Fallà.

Annamaria Galati

23 maggio 2004 Tropea.

T, terra sempre baciata dal sole; R, ritrovo comune a molte culture già dai tempi antichi; O, occhio che scruta le onde placide del mar Tirreno; P, perla rara, conosciuta e ormai rinomata in tutto il mondo; E, entusiasmo che abbraccia i suoi abitanti e coloro che per tutto l’anno la visitano; e infine A, antichità che avvolge nel suo manto misterioso strade, case e cantoni creando una cittadella piacevole e affascinante alla vista. Questa è Tropea, “la perla del Tirreno”, un’allegra cittadina che sorge adagiata su un promontorio vicino al mare e che, proprio per la sua posizione, sembra che abbia alle spalle un cuscino creato da morbide montagne e davanti le onde dell’infinito mare Mediterraneo. E’ stata da sempre conosciuta per la sua bellezza e per il calore e la vitalità e oggigiorno, soprattutto nel periodo estivo, è meta di milioni di cittadini europei e non, che decidono di passare fra le sue spiagge e i suoi incantevoli posti le loro vacanze. Il mito vuole che sia stata fondata da Ercole, figlio di Giove e di Giunone, approdato su questi lidi di ritorno dalla Spagna. C’è anche chi ne attribuisce l’origine a Scipione l’Africano, diretto a Roma dopo la vittoria su Cartagine. Ma la storia, quella vera, fa nomi Romani, Normanni, Bizantini, Svevi, Angioini e Aragonesi; popoli che col passare del tempo hanno lasciato i loro ricordi fra le case e i monumenti tropeani che, oggi, sono molto apprezzati e ammirati da tantissime persone. Rimanendo sempre in ambito storico, Tropea diede i natali al cardinale Vincenzo Lauro, che collaborò alla riforma del calendario gregoriano; a Gaspare Toraldo, che combatté nella battaglia di Lepanto, al filosofo Pasquale Galluppi, e a don Francesco Mottola, la cui Causa di Beatificazione cominciò nel 1988. Naturalmente questi uomini illustri hanno fatto aumentare la popolarità al borgo tropeano che dimostra di avere un ricco lato culturale accanto alle sue altre cento caratteristiche che continuano ad affascinare milioni di persone. La cultura è infatti come una colonna di base sulla quale si sono poi appoggiati gli altri settori del turismo, della gastronomia e delle tradizioni popolari. Il primo è sicuramente il più avanzato e utilizzato fra tutti. Non esiste gita in Calabria che non preveda un’intera giornata a Tropea o una semplice visita alla città, che grazie a tutto ciò è riuscita a crescere e a migliorare per essere sempre più adatta a ricevere degnamente tante persone. Il settore gastronomico è incentrato soprattutto sulla produzione della Cipolla Rossa, ingrediente principale di antipasti, primi, secondi piatti e pizze. Le tradizioni popolari vanno poi ad arricchire e a rifinire nei dettagli il periodo estivo; con feste, sagre e serate in allegria si colorano ancora di più le lunghe settimane di vacanza che per la vitalità con cui vengono trascorse, non verranno facilmente dimenticate nel momento in cui si dovrà tornare al lavoro. Così come non sarà mai dimenticata la sua meravigliosa isola sulla quale domina la chiesetta. In una Calabria ricca di paesaggi, cultura e tradizioni, spicca in particolar modo Tropea che anche quest’anno ha conquistato le cinque vele blu da parte di Legambiente entrando a fare parte, per la terza volta, dell’elenco delle dieci città italiane più accoglienti; dal suo promontorio dominante il Tirreno, è riuscita a farsi conoscere in tutto il mondo diventando uno dei luoghi più visitati del Sud della penisola italiana.

Paola Fusca


13 ottobre 2004
Rombiolo

Rombiolo sorge ai piedi di Monte Poro, ha circa 4870 abitanti comprese le cinque frazioni: Orsigliadi, Moladi, Presinaci, Pernocari, Garavati. Per quanto riguarda l’origine del suo nome alcuni lo legano alla famiglia Rombulà, altri ai “rovi” cioè le spine che circondavano il borgo, altri alla forma particolare di rombo. Le sue origini risalgono al IX e X secolo quando, per sfuggire alle incursioni saracene, gli abitanti dei villaggi esposti di più al pericolo vi trovarono rifugio per mettersi in salvo. Dal 1501 al 1806 fu feudo della famiglia Pignatelli, duchi di Monteleone. Fu istituito comune nel1811. ARombiolo è noto, oltre il centro storico, il convento fondato il 12 Settembre del 1587,con il titolo della Madonna degli Angeli. Nel corso dei secoli la chiesa del convento è stata più volte restaurata in seguito ai terremoti del 1638, del 1656 e del 1783; altri lavori di restauro sono stati effettuati nel corso degli anni. All’interno si trovano due tele di alto prestigio:la Sagra Famiglia, datata al 1726 e firmata Francesco Antonio Mergola di Monteleone Calabro, considerato grande copiatori dei maestri rinascimentali; l’incoronazione di Maria da parte della S.S.Trinità, con ai lati Santa Rosa da Lima e San Francesco di Paola, la tela risale al 1750 di autore anonimo.Tra le statue presenti nel convento si ricorda quella di San Antonio di Padova; opera databile al 1765\1770. Il convento costituisce tuttavia il simbolo artistico –religioso di Rombiolo. Il centro storico, invece, è costituito da vie non molto ampie e da case addossate una all’altra. Al centro si trova la chiesa della Madonna del Rosario. Il Santo Patrono di Rombiolo è San Michele che si venera il 29 Settembre. L’economia è basata, oltre che sulla produzione agricola, anche sull’artigianato, un ruolo importante riveste soprattutto la lavorazione del legno. Infine conserva due grandi edifici signorili, uno è il palazzo Pontoriero, l’altro è dei Massara. Una simpatica nota di colore è costituita dalla sua “Fanfara fiorita” che un tempo prendeva il nome di “Banda pilusa”! E’ un paese abbastanza tranquillo e la vita dei suoi abitanti scorre serena!

Serena Mazzeo


28 ottobre 2004
Pannaconi, piccolo, ma denso di fascino

Pannaconi è un piccolo paese della provincia di Vibo Valentia, situato tra Cessaniti e Paradisoni; è situato a 235 mt. sul livello del mare, in una splendida altura. Come tutte le cose piccole io lo trovo meraviglioso. A Pannaconi non ci sono enormi strutture dove passare il tempo. C’è un piccolo campo da calcio, una palestra, quattro negozi di alimentari, una merceria, un forno, la sala giochi, una pasticceria, quattro bar, quattro chiese, una fruttivendola, la farmacia, qualche altro negozio e una piazza. La piazza, ”Piazza del Popolo”, è stata ricostruita da circa due anni. E’il punto d’incontro dei giovani e un posto tranquillo per gli anziani. Secondo me il bello del paese è che le persone si conoscono tutte, anche se ciò, come qualsiasi cosa, può avere i pro e i contro…. Certo Pannaconi potrebbe essere sfruttato meglio ma a me piace così. E poi pensandoci, per me ogni singolo posto è collegato ad uno o più ricordi, ed assume quindi un valore affettivo. Un posto può ricordarmi i litigi, un altro i pianti, i sorrisi, gli incontri, i saluti o le semplici chiacchierate “passatempo”. L’arco è il punto più antico del paese, un posto speciale. A sentirlo nominare mi ritornano in mente tutte quelle casette antiche che si trovano in quei viottoli stretti ma allo stesso tempo attraenti. Un’altra zona che rappresenta molto per me e per le mie amiche, è quel grande prato verde, circondato da alberi e da fiori, a diretto contatto con la natura. Di solito è là che facciamo i pic-nic. L’ultima volta, dopo aver giocato con la palla, abbiamo finto di fare la lotta libera, e poi ci siamo messe a fare perfino i gavettoni. Trascorreva il tempo, ma prese dal divertimento, non ci abbiamo fatto caso. L’altro posto che rappresenta molto per me, è il campo… tutte le partite fatte, perse o vinte. Si giocava tutto su chi avrebbe segnato e chi sarebbe riuscito a parare. Forse agli occhi degli altri poteva sembrare strano vederci giocare, ma non era questo a preoccuparci. Quando l’arbitro fischiava, bisogna avanzare verso la porta avversaria, chi si fermava o perdeva la palla, rischiava di perdere anche la partita. Ognuno dava il meglio di se, non ci siamo mai fatte problemi, quando si perdeva, si era anche consapevoli del fatto che quella non sarebbe stata l’ultima partita. Anche le strade sono ricordi, le passeggiate con le amiche, le panchine, i gradini dove ci fermiamo di tanto in tanto per chiacchierare, o semplicemente per riposare, per stare qualche attimo in silenzio, un silenzio che però riesce ad esprimere molto. Pannaconi spesso si veste a festa con la processione che si svolge per le vie paesane, la sagra delle fileja che comprende anche tipici dolci e panini con salsiccia o porchetta. Di solito, con tutti i miei amici quando c’è la sagra occupiamo un tavolo e prendiamo un panino e quando abbiamo finito, ci alziamo per andare a fare una passeggiata e cedere il posto a qualcuno. Si festeggia perla Madonnadella Lettera (seconda domenica di agosto), in onore di San Nicola ( primi giorni di maggio), per il Corpus domini quando i bambini gettano per strada petali di rosa segnando il percorso che porta alla chiesa, per Padre Pio, o ancora perla Madonnadel Bosco e del Buon Cammino. Nei giorni di festa si fanno gli incanti che consistono nel mettere all’asta tutto ciò che la gente offre (compresi le coppe dei tornei organizzati in onore delle stesse feste), per poi darne il ricavato alla chiesa. A volte cerco di immaginare come poteva essere anticamente Pannaconi, ciò non mi riesce difficile osservando quelle anziane signore che, sedute sui gradini delle loro stesse case, o su seggiole più piccole del normale, respirando fiere la pura aria di campagna e ascoltando il cinguettio degli uccelli e il rumore di quel leggero vento che ogni tanto scuote gli alberi, ricamano prestando molta attenzione a ciò che fanno, suscitando curiosità in chi osserva. Sono state proprio loro che mi hanno raccontato pagine interessanti della storia del mio paese. Un tempo, il fiume “Murria”, che scorre nella zona panoramica “Pietra dell’Aria”, era un fiume di acque abbondanti, circondato dall’intensa vegetazione, ed era navigabile, quindi permetteva il commercio, poi diventò un letto con acque non più limpide e quasi sconosciuto, perché abbandonato dall’uomo successivamente al tragico terremoto di febbraio-marzo 1783. Il Chorion tho Pannahonon è stato fondato dai greci come altri paesi Calabri, è proprio da qui deriva il suo nome che tradotto significa “luogo tutto pietroso”. Anticamente, Pannaconi era localizzato nella zona detta “Lena” che ha inizio con il famoso “Arco”, di cui attualmente non rimangono altro che i ruderi. Pannaconi iniziò la sua “nuova Storia” a partire dall’ottocento, quando, contro la volontà degli abitanti, diventò frazione di Cessaniti, che contiene una densità di popolazione minore rispetto a Pannaconi. Gli agricoltori iniziarono a cibarsi di polenta, orzo, grano e frumento, mentre mangiare pane e polli, e servirsi di vini e olio spettava ancora ai signori benestanti come il Conte Gabrielli, uomo che fece costruire il famoso”Arco” che separava le terre del Marchese Bisogni dalle sue. Il culmine della decadenza giunse quando si verificarono i terremoti del 1905 e dell’8-dicembre- 1908, che rasero al suolo il paese, lasciando solo l’Arco. Fortunatamente iniziò ad emergere dopo poco tempo, grazie al contributo del sig. Domenico Bucci, che dopo essere stato in Argentina e dopo aver visto una Madonna in Sud-America, decise di costruire una chiesa a Pannaconi, in un luogo quasi apparentemente fantastico, così ebbe origine la chiesa della Madonna del Buon Cammino, l’evento che aiutò il paese a riemergere. Io trovo affascinante e coinvolgente la storia di Pannaconi, è per questo motivo che rimango ferita quando sento dire che Pannaconi non è speciale solo perché è piccolo…spesso sono proprio le piccole cose a nascondere grandi significati…

Serena Bonavena

 

12 dicembre 2004 Acquaro: feste e tradizioni

Acquaro è un piccolo paese della provincia di Vibo Valentia, in Calabria. Esso è situato in una vallata ed è circondato da 7 colli. Questo non è un paese tranquillo, anche se ormai siamo in pochi ad abitarlo. Ciò perché la zona non offre molte possibilità di lavoro, e quindi bisogna andar via. Ma durante le feste, soprattutto in estate, Acquaro si ripopola. Cominciando da Natale il paese si manifesta con alcune tradizioni, come la classica ricetta de “ I curujitji ”, nel dialetto calabrese, in italiano Le corolline. Queste sono una frittura di un impasto tra farina, lievito e olio. Altra tradizione acquarese Natalizia è quella di costruire una capanna in piazza, dove mettere la statuetta di Gesù Bambino, la notte di Natale. Poi arriva Pasqua, e anche in questa occasione Acquaro si rende importante per le sue tradizioni. Innanzitutto si portano le statue di Gesù morto e dell’Addolorata, in giro nel paese. Poi queste, con la statua di S. Giovanni, vengono portate nel punto più alto del paese, e dopo aver ascoltato la predica del parroco, si riportano in Chiesa nella quale, la notte di Pasqua, si può assistere alla Resurrezione. Infatti dopola Messadi mezzanotte,la scena viene rappresentata con l’apertura di un muro, dietro il quale c’è la statua di Gesù Risorto. Finalmente arriva Pasqua, un giorno indimenticabile per tutti gli acquaresi. Infatti dopola Santa Messasi va in piazza per assistere alla “ncrinata”, in italiano Affrontata, dove, con le statue, si rappresenta il momento in cui S. Giovanni va da Maria per dirle che suo figlio è risorto. Dopodiché entrambi corrono verso il Signore.La Pasquatradizionale si conclude con un giro del paese guidato dalle tre statue e accompagnato dalla banda. Dopola Pasquaarriva l’estate, e ci si diverte veramente molto. Anche perché ad Acquaro il 16 Agosto si celebra S.Rocco, il patrono del paese. La festa dura quattro serate. La prima si festeggia con la “sagra di vijozza”cioè la sagra delle pannocchie. Nella seconda serata nella piazza, su un palco, si esibisce un complesso musicale. Nella terza serata, dopo il Catafalco, una breve processione seguita dai fuochi d’artificio, si esibisce un complesso bandistico. Ciò succede anche nell’ultima serata di festa, dopola S. Messae la processione per le vie del paese. La fine della festa di S. Rocco segna per gli acquaresi, non solo la fine delle feste, ma anche la fine dell’estate e quindi il ritorno alla vita di ogni giorno, con la scuola e il lavoro. Perciò, in questo periodo, ad Acquaro si aspetta con ansia il Natale. Questo paese, anche se non è come molti vorrebbero, è speciale per le sue tradizioni, che con il passare del tempo forse potrebbero scomparire, ma ciò non accadrà facilmente se noi giovani le manterremo.

Alessandro Nesci

26 dicembre 2004 Filogaso nei tempi antichi

Attraverso i ricordi dei nonni. Filogaso. Le origini di questa cittadina sono antichissime, i primi segni della sua esistenza risalgono alla Magna Grecia. Sopportò i terremoti del 1638, 1659 e del 1783. Nel 1648 fu concessa, dagli Spagnoli, alla famiglia dei Carafa che, successivamente, la vendettero ai Ruffo di Sicilia. L’economia cittadina è basata sulla produzione di cereali, agrumi e sulle attività pastorali. La vita nei nostri paesi non è stata sempre così facile. “Sbarcare il lunario”, come si suol dire, per i nostri nonni vissuti negli anni del dopoguerra è stata un’impresa. Non vi erano, certamente, le comodità che ci sono oggi. Le case avevano dimensioni molto ridotte, circa 40-50 metri quadrati, e qui vivevano nuclei familiari composti da 8-10 persone. Le mura esterne delle case erano fatte di fango e paglia lavorate a forma di mattone e sistemate uno sull’altro. Le finestre erano senza vetri. Internamente, le divisioni tra una stanza e l’altra, venivano fatte con canne, legno e tufo. Tutte le case, tranne quelle delle persone che “allora contavano”, avevano le tegole senza il soffitto. Le case erano fredde perché attraverso le mura di terra passava l’umidità, l’unica fonte di calore era il focolare che non corrispondeva al camino di oggi. Il focolare era una pietra molto bassa sulla quale veniva acceso il fuoco e qui veniva anche cucinato il cibo. In casa non esistevano servizi igienici, non c’erano bagni, mancava l’acqua corrente e la corrente elettrica, non c’erano nemmeno i mobili, ma soltanto un tavolo con poche sedie e tronchi tagliati e le persone mangiavano tutte nello stesso piatto chiamato “limba”. Per poter lavare i panni si doveva andare ai lavatoi pubblici e lì le donne si scambiavano pettegolezzi e alcune volte litigavano per poter passare il turno. Altre volte le donne, siccome non potevano aspettare il turno perché dovevano terminare le faccende domestiche, lasciavano ai lavatoi le “cortari”, bacinelle che servivano per prendere l’acqua e portarla a casa, e quando tornavano le trovavano bucate. Mia nonna ricorda benissimo quando hanno portato per la prima volta la corrente elettrica: il 23 o 24 dicembre del 1954. Al momento dell’accensione tutte le persone, spaventate perché non avevano mai visto niente di simile, si rifugiarono in chiesa. Le persone vivevano di quello che produceva la terra. Il lavoro nei campi era molto faticoso: si seminava il grano, il granturco, i fagioli e altri sementi. Vi era anche la raccolta delle ulive con le quali si produceva l’olio, che ancora oggi costituisce una delle principali attività economiche; si lavorava la vigna e si produceva del buon vino. Era presente anche l’allevamento di bestiame dal quale si ricavava il formaggio e la lana. Durante la guerra, gli animali, alla sera, chi aveva possibilità, venivano portati dentro casa per non essere rubati. Mia nonna materna mi ha raccontato della disperazione di mia nonna paterna quando andò in fiamme la paglia e il foraggio che servivano per i muli, perché mio nonno manteneva una famiglia di otto figli con il ricavato derivante dal trasporto del carbone e del legname dalla montagna utilizzando appunto questi animali. Dai boschi si ricavava il carbone che serviva per riscaldarsi nei mesi invernali. Queste attività, anche se molto faticose, non consentivano alle famiglie di vivere dignitosamente perché, a fine anno, il raccolto era troppo poco e molto spesso serviva per remunerare il proprietario dei terreni dati in affitto. I contadini, infatti, non possedevano i terreni che lavoravano. La gente era, così, mal nutrita, anche per il fatto che le famiglie erano molto numerose. A tal proposito, mia nonna ricorda che mentre si trovava nei campi, un soldato americano ha barattato dei biscotti e del cioccolato, alimenti mai assaggiati, con delle uova di gallina. Inoltre, in quel tempo, tutto il grano che si produceva doveva essere dichiarato al Governo, in seguito veniva stabilita una quantità pro-capite e se la produzione era superiore alla quantità stabilita, il grano eccedente doveva essere consegnato all’autorità governativa nominata dal partito fascista altrimenti venivano date le cosiddette “purghe”. Inoltre, non contenti delle dichiarazioni dei contadini, passava una commissione governativa per il controllo delle giacenze di grano. Alcuni contadini, disperati, nascondevano il grano in aperta campagna. Il padre di mia nonna, siccome aveva una famiglia composta da 10 persone, fu costretto a nascondere l’olio sul soffitto della casa, i fagioli nei campi sotto il fieno. In tempo di guerra le persone erano anche malvestite perché non c’erano soldi e non esistevano le scarpe. Per potersi vestire si filava la lana ricavata dalle pecore che veniva prima pulita e poi filata utilizzando il fuso e la “canocchia”. Si utilizzava altresì il lino grezzo, prodotto nei campi, dopo un lungo procedimento di pulitura. Con questi filati si realizzavano delle stoffe (tessute col telaio) o dei maglioni lavorati ai ferri. Mia nonna, che mi ha fornito queste notizie, ricorda che durante la seconda guerra mondiale, mentre stavano lavorando i campi, è sceso un soldato americano con il paracadute, che ha abbandonato nei campi. Subito le persone si sono precipitate per recuperare la stoffa del paracadute, ritenuta allora molto pregiata per la realizzazione di capi di vestiario. Dopo la guerra ci fu l’emigrazione prima in America Latina, poi in Canada ed infine nelle città del Nord Italia. Con l’emigrazione la condizione di vita dell’uomo migliorò. Prima della grande guerra mondiale, ricorda ancora mia nonna, suo padre fu in Africa partecipando alla guerra in Etiopia e poi emigrò in Argentina per trovare lavoro e poter inviare dei soldi alla propria famiglia in Italia. Sicuramente c’era, allora, tanta sofferenza, ma nello stesso tempo più serenità nelle famiglie e ciò si evince dal fatto che durante le feste come Natale, Pasqua o Patronale, le famiglie si riunivano mettendo in comune quel poco che possedevano. Questo perché allora si credeva nei valori veri quali la famiglia, la solidarietà e il rispetto reciproco. Valori oggi che risultano “dimenticati” o sostituiti dal denaro, dal successo e dal potere.

Annamaria Galati

4 febbraio 2005 Il dominio normanno a Mileto

Incominciamo col parlare della nascita di questo affascinante popolo illustrando la vera essenza dei Normanni. Il popolo normanno o vichingo, era un popolo stanziato prettamente in Norvegia, e affascinato dalla conquista di nuove terre al punto da sottometterle al loro potere, combattendo il nemico con estremo coraggio. Esaminando il loro credo religioso possiamo osservare quanto agli inizi fosse pagano, infatti credevano in dei come: Odino e Thor e in una sorta di paradiso chiamato “valhalla”. Ma col passare del tempo capirono che serviva un’ altra religione per confortare il popolo: “il Cattolicesimo”. Agli inizi, questa religione si fuse con quella pagana e vennero create chiese con tetti a forma di navi vichinghe,e pregavano sia l’uno che l’altro dio. Col passare del tempo i vichinghi sentivano il desiderio di estendere i propri domini in terre lontane come l’Italia e ci riuscirono grazie alle loro resistenti e veloci navi. Viaggiarono per l’Italia settentrionale e raggiunsero il meridione, in queste terre videro la possibilità di poter avere un buon commercio marittimo e di poter stanziare il proprio popolo; ma in quelle terre vi erano situate grandi città musulmane. Ed è qui che si presentò il futuro duca normanno “Ruggero I d’Altavilla”, un avventuriero romantico, il più genuino e trascinante dei dodici fratelli; egli ebbe una vita romanzesca, se non più di quella del fratello Roberto, a cui era soggetto per motivi di vassallaggio. E a farcene avere un’immagine, quasi mitica, furono Amato di Montecassino e Goffredo Malaterra. Narrando la cronaca delle sue imprese, essi parlano entusiasticamente di campagne trionfali, di popolazioni oppresse dagli infedeli e pronte a gettarsi nelle sue braccia, dimenticando che la conquista della Sicilia richiese numerosi anni di lotte e di sforzi, di privazioni e di sofferenze. Ma gli Altavilla erano nati per le armi:la guerra per un vichingo era una festa, come cantavano i poeti scandinavi dell’ XI secolo. Ruggero ebbe un particolare affetto per Mileto,molte delle più importanti tappe della sua ascesa militare e politica ebbero luogo o furono decise nella corte della città, donatagli da suo fratello Roberto, e ad essa restò sempre attaccato nonostante si servisse spesso di città provvisorie per lo spostamento. Mileto non era solo questo, infatti Ruggero la elevò immediatamente a base militare e la rese punto di inizio per le sue conquiste; e l’amava così tanto che ogni qual volta si trovava lontano da essa, stava male e desiderava ritornarci per rimanere con la sua famiglia e con la su amata roccaforte. Fu forse per tale motivo che non decise per una capitale fissa, fra Troina, Palermo e Mileto; e anche se disponeva di città come Messina e Palermo, lui scelse sempre Mileto. Pertanto Mileto vantava una certa supremazia per tutti i possedimenti e i territori che si attorniavano attorno ad essa, estesi per tuttala Calabriae che si chiamavano << provincia Melitiana >>, e cosa più importante, fu la zecca creata da Ruggero per essere utilizzata in tutti i domini normanni (Travaini). Ma la predilezione per Mileto era così tanta da costruire uno dei monumenti cattolici più importanti del secolo scorso: la fondazione dell’ abbazia benedettina della santissima trinità(1063), prima, e della diocesi(1081 circa),e fu Ruggero a pagare per la costruzione della cattedrale. L’architetto del complesso fu probabilmente l’abate Robert de Grandmesnil, il quale dettò un piano costruttivo come quelli da lui conosciuti nella natia Normandia. Come ultimo reperto storico ho voluto inserire questo commento fatto da un prigioniero musulmano di Ruggero: “amava probabilmente la musica e aveva una generica disponibilità per la cultura, ma anche per un linguaggio volgare e da caserma, e per gesti scurrili di cui un cronista musulmano ci ha tramandato memorabile esempio. Non disdegnava le cerimonie ufficiali, il piacere della buona tavola, l’ ebbrezza del vino, le gioie della carne: le fonti gli attribuiscono numerosi figli illegittimi, a prescindere di Giordano che fra tutti ebbe assai caro e che una lapide-custodita tra le rovine della preziosa chiesetta di Santa Maria di Mili a pochi chilometri da Messina – ricorda ancora”. Con il completarsi della cattedrale, la vita di Ruggero pian piano si spense e creò un vuoto nella storica vita normanna, ma si è meritato un posto come eroe nella storia dell’umanità.

Domenico Manuli

23 novembre 2005Stefanaconi

Stefanaconi è un paesino che conta circa 2600 abitanti. E’ ubicato su una delle tante ondulazioni che caratterizzano la valle del Mesima, ai piedi della cosiddetta “Costera”, il colle di Vibo Valentia dominato dal castello normanno- svevo – angioino. Il suo territorio è abbastanza vasto perché comprende anche quello appartenuto un tempo a Motta san Demetrio, il villaggio che sorgeva su un’altura nei pressi del Mesima, scomparso a causa dei terremoti e della malaria. In passato la quasi totalità della popolazione era dedita all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, oggi invece vaste estensioni di fertili campi sono incolti, in parte perché i terreni in pendio non possono essere dissodati dai trattori e nessuno è disposto a sostituirli, in parte per la scarsezza di manodopera. Inoltre, in estate, sono in preda alle fiamme in particolar modo la “ Costera” un tempo verdeggiante di ulivi, oggi biancastra pietraia. Attualmente parecchi Stefanaconesi sono occupati nel settore terziario (ospedali, uffici vari, scuole,ecc.). Un numero consistente è dedito all’artigianato. Vi sono infatti alcune imprese edili, tre falegnamerie, due cantieri dove si lavora il marmo, una sartoria. Non mancano una farmacia e tre panifici. Il buon sapore del pane di Stefanaconi è conosciuto da tutti i paesi limitrofi ma oggi è apprezzato ancora di più grazie alla “Sagra del Pane” che annualmente viene organizzata dalla Pro-loco durante la terza settimana di agosto. Esiste l’associazione “PRO- LOCO”, il gruppo dei boy scout, un centro d’aggregazione sociale per gli anziani. Nel centro abitato operano due congregazioni e vi sono tre chiese; la quarta è invece sita in campagna nella contrada detta “Pajaradi” di fronte al cimitero. Il santo protettore è San Nicola di Bari. Il nome STEFANACONI, di sicura origine greca, per alcuni significa “ discendenti di Stefano” per altri “Paese a forma di corona”. Nel corso degli anni il nome di questo paese è stato letto in modi diversi; ora Stefanacolo o Stefanacoli (1310), fino ad arrivare a Stephanaconi. Varie volte distrutta dai terremoti, Stefanaconi fu sempre ricostruita. Uno dei terremoti più violenti fu quello del 1905 durante il quale venne re Vittorio Emanale III, il quale conferì il titolo di cavaliere al farmacista dott. Paolo Carullo per la sua generosa opera di salvataggio. Inoltre, dopo questo terremoto e soprattutto dopo la fine della prima guerra mondiale, vi furono molti emigrati verso l’America del nord e del sud in particolare giovani sposati. Stefanaconi possiede una frazione, Morsillara, limitrofa con il comune di Sant’Onofrio. Altri territori confinanti sono quelli di Vibo, di Francica, di Sant’Angelo di Gerocarne, Piscopio, ecc. Vi sono molti monumenti ed il più importante è quello dedicato ai Caduti in guerra, sito al centro della più antica piazza del paese, quella detta della “Vittoria”, scolpito dallo scultore Francesco Ierace. Vi è la scuola materna, l’elementare e la media. Nel vecchio edificio della scuola elementare ha sede la biblioteca comunale dove trova spazio una piccola sala adibita a riunioni importanti e ad un teatrino. La sede del comune, un tempo nel fabbricato dove opera l’ufficio postale, è oggi nel municipio sito nel tratto dove si trova il nuovo calvario costruito da pochi anni.

Anna Bartalotta

18 febbraio 2006 Sorianello

Il mio paese si chiama Sorianello. Viene ricordato anche con il nome di Antica Soriano. È quasi ignoto alla storia perché le vicende che lo riguardano sono sempre state mescolate con quelle della vicina Soriano. Entrambi furono abitati da comuni popolazioni, che vissero arroccati in questa superba e incantevole fortezza naturale per secoli ma vicende diverse hanno contribuito alla loro disgregazione nel campo amministrativo. L’attuale Soriano ha ereditato fortuna e nome, mentre il “mio” Sorianello è rimasto debolmente aggrappato alla collina, impoverito nella sua importanza e territorialità al punto da dover accettare addirittura il diminutivo letterale del nome: non più Soriano Superiore, bensì Sorianello. Di esso, non ci sono ben precise fonti delle origini. Secondo i più importanti studiosi di storia calabrese, Sorianello sarebbe stata fondata dai Normanni nel XІ secolo d.C. da Ruggiero І, Gran Conte di Sicilia e Calabria, ed è stata la sede del Castello regia dei Normanni. Secondo altri, invece, la fondazione di Sorianello risalirebbe a tre secoli prima, da parte di alcuni girovaghi della Siria esuli perla Magna Grecia, che giunsero qui e pensarono di stabilirsi trovando molto fertile il terreno. Altri ancora, sostengono che la nascita di Sorianello sia avvenuta nel ІΧ secolo d. C. ad opera di alcuni profughi che si nascosero dalle incursioni Saracene. Secondo altri, infine, Sorianello sarebbe stata fondata addirittura dai Greci. L’interessante collocazione topografica, anche se non ha collaborato a renderlo celebre, ha attirato l’attenzione di molti illustri viaggiatori che, nei loro registri giornalieri, annotarono l’ardita collocazione del paese, accerchiato da rupi a strapiombo e picchi inaccessibili. Il paese, visibile da lunga distanza, si presenta come “gli ambienti del presepio” ed è con queste parole che solitamente la gente circostante lo indica, per la sua bellezza nel contesto paesaggistico, intellettuale e sociale. Il territorio confina con i comuni di Gerocarne, Soriano Calabro, Pizzoni, Simbario, Spadola e Serra San Bruno. Del castello medievale rimangono pochi ruderi ma comunque, anche se il paese è situato fra precipizi e burroni, conserva valevoli opere d’arte: il Crocifisso di David Muller, della fine del ‘500, nella Chiesa di San Giovanni; l’interessantissima struttura della Chiesa di San Nicola; alcuni palazzi antichi e nella Chiesa di Santa Maria l’altare maggiore in stile barocco in marmi policromi. Molto importante per la sua storia è il luogo di San Bruno dove con una Chiesetta con un ulivo, dove San Bruno riposava durante il tragitto da Mileto alla “Certosa di Serra San Bruno”. A Sorianello ricorrono molte feste ma la più importante è quella di San Nicola, il nostro patrono, che si festeggia il 6 Dicembre. Particolare attenzione merita la struttura urbanistica per l’ingegnoso utilizzo dello spazio e per l’effetto caratteristico di essa: le case, guardate di fronte, si fanno vedere come collocate una sull’altra a forma piramidale. Un’infinità di scale e scalini inseguono i “vichi”; resti di piccoli tunnel sotto le case per riemergere da un altro lato. In questi spazi ristretti e non, si gioca e si lavora. C’è infine tanto calore umano, tra gente buona e ospitale. Agli uomini di cultura, agli appassionati di storia, di paesaggistica e a quanti amano la natura e l’arte, direi che vale la pena visitare Sorianello. Essendo un paese antico ha il proprio dialetto che, bisogna conservare per non perdere le origini del proprio paese come i soprannomi dei rioni, delle persone, delle canzoni e delle tradizioni popolari.

Nicola Gentile

27 aprile 2007 Polìa

Fa parte della provincia di Vibo Valentia. E’ composta di quattro frazioni (Cellia Trecròci, Poliolo e Manniti), due contrade (Lia e Faldella) e diversi nuclei abitati. Sorge in posizione stupenda, a monte del lago Angitola, di fronte al Castello di Vibo Valentia ed al Mar Tirreno. La frazione Cellia è posta al centro dell’agglomerato urbano, conta circa 200 abitanti, un tempo impegnati, per la gran parte, nell’esercizio delle piccole industrie forestali. E’ la frazione dove, per quasi un secolo, è stato praticato il tradizionale artigianato del legno che produceva, fino a poco tempo fa, sedie e oggetti torniti e onorava l’intero Comune per la maestria e il senso artistico dei suoi industri e solerti lavoratori, fonte, per lungo tempo, di benessere e di progresso. Oggi, a seguito del massiccio fenomeno migratorio che spinge, persistente, all’urbanesimo, gli artigiani sono del tutto scomparsi e così del glorioso periodo di produzione e lavoro non rimane che un semplice ricordo. Né può andare dimenticato che tale movimento di piccoli industriali, costituito da ben 53 famiglie per un insieme di 265 persone, fece conoscere ovunque Polìa e l’intelligenza dei suoi operosi e capaci artigiani, presenti, pur con le difficoltà logistiche del passato, sui più importanti mercati regionali. Cellìa, fino a poco tempo fa, era la tradizionale frazione artigiana del Comune, sede della Cooperativa tra i tornitori, sediari e arti affini di Polìa. In tempi lontani Cellìa era rinomata, pure, per la lavorazione del ferro battuto e della canna. La sua configurazione abitativa raffigura una grande croce, caratteristica, in particolare, nelle ore notturne. A monte dell’abitato c’è la chiesetta di S. Croce e lungo il pendio omonimo prosperano estesi castagneti, fruttiferi di funghi, e profumate ginestre che, nel periodo della fioritura, trasformano il bel colle in una plaga singolarmente gialla e profumata. Una colossale croce al neon rifulge sull’incantevole collina che guarda verso il mare e s’innalza dalla verde pineta, luogo di piacevole sosta nelle afose giornate d’estate. La frazione Poliolo è posta al vertice di due ridenti vallate riccamente olivate e floride in cui scorrono le fiumare Canace e Vicenza, sopra un groppone, quasi a rappresentare un destriero che rincorre qualcosa nella corsa del tempo. Conta circa 200 abitanti ed è situata in una posizione geografica particolarmente splendida e aprica. A sud-ovest dell’abitato si scorge il leggendario stretto dei Saraceni, dove i polièsi riuscirono a respingere gli Arabi che tentavano di aggredire il paese. Luminoso e ridente il dettaglio della panoramica frazione che, baciata sempre dal sole, si affaccia, policroma ed elegante, sulla più importante strada, Via Domenico Molé. Mennìti conta circa 400 abitanti, si arrocca intorno all’ampia piazza Principe Umberto, protetta dalle belle abitazioni che la circoscrivono, e ricorda l’antica agorà, di greca memoria, piazza ritenuta la più importante della polis e luogo di assemblee e di mercato. A Mennìti esistevano diversi mastellai, funzionavano numerose botteghe artigiane di sediari, affini e qualche tornitore. La frazione Trecròci è la più pittoresca delle quattro frazioni dal punto di vista paesaggistico e si estende, per una lunghezza di due chilometri circa, alla sommità rocciosa di due larghe vallate che hanno origine dalle due fiumare Vicènza e Milo. Conta circa 300 abitanti, per la gran parte impegnati nel lavoro agricolo. Un tempo era la frazione più abitata e contava, quasi da sola, gli abitanti che oggi comprende l’intero Comune. La popolazione di tale frazione, a seguito del violento sisma del 1783 che distrusse non poche chiese dell’antica Polìa, fissò, nel pietroso terreno della parte alta dell’abitato, tre croci, intorno alle quali i fedeli si riunivano, insieme col sacerdote celebrante, per compiere i riti religiosi e le preghiere. La frazione da quel tempo venne denominata Trecroci.

Alessandro Simone

1 maggio 2007 Motta Filocastro

Basta aggirarsi per le vie di questo piccolo borgo per sentirsi trasportati nel medioevo. Motta Filocastro conserva nel suo complesso urbanistico delle caratteristiche medievali quasi integre e quindi molto rare in Calabria. Il paese è situato su una collina a362m sul livello del mare, lungo l’antica vi Pompilia tra Rombiolo e Nicotera. Il nome è composto da Motta filos e castrum che significa piccolo ma delizioso paese , eretto su un monte e adatto alla difesa. Come risulta da varie scoperte archeologiche, Motta Filocastro nasce tra il VII e il V ad opera dei greci di Locri. Il villaggio assume l’aspetto di agglomerato urbano alla fine del 500 raggiungendo il massimo numero di abitanti fra il 946 e il 953, quando gli abitanti di Nicotera, situata sulla costa, si trasferiscono nei paesi dell’entroterra a causa delle incursioni dei pirati saraceni. Il centro era circondato da possenti mura, di cui rimangono pochi resti, che ne garantivano la difesa. In queste mura si aprivano tre grandi porte, quella principale veniva detta dell’Olmo e la sera queste porte venivano chiuse. Le case, di stile antico sono addossate le une alle altre e molte non hanno fondamenta ma poggiano le loro strutture direttamente su una dura e compatta roccia rossastra detta: “Parrera”.Nei vicoli interni e in particolare nella zona detta “a Motta abasciu “sono situate cadenti e antiche casette, danneggiate dal tempo e dall’incuria, che conservano ancora il balcone in ferro battuto, i portali in granito e le scalette esterne. Il paese raggiunse il massimo splendore sotto la dominazione normanna quando il conte Ruggero fece costruire un grande castello con 12 torri, di cui rimangono pochi resti perché distrutto dai diversi terremoti che colpirono la zona. Ancora oggi i nomi di strade e contrade ricordano luoghi o eventi del passato come: ”Via Castello”che era la strada che conduceva al castello; “il Giardino della Corte “che era certamente il luogo dove c’erano gli orti reali; la” Fontana vecchia” l’unica sorgente alla quale si approvvigionava l’intera popolazione; la “Giudecca “il quartiere dove vissero gli ebrei fino al XII secolo; la “Pietra di Fabio” il masso in granito sul quale venne decapitato il malvagio principe Fabio.La Chiesadi Maria SS. della Romania, costruita tra il 1628 e il1748 instile barocco, è stata edificata nel luogo dove era apparsa in sogno diverse voltela Madonna. L’interno a due navate, è abbellito da numerosi fregi e stucchi. Sull’altare inserita in un elaborato complesso marmoreo è inserita la statua della Madonna della Romania, raro esempio di Vergine Nera. All’interno della Chiesa c’è anche un antico fonte battesimale. Testimonianza molto importante dal punto di vista storico e il “Tocco”: un balcone con vista mozzafiato sulla piana di Gioia Tauro. Tocco significa “sedile di nobiltà” e fu edificato all’inizio del XII sec. in corrispondenza della nascita economica del paese. Federico II il grande imperatore svevo favorì un periodo di grande libertà. Sul cancello del Tocco c’è una corona sormontata da una croce e l’ingresso è reso importante da due colonne in granito. Queste vengono dette “colonne infami” perché qui venivano incatenati i malfattori in attesa di giudizio. Secondo la tradizione, durante il periodo della repubblica, la vita civile e giudiziaria veniva amministrata dai gentiluomini e da 24 cavalieri di cappa e spada che si riunivano ogni domenica. Da visitare è anche la chiesa dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, costruita nel 1647. L’interno ha un’unica navata molto semplice, sull’altare maggiore trova poso una splendida tela dell’artista Russo. Sul soffitto di legno spicca un dipinto del Montagnose. Nella chiesa è custodita la statua dei Santi Cosma e Damiano, opera seicentesca di scuola Napoletana. Nelle campagne a nord-est del paese, in località Bragò immersi in una fitta vegetazione ci sono i resti del Monastero di San Giovanni edificato dai monaci basiliani intorno all’XI secolo. Nelle vicinanze c’è una grotta scavata nella roccia che probabilmente fu l’abitazione del primo monaco vissuto da eremita. Sempre nelle campagne che circondano il paese ci sono i ruderi del convento Francescano – Santa Maria della Neve edificato nel1535 da Padre Ludovico Comi da Reggio Caloria, ideatore della Riforma Cappuccina in tuttala Calabriail quale fece diversi miracoli e predisse diversi avvenimenti che si verificarono. Poi c’è la chiesa del monte Santa Croce che prende il nome dal colle sul quale sorge e dove anticamente fu reperita un croce e dei reperti sacri. Nella chiesa è presente un grande crocifisso del XX sec portato da Madre Giovanna Francesca Ferrari, fondatrice dell’ordine delle missionarie francescane del Verbo Incarnato. Motta possiede anche una Croce d’argento finemente lavorata del XVI sec..Essa è stata regalata A Motta Filocastro dai Pignatelli, i feudatari che a quell’epoca possedevano gran parte del sud Italia,in occasione del matrimonio del figlio del duca. Questa è una dei soli tre esemplari esistenti nel Mondo, infatti è messa in mostra in tutta Europa insieme agli altri due esemplari che si trovano in Spagna.

Damiano Limardo

Uomini illustri

 

 31 ottobre 2003 Giuseppe Berto

Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto (Treviso) il 27 dicembre 1914 da un venditore ambulante di cappelli, primo maschio di cinque figli. Intraprende giovane gli studi nel vicino collegio Salesiano dove si applica con grande impegno e non senza complessi di colpa per il sacrificio cui obbligava la famiglia. Non con tale impegno invece, frequenta la facoltà di Lettere di Padova. Quindi, educato dal padre al rispetto per l’ideale fascista, parte come volontario verso l’Etiopia dove in quattro anni di permanenza si procurerà due medaglie al valore e la prima delusione, scoprendo la vera retorica del fascismo a cui aveva fino ad allora creduto e che al ritorno in patria, dopo aver conseguito la laurea, lo farà ritornare in guerra “..ancora in Africa, in tempo per partecipare, in Libia, ad una memorabile ritirata e per essere fatto prigioniero..”, dagli americani. In quegli anni scrive, spinto da un compagno di prigionia, “Il cielo è rosso” e “Le opere di Dio”. Proprio con il primo di questi, pubblicato nel 1947, ottiene il successo internazionale, diventando tra l’altro un “intruppato” neorealista. Qualche anno dopo a Roma si sposa e diventa padre, ma purtroppo comincia anche ad essere perseguitato dalla nevrosi, da cui guarirà scrivendo la sua più grande opera, “Il male oscuro”: ottiene un successo incredibile, vince nello stesso anno il Premio Campiello e il Premio Viareggio. Contemporaneamente s’indebita per comprare un terreno a Capo Vaticano dove si costruisce una villa, autentico rifugio in alcuni mesi dell’anno. Dopo diversi anni e altrettante opere arriva il suo nuovo capolavoro, “La gloria”, tutt’altro che religiosa analisi su Giuda e il mistero del male. Si ammala di nuovo e dopo aver dedicato agli amici “Intorno alla Calabria” muore in una clinica di Roma nel 1978. Come pochi della sua epoca aveva seguito sempre la sua “onestà intellettuale”, scontrandosi spesso e rischiando, sempre di persona, l’incomprensione e la svalutazione, si era addentrato in quasi tutte le sue opere in un’analisi critica sulla nevrosi mentale e sul pensiero umano in genere costituendo quasi delle parti enciclopediche nell’ambito della materia derivate soprattutto dalle esperienze personali. Oggi viene ricordato annualmente da un premio letterario, nato dalla collaborazione tra Mogliano Veneto e il comune calabrese di Ricadi, giunto ormai alla sua XV edizione. Essa vedrà in giugno la premiazione dei finalisti proprio a Mogliano (il prossimo anno toccherà a Ricadi) con 5.000,00 euro. Per volontà dello stesso Berto ha origine il Premio Letterario dedicato alle “Opere Prime” di narrativa in lingua italiana, con lo scopo di aiutare e incoraggiare gli scrittori “in erba”. Questo il bando di concorso: Premio Berto XV Edizione 2003 Regolamento e Bando I Comuni di Mogliano Veneto (Treviso) e di Ricadi (Vibo Valentia) bandiscono il Premio Letterario “Giuseppe Berto” 2003, XV Edizione, articolato in due sezioni: 1. premio all’opera prima di un narratore, redatta in lingua italiana; 2. premio ad un’opera di narrativa straniera, di un autore vivente, pubblicata in lingua italiana; Relativamente al punto 1:· le opere saranno scelte tra quelle edite per la prima volta in senso assoluto e perciò non dovranno essere né rifacimenti, né riedizioni, né traduzioni. Si intende per opera prima una raccolta di racconti o il primo romanzo pubblicato in volume e messo in distribuzione nel periodo tra il 1.05.2002 e il 30.04.2003. Relativamente al punto 2:· le opere saranno scelte tra quelle edite e messe in distribuzione nel periodo tra il 1.05.2002 e il 30.04.2003 e non dovranno essere né rifacimenti, né riedizioni.La Segreteriadel Premio ha sede presso l’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Mogliano Veneto (TV), via Terraglio, n° 3. Il Premio 2003, consistente nella somma di Euro 5.000,00 per ogni sezione, sarà assegnato a Mogliano Veneto il 7 giugno 2003.

Emanuele Sorrentino

2 novembre 2003 Giorgio Perlasca

Giorgio Perlasca Dopo molti anni si è scoperta la verità. Giorgio Perlasca, un italiano come noi, si oppose alla volgarità nazista salvando migliaia di vite umane, un uomo che oggi è considerato un eroe. Vediamo di conoscere meglio la sua grandissima impresa. Egli era un ex commerciante di bestiame e dopo essere stato mandato al confine durante il fascismo, nel 1944 viaggiò fino alla sede dell’ambasciata iberica a Budapest grazie ad una lettera di elogi avuta dal generale Francisco Franco per essere stato combattente della guerra di Spagna. Ma quando il personale spagnolo fu costretto ad abbandonare Budapest, Perlasca decise di rimanere nella sede diplomatica e si spacciò come ambasciatore di Spagna. In questo modo, avendo la possibilità di proteggere gli ebrei spagnoli e in seguito spacciatosi console spagnolo, fece arrivare migliaia di documenti falsi che attestavano la cittadinanza iberica a circa 5200 ebrei, che si trovavano nel ghetto di Budapest e che riuscirono a scampare alla deportazione di Auschwitz. Giorgio Perlasca, ad 82 anni, viveva con la moglie, in un appartamento in affitto a Padova, senza nemmeno una pensione. Era un eroe e nessuno lo sapeva. Poi nel 1989 mentre Israele, Spagna e Ungheria lo premiavano per la sua grande impresa, l’Italia riconobbe finalmente il suo eroe, grazie anche al film di Steven Spielberg ed al libro “La banalità del bene”di Enrico Deraglio. Giorgio Perlasca morì nel 1992. Ricordiamo quest’uomo che con la sua tenacia e la sua volontà ha salvato la vita di altri uomini, e chissà quante persone come lui lo hanno fatto e sono rimaste nel mistero.

Paola Maragò

 2 novembre 2003 Raffaele Piccoli – eroe calabrese poco conosciuto

Raffaele Piccoli – eroe calabrese poco conosciutoLa Penisola Italianaè una terra che ha vissuto molte battaglie ed è caduta sotto molti domini. Il bisogno di una terra unica è nato sotto il governo degli Austriaci (a nord) e dei Borboni (a sud). Uomini come Mazzini, i fratelli Bandiera e come Garibaldi, si opposero a questi tiranni. Ma chi erano i fautori della libertà? Certo non solo questi personaggi, dietro di loro si cela una fitta rete di nomi¼Soldati. La spedizione finale di Garibaldi era riunire l’Italia. Alla testa di 1.072 uomini la conquistò da Marsala a Varese fino a Teano. Ma chi erano i “Mille”? Uomini in cerca di libertà e ardenti di mettere fine a quello scempio di governo. Vorrei portare l’attenzione su uno in particolare, un Calabrese come noi, Raffaele Piccoli. La sua vita è un intreccio di battaglie, libertà e avventura. Piccoli nasce il 10 ottobre 1819, da buona famiglia. Frequenta il seminario di Nicastro e alcuni conventi, i genitori vogliono una vita da ecclesiastico per il figlio, ma i sentimenti del giovane contro i Borboni ardono. Così, scappato dal seminario, lascia gli ordini e assieme a quattro compagni, comincia la sua vita da combattente per la liberazione della Calabria. Si distingue nella battaglia del Ponte dell’Angitola nel 1848. Scoperto e imprigionato nel 1852, Piccoli, scampa alla pena di morte, e riesce ad evadere dal carcere di Ventotene e ad arrivare a Londra. Nella capitale inglese conosce Giuseppe Mazzini ed entra a far parte della “Giovane Italia”. E’ da qui che cominciano le sue grandi avventure, tra moti e battaglie, la sua carriera militare diventa imponente. Diventato Maggiore, si presenta a Quarto per la spedizione dei Mille e con Garibaldi sbarca a Marsala, Calatafimi e Palermo dove si ferisce. Attraversa lo stretto e passala Calabria,la Campaniae il Lazio, sempre acceso dalla voglia di libertà. Ritiratosi ormai stanco, Piccoli gode della speciale pensione riservata ai Mille. Ma le sue avventure non finiscono con il suo ritiro, infatti, Piccoli prende parte all’insurrezione repubblicana a Filadelfia, e per questo gli viene confiscata la speciale pensione, unica fonte di sostentamento per lui e la sua famiglia. Comincia così il periodo nero della sua vita che lo portò al suicidio nell’agosto 1880. I suoi discendenti diretti sono tuttora abitanti di S. Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. Carmela Vetromile è la nipote di Piccoli ed è tuttora in vita, nonostante la veneranda età di 102 anni. Eroi come Piccoli sono stati anche i suoi compagni, ma la sua vita non è stata sicuramente sprecata, ha seguito i suoi sogni cosi assiduamente da realizzarli.

Arturo Bianco

7 febbraio 2006 – Corrado Alvaro

Corrado Alvaro: scrittore di Calabria, cittadino del mondo L’Aspromonte è sicuramente ricordato da tutti come aspra montagna dell’Appennino calabrese, non di rado covo di malviventi, di sicuro casa “di pastori più che di contadini”. A vederla così sembra strano che proprio qui sia nato un autore che avrebbe reso onore alla sua terra in tutto il mondo. Nell’aprile del1895 aSan Luca (Reggio Calabria) da una modesta famiglia nasce Corrado Alvaro, ricevuta la prima istruzione dal padre si trasferisce a Frascati nel collegio gesuita di Mondragone. Da allora non smetterà mai di viaggiare e di scrivere. Espulso dal collegio per “letture proibite”, si trasferisce a Perugia, per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si trova come combattente a Firenze e a Modena, dopo essere stato ferito, a Ferrara, Chieti e Roma. A Bologna conosce sua moglie, Laura Babini, e con lei va a vivere a Milano. Dopo Parigi visita Berlino e torna in Italia per vivere prima a Grosseto, quindi a Viterbo e infine a Roma, dove muore l’11 giugno 1956. Durante questo lungo itinerario, che in pratica occuperà tutta la sua vita, perfezionerà il suo stile e ai suoi primi racconti giovanili si accosteranno i numerosi articoli a giornali come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo,La Stampa, Il Popolo d’Italia. Conoscerà e frequenterà Pirandello, Montanelli, e naturalmente l’amico e direttore del Mondo Giovanni Amendola. Sarà un convinto antifascista, tanto da non appartenere mai al partito o agli ambienti del potere politico, questo gli causerà l’ostruzionismo della critica giornalistica fascista e lo costringerà a nascondersi e a firmare i suoi scritti con falsi nomi. Raramente il suo talento sarà riconosciuto in Italia come all’estero, specialmente in Francia e Germania dove saranno pubblicate molte sue opere. Di queste, le maggiori sono sicuramente l’opuscolo liceale “Polsi nell’arte, nella leggenda, e nella storia”, la raccolta “Poesie grigioverdi”, il romanzo “Vent’anni”. Il suo nome però è sempre legato alla raccolta di racconti “Gente in Aspromonte” con cui vinse il premio letterario “La Stampa” di 50.000 lire, ottenne una notevole fama, conquistando la stima di molti suoi colleghi e di un sempre più folto pubblico di lettori tramite uno stile semplice e una lingua “nuda come le rocce”. Gente in Aspromonte è la storia di un padre, Agirò, che agli inizi del 1900 si ritrova come molti suoi compaesani in misere condizioni economiche, del figlio Benedetto, mandato a studiare in seminario e di suo fratello Antonello che lavora per mantenerlo e che alla fine reagisce alle prepotenze dei signorotti Mezzatesta dando inizio ad una vera e propria rivoluzione contro di loro. Gente in Aspromonte è il ritratto della Calabria che tutti noi conosciamo: bella e dura allo stesso tempo, piena di contraddizioni e spesso purtroppo anche di ingiustizie. Corrado Alvaro è un alto simbolo della condizione dei suoi corregionali, costretti a lottare in un ambiente a tratti inospitale e chiuso, a partire per seguire le proprie aspirazioni o più semplicemente per poter lavorare. E’ il simbolo di “quella gente, la più primitiva della penisola, forte tenace e chiusa: di poche parole, dai sentimenti profondi, fermissima nell’odio e nell’amore, che vive una vita piena di lavoro faticoso e di rinunce”, come la definì Indro Montanelli in una ritrovata prefazione al libro destinata agli Estoni. Quella gente, dico io, che come il suo talento letterario riesce anche a diventare protagonista del mondo e a farsi conoscere fino in Estonia, gente che dovrebbe ad ogni costo conoscere molto di più uno dei suoi più grandi autori.

Emanuele Sorrentino

5 agosto 2006 Ettore Majorana, il fisico nucleare sparito nel nulla commemorato con un francobollo.

Ettore Majorana, nato il 5 agosto 1905 e laureatosi in fisica nel 1928, fu tra i più promettenti allievi di Enrico Fermi. Il suo nome divenne un caso internazionale a causa della sua improvvisa scomparsa che avvenne nel 1938. Della sua scomparsa ebbe a interessarsi persino Mussolini e l’evento divenne un enigma nazionale ad oggi ancora insoluto. Ettore è l’ultimo di cinque fratelli, che si distingueranno tutti in qualche campo particolare, chi nella giurisprudenza, chi nell’amministrazione dello Stato, chi ancora in fisica. Ettore Majorana è senza dubbio un vero e proprio genio della fisica. Estremamente precoce ma anche eccentrico. Anche la sua carriera universitaria non è del tutto lineare. Dopo un primo approccio con ingegneria, si laurea in fisica nel 1929 con una tesi sulla teoria quantistica dei nuclei radioattivi. Sotto la guida di Enrico Fermi si occupa di spettroscopia atomica e successivamente di fisica nucleare. Con Orso Mario Corbino, Emilio Segré e Edoardo Amaldi entra a far parte del gruppo dei “Ragazzi di via Panisperna”, il gruppo di geni che ha fatto la storia della fisica italiana. Le più importanti ricerche di Ettore Majorana riguardano una teoria sulle forze che assicurano stabilità al nucleo atomico: egli per primo avanzò l’ipotesi secondo la quale protoni e neutroni, unici componenti del nucleo atomico, interagiscono grazie a forze di scambio. La teoria è tuttavia nota con il nome del fisico tedesco Werner Heisenberg che giunse autonomamente agli stessi risultati e li diede alle stampe prima di Majorana. Nel campo delle particelle elementari Majorana formulò una teoria che ipotizzava l’esistenza di particelle dotate di spin arbitrario, individuate sperimentalmente solo molti anni più tardi. Dal 1931, conosciutosi il suo straordinario valore di scienziato, è invitato a trasferirsi in Russia, a Cambridge, a Yale, nella Carnegie Foundation, ma a questi inviti oppone il suo rifiuto. Dopo aver soggiornato a Lipsia e a Copenaghen, rientra a Roma, ma non frequenta più l’istituto di fisica. Al concorso nazionale per professore universitario di Fisica, bandito nel 1936, non vuole partecipare, nonostante la segnalazione fatta da Fermi a Mussolini. Si trasferisce da Roma a Napoli (albergo “Bologna”) nel 1937, dove accetta la nomina per meriti speciali a titolare della cattedra di Fisica teorica all’Università di Napoli. Ettore Majorana si lascia persuadere a intraprendere – è il mese di marzo 1938 – un viaggio di riposo, Napoli-Palermo. A Palermo alloggia all’albergo “Sole”, ma vi trascorre solo mezza giornata; la sera viene visto sul ponte del piroscafo all’altezza di Capri ma a Napoli non arriverà mai. La commissione di inchiesta che intraprende le indagini scarta l’ipotesi che Mjorana si sia lanciato in mare, avanzando invece la supposizione che si sia trasferito segretamente all’estero. Il fisico italiano Ettore Majorana sarà celebrato dalle posta italiane con l’ emissione di un francobollo, dal valore di sessanta centesimi. Esso mostra un ritratto del fisico nucleare e la rappresentazione stilizzata dell’ atomo: le forze nucleari e la teoria simmetrica dell’ elettrone e del positrone sono infatti i suoi maggiori contributi scientifici.

Federica Monteleone

31 ottobre 2007 Determinazione e affermazione di una “Grande donna”

Rita Levi Montalcini nasce nel1909 aTorino, in una famiglia italo-ebrea.

Inizialmente affronta studi di tipo letterario ma verso i 20 anni, un episodio cambia radicalmente il suo indirizzo di studi: la morte della sua governante a  causa di un cancro allo stomaco, accresce in lei la decisione di diventare un  medico. Riesce ad entrare nella Scuola  di Medicina di Torino e si laurea con lode in medicina. Ma questo importante  personaggio, a causa del periodo in cui ha vissuto, affronta molte difficoltà.

E’ vittima, durante la seconda guerra mondiale, delle persecuzioni contro gli ebrei, infatti lei e la sua famiglia è costretta a nascondersi; ella però non vuole abbandonare la sua passione per la scienza e si costruisce un piccolo laboratorio  sperimentale in casa. I suoi primi studi riguardano il sistema nervoso, in particolare le fibre nervose. Dopo la fine della guerra, lascia l’Italia e va negli Stati Uniti dove continua lesue ricerche. Qui collabora con il bio-chimico Stanley Cohen e sulle sue ricerche ottiene la prova che la crescita delle fibre nervose viene stimolata e regolata da uno specifico fattore chiamato NGF (Nerve Growth Factor, fattore di crescita dei nervi).La sua scoperta è stata importante perchè ha consentito una maggiore comprensione dello sviluppo del sistema nervoso e soprattutto l’uso del fattore di accrescimento e di altri fattori pro-teici similari per stimolare la crescitadei neuroni danneggiati, in particolare per malattie come il morbo di Alzheimer. Inoltre l’NGF agisce sulle stesse cellule cerebrali e sul sistema immunitario.Per questa scoperta ha ricevuto, nel 1986, il premio Nobel per la medicina. Nel 2001 è stata no minata senatrice a vita, ha pubblicato molti libri scientifici e ancora oggi continua la sua ricerca. Nonostante le avversità della vita la determinazione fa raggiungere i propri obiettivi, come ci testimonia questa grande neu-biologa.

GraziaLa Bella

21 novembre 2007 Enzo Biagi

In data6 novembre 2007, verso le dieci,  è venuto a mancare uno dei più grandi giornalisti italiani Enzo Biagi . Nato a Bologna nel 1920, è stato giornalista e scrittore tra i più amati di Italia, seguito dal pubblico sia tramite gli schermi televisivi,  quanto dagli amanti della lettura, nei suoi libri di reportage (L’ albero dei fiori bianchi, Il fatto, La lunga notte ). Fu inviato speciale per la “Stampa” direttore dei giornali “Il resto del carlino”e di “Epoca”, opinionista del “Corriere della sera”. Fu noto giornalista televisivo, direttore Rai e come anchorman per alcune celebri rubriche come “Il Fatto” impostate su interviste misurate ed  essenziali. Dopo le raccolte giornalistiche “Testimone del tempo” e “Gente”,  ideò e creò la collana chiamata “La geografia di Biagi”,  cioè una collana di otto volumi  che racconta la storia d’ Italia a fumetti, dopo si misurò anche con la narrativa scrivendo i racconti: “Disonora il padre” e “Una signora così  così”.Pubblicò con regolarità delle opere tra cronaca e memoria da “Dicono di lei” alla biografia sottoforma di intervista  a Marcello Mastroianni  “La bella vita”. Tra le sue ultime pubblicazioni vi è “Come si dice amore”,  del 2000.Il mondo della cultura perde un grande genio del giornalismo.

Ferdinando Malagreca

18 gennaio 2009 Ricordo di un eroe

Angelo o uomo? Pazzo o coraggioso? Stolto o intelligente? Questi sono i soprannomi di un eroe italiano, Peppino Impastato.

Peppino Impastato a mio parere è un eroe, un idolo da cui prendere spunto. Egli è stato una vittima della mafia siciliana, lui che aveva una carriera davanti di mafioso, essendo figlio di un boss e nipote del capo. Ma ha avuto il coraggio di ribellarsi alle ingiustizie della mafia e l’ha combattuta, non con pistole o con pugni e calci, non solo con parole, proteste e associazioni di giovani ribelli che come lui avevano un solo pensiero: che la mafia fosse out.

Peppino aveva incontrato un comunista che anch’esso gridava nelle piazze del suo paese contro la mafia. Lo incontrò perché voleva fare un ritratto di suo nonno che era da poco morto, ucciso da un pretendente al suo potere. Il comunista, un acerrimo nemico di suo nonno, rifiutò di farlo nei primi tempi, ma dopo arrivarono ad un accordo.

Il giovane eroe ascoltava il racconto mentre faceva il ritratto. Poi, diventando grande, sviluppò le sue idee anti-mafiose e istituì anche un circolo in cui si parlava di progetti per abbattere la mafia. Insieme agli amici guardavano film che protestavano contro la mafia e alle volte si lanciavano anche in balli frenetici che coinvolgevano sempre più giovani.

Peppino impiantò anche una radio dove facevano trasmissioni anti-mafiose ma anche tanto divertimento perché la prima arma contro qualsiasi male è una bella risata di gioia e felicità.

Ma Peppino Impastato era diventato un soggetto molto scomodo per la mafia della sua Sicilia e così venne ucciso lo stesso giorno della riscoperta del cadavere di Aldo Moro per cui la notizia della sua tragica fine venne oscurata dall’altra notizia che occupò tutti i massa media.

Da qual tragico giorno sono passati tantissimi anni. Ma oggi, la figura e l’impegno contro la mafia del giovane eroe sono stati finalmente riconosciuti ed egli, per tutto il mondo civile è considerato un eroe, perché Peppino è veramente un idolo da seguire se si vuole che vinca la legalità in tutti i campi.

Gabriele Vecchio

 

4 novembre 2009 Alda Merini – Una donna sul palcoscenico

Sembra uno dei periodi più favorevoli per Alda Merini, poetessa milanese famosa per le sue raccolte di poesie tra cui vale la pena ricordare “Mistica d’amore”, “Clinica dell’abbandono” e “Poema della croce” (quest’ultima realizzata in collaborazione con il musicista Giovanni Nuti) e anche per la sua drammatica esperienza in manicomio, nel quale ha trascorso diversi anni della sua vita.

Durante la sua giovinezza, la Merini venne a contatto con letterati e uomini importanti per la letteratura italiana del Novecento, tra i quali spiccano i nomi di Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Mario Luzi.  E’ il critico letterario e poeta Giacinto Spagnoletti a scoprire il suo talento, quando lei aveva solo 15 anni, e ad accompagnarla all’esordio come autrice. Da qui in poi, per la Merini è un continuo successo, al quale, in seguito, si alterneranno periodi di salute e malattia, in cui la poetessa darà inizio alla scrittura di testi e poesie legate  alla sua dura vicenda in manicomio.

Da un po’ di mesi, è possibile, inoltre, seguire diverse trasmissioni televisive in cui la Merini viene ospitata, come l’ormai famosissimo “Chiambretti Night”. Qui, la poetessa parla della sua vita oppure è invitata a discutere su temi di attualità, come il rapporto tra essere e apparire nella società odierna. Ma il successo della Merini non si ferma sul piccolo schermo. Anche sul social network più usato da noi giovani, Facebook, sono nati diversi gruppi di suoi fan che sostengono cause che la riguardano, come l’assegnazione del premio Nobel 2009 per la Letteratura, assegnato, invece, come sappiamo, alla scrittrice tedesca Herta Muller.

La fama della cosiddetta “poetessa dei Navigli” sembra non arrestarsi qui. Alla Giornata degli Autori, una sezione indipendente della 65° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è stato presentato un film-documentario intitolato “Alda Merini – Una donna sul palcoscenico”, diretto dal regista Cosimo Damiano Damato. Si tratta di un’intervista direttamente dalla casa della poetessa milanese che mette a nudo la sua anima, affrontando svariati argomenti che riguardano la sua esistenza: dagli anni trascorsi in manicomio alla triste separazione dei figli, fino alla discussione su temi quali il misticismo, la seduzione, la poesia, la fede. Un’importante collaborazione nel film è quella di Mariangela Melato, che è la voce narrante delle poesie della Merini, con le quali si alternano le diverse parti dell’intervista.

Si spera che questa docu-intervista possa uscire presto anche nelle sale cinematografiche, per rendere possibile a coloro i quali ne prenderanno visione la conoscenza di una realtà sconosciuta, quella del manicomio, attraverso la vita di colei che è considerata la “decima musa”.

Luigi Tuccillo

Nel regno della Fantasia

20 dicembre 2003 Il giovane cavaliere errante e il natale scomparso

Al tempo dei re che governavano la terra, delle streghe che preparavano strani incantesimi, degli orchi che terrorizzavano la gente, andava per avventure affascinanti un giovane cavaliere. Era, questi, uomo di grande coraggio che aiutava il popolo nelle situazioni più disperate. In quei giorni, si trovava a passare per le terre di un grande re conosciuto da tutti per la sua bontà. Da anni questo re aveva un problema che nessuno era mai riuscito a risolvere: la gente di quel luogo non festeggiava più il Natale. Inutili erano stati i tentativi di riportare lo spirito natalizio, si era giunti solo alla certezza che qualcuno lo aveva rubato altrimenti non si poteva spiegare l’insensibilità della gente verso una delle feste più belle del genere umano. Sapendo della venuta di questo prode cavaliere, il re tentò di provare, forse, l’ultima occasione per risolvere il problema. Inviò un suo servo per convocare a corte il giovane. Alla venuta di questi, il re si precipitò da lui: – Cavaliere, tu sei la mia ultima speranza di portare la felicità nel mio regno. – Ditemi tutto, mio sovrano – rispose garbato il cavaliere. – Il mio popolo ha perso l’amore per il Natale. Abbiamo tentato anche l’impossibile per farlo ritornare nei loro cuori, ma è stato inutile. Siamo giunti alla conclusione che è stato rubato dalla strega che vive al di là delle montagne; è una strega invidiosa del mio regno e farebbe di tutto per portarmelo via. – Ti aiuterò, mio re – disse il paladino – Ti ringrazio, e che la fortuna ti assista. – Rispose il re. – Il cavaliere iniziò la sua marcia verso il tenebroso castello della fattucchiera; non era un cammino facile, gli ostacoli erano molti e la neve frenava il cammino. Decise quindi di riposarsi dentro un albero cavo. Con sua grande sorpresa, trovò dentro l’albero un essere molto strano ma del quale ne conosceva la natura: era un mezzelfo. Questi, alzatosi per vedere chi era che lo disturbava, chiese all’uomo: – Chi sei, cosa vuoi da me? – Scusami per l’intrusione – rispose il giovane – cercavo riparo per la notte. – Credo che staremo stretti, ma per questa notte puoi dormire qua. La notte passò tranquilla e senza disturbi. All’alba il giovane si svegliò e con lui anche il mezzelfo. – Ti ringrazio per l’ospitalità, ora devo andare, una dura giornata di cammino mi aspetta. –Disse il paladino. – Dove stai andando? –Chiese il mezzelfo. – Sto andando dalla strega che vive oltre le montagne – rispose il cavaliere. Appena dette queste parole, il mezzelfo guardò esterrefatto l’uomo, pensava fosse pazzo. – Tu devi essere matto per andare da quella strega, è cattiva e spietata, di sicuro non tornerai vivo. Il giovane rispose:- Per il mio onore e per il bene di un popolo, devo ucciderla, altrimenti non ci sarà più il Natale. – Sono nobili i tuoi sentimenti e non credo che riuscirò a fermarti, però lascia almeno che ti aiuti. Disse il mezzelfo. – Come mi puoi aiutare?- Chiese il Cavaliere. – Ti porterò volando fino al suo castello perché seguendo i sentieri a cavallo, non ci arriveresti mai. – Grazie amico, ti sarò debitore per tutta la vita. Dette queste parole, i due partirono e in pochi minuti arrivarono a destinazione. – Io ti lascio qui, ora devi sbrigartela da solo; i miei poteri non possono competere con quelli della strega, altrimenti resterei ancora al tuo fianco. –Disse il mezzelfo. – Non ti preoccupare, mi hai aiutato già tanto; da qui in poi ci penserò io. – Rispose il cavaliere e si avviò all’entrata del giardino della maga. – Entrando, con sua grande meraviglia trovò un immenso labirinto come ostacolo, ma questo non lo fermò dalla missione, si avviò ancora più determinato a sconfiggere la malignità della strega, pur immaginando che ben altre difficoltà lo aspettavano all’interno. Vagò senza trovare la strada principale per ore e ore finchè, quasi rassegnato, si gettò per terra. A quel punto avvenne un fatto incredibile, una luce arrivò fino al paladino, questi la seguì sicuro che l’avrebbe portato fino a dove era custodito il Natale. E così successe. Il cavaliere giunse in uno spiazzale dove al centro vide un’ampolla tutta ricoperta di una luce abbagliante. Capì che là dentro vi era racchiuso il Natale; ma quando si avvicinò per prenderla, un terremoto scoppiò in quel punto e una nube si levò da ogni angolo. Da quella nuvola grigia, apparve la fattucchiera che, con tono minaccioso, urlò al paladino: – Non oserai toccare quella sfera!!! – Cosa me lo impedisce? Ribattè il giovane. – Te lo impedirò io – tuonò la maga e in quel momento scagliò contro il prode cavaliere una lancia infuocata. Ma l’abilità del giovane era grande e, con un tuffo, schivò la lancia e con un ultimo sforzo colpì a morte la strega che si dissolse nell’aria come se non fosse mai esistita e con lei sparirono il suo castello e il suo labirinto. Il giovane prese l’ampolla e con il suo cavallo tornò sulla strada per il regno del re. Lungo il cammino, incontrò di nuovo il mezzelfo che prima lo aveva aiutato e, contento della sconfitta della maga, propose al cavaliere di accompagnarlo a destinazione. Arrivati al castello del re, il mezzelfo salutò l’amico e tornò a casa. Il paladino entrò a palazzo e consegnò la sfera al re. Questi, felice come mai prima d’ora, ringraziò il cavaliere: -Grazie infinitamente, mio prode cavaliere! Mi hai reso felice, e adesso, grazie a te e al tuo coraggio, potrò rendere felici anche io i miei sudditi. Così dicendo, ruppe la sfera e il Natale si propagò per tutto il regno entrando nel cuore e nell’anima di tutti i cittadini che, con la gioia negli occhi, ripresero dalle soffitte tutte le luci e gli addobbi vari per festeggiare il Natale. Il re, per sdebitarsi, propose al cavaliere di restare per sempre nel suo regno, ma il giovane rispose che non era quella la sua vita, perchè voleva vivere ancora mille avventure per portare la felicità là dove non esisteva. Il re non insistette e lasciò partire il cavaliere. Era la notte del ventiquattro dicembre, la notte di Natale. Dopo molti anni di tristezza, in quel regno tornarono l’amore, l’amicizia, la pace che sono i doni più belli che il Natale regala a tutti gli uomini di buona volontà.

Antonio Carbone


25 maggio 2004
“Il patto con il diavolo.”

C’era una volta, in un antico regno dei paesi del nord, un castello grande, maestoso e ricco di splendori. Durante tutta la sua esistenza, gli succedettero molti re che durante i combattimenti con gli altri popoli, ne facevano uso come prigioni e posti di esecuzione. Il castello, però, non serviva solo a questo; nei sotterranei vi era un posto di cui sapevano solo i regnanti e serviva a nascondere i più grandi tesori del tempo; c’erano spade, gioielli, scettri, corone e soprattutto …oro a volontà. Tutto ciò si tramandava di generazione in generazione, e il tesoro cresceva sempre più. Arrivò tempo di guerra: la gente moriva di fame perché tutto era stato distrutto; i soldati, o morivano per fame, o per il freddo portato dalla mancanza del vestiario. Il re sapeva benissimo che con il suo tesoro avrebbe sfamato tutto il suo regno e, aiutando i soldati, avrebbe vinto la guerra. Nonostante tutto, era troppo egoista e preferiva avere tutto per sé. Mentre questi era fuori, due uomini molto astuti, riuscirono a trovare la stanza del tesoro e a portarne via quasi la metà, per avvertire il re di aiutare la sua gente. Quando il re tornò e si accorse del furto, si infuriò così tanto che riuscì a invocare il diavolo. Allora fecero un accordo e il diavolo dovette creare una cosa capace di proteggere per sempre la sua ricchezza. Non esitando, allora, la creatura malefica, si mise al lavoro e ne uscì “Bazyli”. Questo essere non sembrava né uomo, né pollo, né qualsiasi altro animale ed era bruttissimo in tutto, tranne che nei suoi occhi. Erano di tutti i colori, ed erano così belli che quando si accendevano, emanavano una luce così forte come quella del sole e colorata come quella dell’arcobaleno. Proprio con quei occhi così stupendi, Bazyli riusciva ad uccidere ogni uomo che tentava di prendere possesso del tesoro. Un giorno, il re, andò a controllare se tutto fosse al suo posto e si travestì da contadino per non essere riconosciuto e scoperto. Non aveva pensato però all’essere che egli stesso aveva fatto creare e quando arrivò al punto, attratto dalla bellezza dei suoi occhi, lo fissò e rimase fulminato. Così morì nel segreto e nessuno mai seppe nulla di lui e, grazie alla volontà del popolo, ci fu un nuovo re che riuscì a risollevare la grave situazione che divenne così favorevole da permettere che il regno diventasse il più grande e il più bello di tutti gli altri. E il tesoro? Rimase per sempre sepolto nell’oscurità.

Damgara Dzugaj

20 luglio 2004 Il grande libro delle fiabe

C’era una volta un’immensa reggia dove vivevano i personaggi di tutte le fiabe del mondo. Aveva tre piani e in ogni piano c’erano 1200 stanze. Al primo piano, vivevano principi e principesse come Biancaneve, Cenerentola,la Bella Addormentata, ecc. Al secondo vivevano i bambini protagonisti di favole come Pinocchio, Alice, Peter Pan, Pollicino, Gretel e suo fratello e via di seguito. Al terzo piano vivevano animali molto strani come il gatto con gli stivali, i tre porcellini ed il grillo parlante. Il custode della reggia era un signore che aveva una figlia di nome Aurora. Nel seminterrato, allo scuro di tutti, viveva un vecchio stregone che da qualche tempo tramava di conquistare la reggia. Per farlo, doveva riuscire a prendere il gran libro delle fiabe che si trovava all’interno di un gran forziere d’oro, conservato all’ultimo piano, nella pancia di una grossa balena. Lo stregone voleva cancellare le fiabe scritte in quel libro, per far scomparire i personaggi che vivevano nella reggia. La chiave del forziere era custodita, però, dal padre di Aurora. Lo stregone, un giorno, si trasformò in un bellissimo principe e andò a chiedere le chiavi al custode. Il padre di Aurora sapeva bene che non era un vero principe e si rifiutò di dargli le chiavi. Allora lo stregone lo trasformò in un girasole e incominciò a rovistare per tutta la stanza, sperando di trovare le chiavi. Aurora che aveva visto e sentito tutto, incominciò a scappare portando con sè la sua bambola preferita. Chiese aiuto ai principi che in quel momento erano riuniti per giocare a carte, come tutti i pomeriggi. I principi cercarono lo stregone ma non riuscirono a trovarlo. Aurora che era molto spaventata, si mise a piangere, ma subito arrivò la fata turchina che le rivelò un grande segreto. Le chiavi si trovavano nella bambola che portava sempre con sé. Le disse anche che, se voleva salvare suo padre e tutte le fiabe, doveva arrivare all’ultimo piano, dalla balena, e scrivere nel libro il finale della storia. La giovinetta allora incominciò a salire le scale per arrivare al secondo piano. Lo stregone, che aveva sentito tutto, mandò degli uccelli rapaci a prenderle la bambola. Intanto, Aurora finì nel paese delle meraviglie di Alice. Là, i rapaci non potevano entrare, ma l’avrebbero aspettata all’uscita. Ma lei, invece, prese una scorciatoia che scoprì giorni prima, giocando con la piccola fiammiferaia, così arrivò al terzo piano. Ora bastava trovare la balena e tentare di svegliarla. Lo stregone mandò dei grossi topi sapendo che la ragazza li odiava. Infatti, vedendo arrivare più di tremila topi, si mise a gridare, ma subito arrivò il pifferaio magico, che con la sua dolce musica allontanò gli odiati animaletti. La bambina incominciò a vagare per quelle stanze fino a quando non trovò il grillo parlante, che la portò dalla balena. Svegliare la balena era, però, un compito molto difficile, ma fortunatamente arrivarono i musicanti di Brema, che si misero a suonare. La loro musica, in realtà, non era bella come si racconta, ma era molto rumorosa, tanto che la balena si svegliò. Aurora allora entrò nella bocca della balena, che in quel momento stava sbadigliando e arrivò nella sua pancia, dove trovò il forziere. Per prendere le chiavi doveva rompere la bambola, anche se a lei dispiaceva molto perché era la bambola che le lasciò sua madre prima di morire. Lo stregone, intanto, stava per entrare nella balena che cercava in tutti i modi di tenere chiusa la bocca. La bimba allora si affrettò, ruppe la bambola, prese le chiavi, aprì il forziere e aprì il libro. Incominciò a scrivere il finale della storia, intrappolando lo stregone nel seminterrato, per sempre. Fece tornare suo padre com’era e infine nascose il grande libro dove nessuno poteva prenderlo. Quale era il posto migliore? “Nella fantasia dei bambini, dove nessuna chiave potrà aprire la porta dei loro sogni.”

Annarita Ruscio

8 marzo 2005 La leggenda del fiore

In un giorno di primavera, Oghi, un ragazzino, figlio unico, era uscito fuori nel giardino della sua casetta in montagna a giocare; i fiori sbocciati emanavano l’odore del loro polline; le api vi gironzolavano intorno, prelevandone un po’. Una di queste lo punse; era però diversa dalle altre, e lo si notava anche dallo strano morso che gli aveva lasciato sul collo. Ma Oghi non ci aveva fatto caso continuando a giocare. Era giunta la sera e la madre si trovava in cucina, mentre il padre era in salotto a guardare la tv. Oghi entrò in casa e si ritrovarono tutti insieme a tavola per cenare. Ad un tratto il ragazzo svenne. I genitori notarono la puntura sul collo e preoccupatisi chiamarono il medico di famiglia mentre il Oghi sempre senza conoscenza, respirava con fatica. Il medico, arrivato quasi subito, lo visitò. L’espressione del suo viso stranito, faceva percepire che le notizie non erano buone; non riusciva a capire i sintomi che Oghi provava e manifestava, a quale malattia o infezione appartenessero. Non diede una spiegazione. Perciò i genitori contattarono altri dottori, ma inutilmente. Da quel giorno Oghi dormiva quasi sempre; la madre gli stava sempre accanto non capendo ancora l’accaduto e affidandosi al destino. Contrariamente il padre, stimolato dal grande amore verso il suo unico figlio, si rimboccò le maniche, sfogliando tutti i libri di medicina della libreria. Poi ad un tratto, all’estremità di uno scaffale, intravide un vecchio libro, tutto impolverato; aprendolo, si accorse che mancavano anche delle pagine. Si ricordò poi di averlo comprato in un viaggio fatto in India, tempo prima. Il libro raccontava di popoli antichi di quel luogo, delle loro tradizioni e leggende; una in particolare lo colpì; narrava di un fiore rarissimo, originario dell’alta montagna; specie con le foglie strette e lanose e un fusto eretto che raggiungeva circa i trenta cm di altezza; i fiori terminali erano piccoli; inoltre emanava un profumo molto particolare che aveva effetti guaritori. Dopo questa descrizione, la leggenda sembrava terminare, ma non era così perché continuava nelle pagine mancanti. Pur di salvare il figlio era disposto a fare pazzie; aveva quasi perso la razionalità. Infatti, accompagnato da un suo caro amico, decise di partire verso l’India. Così, preso l’occorrente, partirono per quello che fu un lungo viaggio. Dopo un giorno, arrivarono a destinazione, chiesero informazioni dirigendosi nel luogo che era stato indicato, cioè al centro di una foresta dove si trovava un alto monte. Proprio sulla sua cima si sarebbe trovato il motivo del loro viaggio. Addentrandosi nella foresta, non trovarono ostacoli. Arrivati ai piedi del monte,s i fermarono per osservarne la massa enorme e l’altezza. Incominciarono ad arrampicarsi per scalarlo; a giorno inoltrato, erano quasi giunti alla meta e si fermarono a riposare in una rientranza che terminava con una grotta. Proprio lì, avrebbero trovato la continuazione della legenda. Alzando gli occhi si ritrovarono un orso su due zampe, pronto ad attaccarli. Preso dal panico, il padre di Oghi, frugò nello zaino che aveva sulle spalle tirando fuori un grosso coltello e lanciandoglielo addosso. Scamparono il pericolo e continuarono la scalata. Giunti in cima videro il fiore e lo raccolsero delicatamente. Ripartirono arrivando a casa sani e salvi; subito il padre di Oghi si precipitò verso la moglie e il figlio. Prese il fiore e lo posò sul suo viso e, come per miracolo il piccolo aprì gli occhi sorridendo ai genitori in lacrime. Oghi migliorava di giorno in giorno; tornò così tutto alla normalità.

Maria GiovannaLa Bella

15 marzo 2005 L’asteroide blu

C’era una volta nella galassia x, un asteroide di colore blu che si chiamava Celestino. Era molto piccolo, lo si poteva attraversare a piedi da capo a capo in una settimana. Su Celestino tutto era blu, il cielo senza nuvole, i rami degli alberi senza foglie, le case erano cubi di acciaio, non c’erano né il giorno né la notte. Celestino era abitato da una piccola tribù di robot, i cui antenati erano stati trasportati là milioni e milioni di anni fa da un gruppo di astronauti che provenivano da un pianeta lontano. I robot avevano un lungo corpo cilindrico, su cui si poggiava la testa quadrata; non avevano bisogno né di mangiare né di bere ma solo di lubrificare costantemente con olio le loro articolazioni metalliche. Questa è la storia di Luis e di suo fratello Spike. Luis era una robottina ribelle, era curiosa di scoprire cosa c’era al di fuori di quel panorama blu. Aveva sentito parlare di un pianeta abitato da creature fatte di carne ed ossa, dove c’erano alberi e prati fioriti, dove scorrevano fiumi nelle vallate delle montagne…. Una notte Luis, senza dire niente al fratello e all’insaputa dei genitori, decise di scappare per andare a scoprire quel pianeta. Dopo un po’ di giri di ricerca a vuoto, finalmente avvistò una palla verde e azzurra, tutta circondata da una leggera nebbiolina e subito capì che era il pianeta di cui aveva tanto sentito parlare. La mattina seguente, il fratello si accorse della sua mancanza e capì subito dov’era andata, perché sapeva il desiderio che Luis aveva; cosi decise di raggiungerla. Spike la ritrovò, tentò di convincerla a tornare subito indietro ma Luis non volle. Insieme cosi cominciarono a perlustrarela Terra, videro che quel pianeta era molto bello: prati immensi, pieni di fiori colorati, alberi su cui gli uccelli si posavano, mari limpidi e cristallini, montagne piene di neve; poi si accorsero che la giornata era divisa in giorno e notte. Nel giorno c’era una gigante palla gialla che illuminava ogni cosa e di notte una color argento che rischiarava….. Però, poi, pian piano, si accorsero anche delle cose brutte di quel pianeta: grandi città con immensi palazzi, strade molto rumorose, la gente correva da una parte all’altra senza mai fermarsi; avvistarono periferie colme di baracche ed immondizie, dove la gente si ammazzava per un pezzo di pane. Videro altre città dove c’era la guerra che tutto distruggeva….. palazzi sventrati dalle bombe, sangue dappertutto, uomini morti, bambini abbandonati….. e questo a loro non piacque per niente. Luis capì che anche se il loro asteroide Celestino era piccolo e monotono, almeno era tranquillo, in pace, dove tutti i robot si volevano bene e si aiutavano a vicenda, cosi decise di tornare a casa con Spike. Purtroppo, mentre stavano prendendo la strada del ritorno, un carro attrezzi si avvicinò a Luis e scambiandola per un ferro vecchio la sollevò con un gancio e la caricò su. La portò in un grande capannone, pieno di rottami di ferro; là Luis capì che volevano usarla per costruire nuovi macchinari. Spike non sapeva come fare per liberare la sorella e corse subito su Celestino a chiedere aiuto. Tutti i robot si riunirono e piombarono sulla terra per salvare Luis, attaccarono il capannone e riuscirono a liberarla. Luis, contenta, abbracciò Spike ed i suoi cari chiedendo loro perdono per essere scappata e disse che non vedeva l’ora di tornare a casa sua che era il posto più bello dell’universo.

Elena Aprile

31 dicembre 2005La scommessa dei folletti

Un giorno, dei folletti mentre stavano giocando, fecero una scommessa, che era quella di andare nella casa di Babbofolletto e di prendere tutti i regali e portarli nella propria abitazione. Subito loro si misero in viaggio, ma dopo giorni e giorni di cammino, non riuscirono a trovare nulla, ma una notte mentre si stavano riposando in una grotta, passò di lì una renna con sopra Babbofolletto. I folletti udirono il din-din dei campanelli delle renne, e subito la seguirono. Arrivati a casa di Babbofolletto, si nascosero dietro un magnifico albero di Natale e aspettarono che Babbofolletto si andasse a riposare, così loro potevano prendere i regali e portali a casa. Ma mentre stavano per fare questa misera azione, uno di loro, con precisione il folletto Grif, pensò e gridò ad alta voce: «Perché fare questo e rovinare il Natale ai bambini del mondo?» E così dicendo, tutti gli altri si fermarono e si misero a riflettere del gesto che avevano compiuto; uno alla volta rimisero i regali sotto l’albero e sentirono il bisogno di andare a scusarsi di tutto quello che avevano fatto. Arrivati da Babbofolletto, gli raccontarono l’accaduto. Questi li perdonò, e poiché era molto buono, li assunse come folletti aiutanti. Così, da quella sera in poi Babbofolletto riuscì a consegnare i regali più in fretta e a fare contenti molti bambini del mondo.

Vito Malfarà

18 dicembre 2006 I sogni sono desideri.

Silenzio…Tutto intorno a me tace. Mi accarezza un intenso profumo di prati fioriti che invade la mia stretta stanza. Un alito di vento solleva delicatamente le lenzuola che mi avvolgono e tra cui giaccio. Mi sveglia un debole raggio di sole che mi spinge,ancora assonnata,a dirigermi verso la finestra aperta. Mi accompagna una farfalla variopinta, che magicamente sussurra il mio nome. Le rispondo quasi inconsciamente, mentre seguo il cinguettio di un uccello che mi invita a guardare fuori. Meravigliata, vedo solo un’infinita estensione di verde,macchiato da diversi colori, laddove prima si innalzavano numerosi palazzi e grattacieli. Osservando attentamente, riesco a scorgere da lontano un imponente castello medievale appannato dalla nebbia di una fresca alba. Mi precipito a vestirmi,incuriosita da quella dimensione estranea alla mia realtà. Esco di corsa, seguita da quelle dolci creature che allietano il mio spirito. Mi immergo in quell’infinito oceano di fiori e, percorrendolo allegramente, mi ritrovo ad un tratto dinanzi a un ponte levatoio, che si solleva subito dopo il mio passaggio. L’uccellino ricomincia a cinguettare,emanando questa volta una soave melodia, mentre la farfalla mi annuncia di essere arrivata nel luogo dove regna la felicità e dove eterna è la pace. Improvvisamente, i miei vestiti si trasformano in un incantevole abito fiabesco e si avvicina a me uno strano uomo dall’abito rigato e con un cappello colmo di sonagli, da dove cadono note musicali: si inchina e, chiamandomi principessa, mi ammira con tanta devozione. Una folla di persone si accosta intorno a me, guardandomi con occhi gioiosi ed esultanti. Sono stupita,non conosco le ragioni per le quali quelle persone mi lodano così incessantemente,ma ciò mi alletta e lusinga. Chiedo spiegazioni alla farfalla che con un battito d’ali proietta la mia vita fino a quel momento,una vita tesa a diffondere amore e pace, creando atmosfere armoniose e serene nei luoghi e nelle situazioni in cui agivo; e al quadro complessivo della mia vita attuale,la farfalla aggiunge che nella mia vita precedente ero stata l’artefice di quel regno, rendendo eternamente felici e mortali tutte le persone che incrociavano il cammino della mia vita. Ma la gloria di questa realizzazione non poteva limitarsi ad un solo regno. Dovevo rinascere in altri mondi,altre vite,altre realtà. Una bambina dal volto angelico e dai lunghi capelli biondi si rivolge a me,prendendomi la mano,e dice che la mia presenza e le mie azioni per l’umanità sono fondamentali:c’è bisogno di tanti regni,dove domini il bene,in questo mondo saturo di violenza e ingiustizia. La mia vita è segnata da un destino diverso dagli altri,non posso ancora usufruire della pace e della serenità di un regno,perché ne sono l’artefice ed il mio compito è diffondere il bene, senza potermi fermare. Dovrò ancora rinascere in molte altre vite,affinché tutti i regni si fondino in uno solo,dove non esiste il male e dove nessun uomo è escluso dall’essere eternamente felice e immortale. Solo allora si concluderà il mio valoroso compito,vivendo nell’assoluta serenità e godendo delle mie ricompense. Ad un tratto, sento bisbigliare il mio nome,una voce tenue e fioca diventa sempre più chiara e squillante,continua incessantemente,rimbomba sempre più forte nelle mie orecchie. Apro bruscamente gli occhi. È la mamma,che con la calda tazza di latte mi sveglia per andare a scuola. Capisco che è stato tutto un sogno. Ma ad un tratto rivedo la farfalla che, sorridendo, si avvicina e mi dice che i sogni sono desideri ed essa mi resterà sempre accanto, affinché si esaudiscano,perché se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia. Mi rendo conto di essere solo un puntino in questo mondo,che sembrerà insignificante, ma anche le stelle da lontano sembrano piccole….. Verdiana Vartuli

10 febbraio 2007 C’ era una volta

C’ era una volta … una bambina di nome Virginia che abitava in una casa così grande da sembrare un castello. Era formata da ottanta stanze, dodici delle quali tutte per lei. Questa casa aveva una forma cilindrica con all’interno un’enorme scala di marmo che portava a tutte le stanze .Le dodici stanze di Virginia erano arredate con mobili color rosa, pavimenti di marmo bianco con infiniti giocattoli, letti circondati da peluche e bambole, contenitori riempiti di cioccolate e caramelle; insomma stanze che soddisfacevano tutti i desideri di una bambina. Virginia trascorreva il suo tempo giocando in queste stanze e su e giù per quell’immensa scala. Uscendo solo alcune volte per prendere una boccata d’ aria, nel giardino adiacente alla casa, accompagnata dalla sorella,. Purtroppo alcuni anni fa le erano venuti a mancare i genitori a causa di un incidente stradale mentre ritornavano dalle vacanze estive. Da allora si occupò di lei la sorella maggiore non facendole mancare nulla, grazie anche a tutto quello che i genitori avevano lasciato. Virginia era una bambina di otto anni, bellissima, occhi azzurri, riccioli d’ oro che incastonavano un visino d’ angelo e un sorriso con il quale catturava l’ attenzione di tutti. Trascorreva le sue giornate in piena spensieratezza, aiutando, a volte, la sua sorellina a cucinare o meglio, a fare deliziose torte, non pensando alla morte dei genitori, ritenendo che anche senza di loro stesse in ottime condizioni. Un giorno, in piena estate, si affacciò dalla finestra più alta della casa e sentì alcune voci provenire da una piccola e vetusta casa sul lato opposto. Subito si chiese chi potesse esser capace ad abitare in una casa in quelle condizioni e l’unico modo per poter avere una risposta era quello di andare sul posto. Scese tutte le scale, oltrepassò la strada e si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Senza dubitare nemmeno un attimo bussò e le venne ad aprire una bambina che con voce tremante la fece entrare. Mille erano le domande nella mente di Virginia: non sapeva cosa l’avesse portata lì e tanto meno come mai entrò in quel luogo che conosceva appena. La bambina si presentò dicendo di chiamarsi Angelica e di avere anche lei otto anni. Dopo qualche minuto la tensione venne meno, Virginia e Angelica iniziarono a farsi infinite domande fino a quando arrivò una donna molto bella, dal viso dolce e dai movimenti pacati che offrì loro dei cioccolatini:era la mamma di Angelica. La prima domanda che virginia fece alla nuova amica fu di spiegarle come mai erano venute ad abitare il quella casa in tali condizione. Angelica non esitò e le disse subito che il padre aveva perso il lavoro a causa del fallimento dell’azienda in cui lavorava, e quindi non era stato più possibile affrontare le spese che una grande casa richiedeva. Detto questo Virginia si alzò per ritornare da sua sorella e, dopo aver ringraziato la mamma di Angelica per quei deliziosi dolci, invitò la sua nuova amica ad andare qualche giorno a casa sua per poter giocare insieme. La mattina seguente, dopo essersi svegliata, Virginia si affacciò di nuovo alla finestra e vedendo una inconsueta burrasca di vento e acqua, notò Angelica che con sua mamma tentava di tappare i buchi sul tetto per non far entrare l’acqua. Subito scese di nuovo le scale e si precipitò a casa di Angelica per dirle di andare da lei e di non preoccuparsi perché avrebbero potuto stare da lei fin quando il temporale non si sarebbe attenuato. Dopo qualche minuto Virginia si trovava di nuovo nella sua stanza a giocare con le bambole, ma non più sola. Dopo ore ed ore le due bambine si adagiarono sul letto per riposarsi un po’. Dopo qualche istante Virginia chiese ad Angelica: “Ma come fai a vivere nella completa semplicità senza avere nessuna forma di divertimento e in una casa che stenta a non crollare?” Angelica allora la guardò e le disse:” Per essere felici non serve tutto questo, bastano soltanto dei genitori che ti vogliono bene e che ti stiano vicino nel moneto del bisogno” Da quel giorno Virginia non fece altro che pensare ai suoi genitori e ad abbandonare l’ idea che l’ essere ricchi porta la felicità.

Angela Sangeniti

2 maggio 2007 La principessa e la pietra dell’immortalità

C’era una volta in un piccolo regno, una bellissima principessa, di nome Amina. Era però figlia di un re molto malvagio e non passava giorno in cui i due non litigassero. Amina era di animo buono e generoso e spesso si recava nelle periferie delle città o in campagna per fare visita ai più bisognosi, portando loro beni di prima necessità, senza aspettarsi niente in cambio se non un po’ di affetto. Un giorno si trovò a passare davanti alle botteghe degli artigiani e, in una di queste, notò un giovane molto carino, alto e castano. Era il figlio del sarto e si chiamava Paolo. Il giorno dopo, portando a passeggio il suo gatto, che le era stato donato dalla madre, incontrò di nuovo il ragazzo e lo volle seguire, senza accorgersi che si era allontanata molto da casa. I due si erano finalmente conosciuti e subito dentro di loro era nato qualcosa. Amina dovette tornare a casa, era molto tardi e il padre arrabbiato, le vietò di uscire. Amina non prestò ascolto alle parole del padre e all’alba fuggì via dal castello, senza accorgersi che le guardie del re la stavano seguendo. Per la principessa tutto sembrava andare per il verso giusto, perché dopo essersi liberata dal padre, aveva incontrato il suo amato e insieme avevano trascorso una stupenda giornata. Paolo però si ricordò che doveva fare una commissione per il padre, così prese il cavallo e andò via, sulla strada del ritorno ad attenderlo c’erano le guardie del re che lo catturarono e lo portarono in prigione come il re aveva loro ordinato. Alla fanciulla non rimase che ritornare al castello a malincuore. Nei giorni successivi non riuscì più a fuggire. Tanti principi intanto, erano giunti alla corte per chiederla in sposa, ma tutti avevano ricevuto un netto rifiuto, perché Paolo era sempre al centro dei suoi pensieri. Alla fine fu costretta a recarsi presso il regno vicino, dove risiedeva un suo vecchio amico, un principe molto ricco. Naturalmente passò dei giorni infelici, chiusa in una stanza senza voler mangiare, piangendo e disperandosi con il suo gatto per quell’ amore impossibile. Una notte le apparve in sogno la sua povera mamma, morta a causa di una malattia quando lei era ancora una bambina e le raccontò quello che era successo a Paolo. Anche il gatto aveva assistito al sogno e sotto gli occhi increduli e un po’ spaventati di Amina si trasformò in una fatina che le donò un antidoto per cambiare in bene il pessimo carattere del padre. Fatto questo riprese le sembianze di gatto per prestare aiuto alla principessa. Amina ringraziò per l’ospitalità il principe e torno nel suo regno. Arrivò al castello e raggiunse la torre più alta, dove, come preannunciato dalla madre trovò Paolo. Giunse però anche il padre e Paolo allora venne a conoscenza dell’identità di Amina. Quest’ ultima confessò al padre il suo amore per il giovane, pur sapendo che era tutto inutile. Paolo infatti non proveniva da una famiglia ricca e non poteva diventare il suo sposo. Si aprì così una violenta discussione e il padre finì per picchiare e punire la figlia. Venne programmato un matrimonio, ma Amina minacciò di uccidersi piuttosto che sposare qualcuno diverso da Paolo. Di fronte alla possibilità di perdere la figlia emersero nel re i sentimenti di amore paterno. Il re decise di liberare il giovane ragazzo ma a condizione che lasciasse entro poco tempo il regno senza farvi più ritorno. Amina non sapeva più che cosa fare. Decise allora di scrivere una lettera a Paolo, una lettera piena di speranza per il loro futuro insieme. Inviò il gatto a portare la lettera e all’improvviso questi trasformò il giovane in un uccellino, per fare in modo che restasse in città, ma nascosto, finché non si sarebbero calmate le acque. Amina era sempre triste e il padre volle fare un patto con lei, infatti era riuscita a fargli bere l’antidoto e i suoi effetti si cominciavano a vedere. Il re le aveva promesso che avrebbe sposato Paolo se avesse trovato la pietra dell’immortalità, al cui interno c’era una sostanza che rendeva immortale chiunque la ingeriva. Sembrava un’impresa impossibile. Amina si recò nel bosco, sul lago dove era solita andare quando aveva bisogno di pensare. Notò sulla riva del lago una pietra diversa dalle altre per forma e colore e chiamò immediatamente il suo gatto per fargliela vedere. Non poteva immaginare che quella era la pietra che cercava suo padre. Poi si ricordò di aver sentito suo padre che parlava della pietra con un suo consigliere e la descriveva con una forma simile ad una stella e prendeva il colore del suolo dove si trovava. Provò quindi ad appoggiarla tra l’erba e vide che diventava verde, sulla strada e diventava grigia. Piena di felicità tornò dal padre e gli consegnò la pietra. Che la pietra avesse proprietà immortali era solo una leggenda. Infatti quando il re mangiò la sostanza che era al suo interno, non si sentì per niente cambiato e col passare degli anni invecchiava come tutti gli altri uomini. Da quando Paolo era diventato un uccellino era passato tanto tempo e ora aveva ripreso il suo aspetto, il gatto aveva condotto Amina da lui. Finalmente il sogno di stare insieme, dopo tante sofferenze, stava per diventare realtà. Con l’approvazione del buon re i due organizzarono il loro matrimonio. Si sposarono e organizzarono una festa presso il lago dove Amina aveva rinvenuto la pietra invitando tutti i cittadini del regno. Ebbero subito quattro figli e vissero felici e contenti.

Sonia Biasi

8 maggio 2007 Una ragazza e il suo sogno

C’era una volta, in un piccolo paese sperduto della Scandinavia, una bella fanciulla di nome Margaret che adorava ballare, e tutti i pomeriggi trascorreva ore e ore a danzare nella sua camera. Purtroppo la sua famiglia non era molto agiata e perciò non poteva coltivare la sua passione studiando in una vera e propria scuola. Margaret, ogni giorno, tristemente, dopo la scuola, si fermava davanti ad un negozio ad osservare le belle punte, body e tanto più. Ma non potendo permettersi tutto ciò tornava a casa infelice. Un bel giorno di primavera, mentre si trovava nel corridoio della scuola udì un pianoforte suonare. Si fece travolgere dalle belle note e iniziò a danzare. Pliè, shassè, arabesque e via giù di lì. In quello istante passò un ragazzo di nome Cody che, vedendo Margaret ballare rimase incantato. Appena la fanciulla si accorse di essere osservata se ne vergognò molto e corse via. Lui la inseguì e la trovò seduta sotto un albero del parco della scuola. Si sedette accanto a lei, si presentarono e iniziarono a parlare e a conoscersi. I due ragazzi divennero ben presto amici e perciò Margaret un giorno decise di raccontargli la sua passione per la danza e anche la grave condizione economica in cui si trovava la sua famiglia. Cody si accorse che mentre Margaret raccontava gli occhi le brillavano, e così capì che per lei il ballo era veramente importante e decise di aiutarla. Infatti la iscrisse ad una scuola di danza procurandole tutto il necessario. Divenne un’eccellente ballerina chiamata a danzare nei più famosi teatri del mondo. Decise poi di aprire una scuola di danza nel suo paese, nella quale tutti, ricchi e non, sarebbero potuti entrare. Margaret e Cody rimasero ottimi amici e inoltre con l’apertura della scuola di danza, la ragazza poté continuare con la sua passione ma soprattutto riuscì a trasmetterla ai suoi allievi.

Figliano Ilenia

23 maggio 2007 Isadora, la più bella del regno

Viveva una volta, in un regno incantato, una bellissima ragazza dai capelli biondo oro e dagli occhi azzurri, di nome Isadora, figlia di una serva della regina. La regina appena seppe della nascita di Isadora, ma soprattutto della sua bellezza volle subito vederla. Già da piccola la fanciulla era bella e dolce da far innamorare tutte le creature del suo regno. La regina Grannonia non credeva alle voci della gente, ma pensava che la più bella del regno fosse la sua bambina Nella. Appena vide Isadora rimase stupita e divenne nera dalla rabbia e dall’invidia. Per smentire la voce che si era sparsa nel regno, la regina decise di lanciare una sfida fra chi delle due bambine fosse la più bella. Subito Grannonia prese del denaro e lo diede a tutti gli abitanti del regno affinchè dicessero che Nella era la più bella. Giunta la sera della sfida la regina si presentò con un abito fatto di seta e decorato con diamanti. La mamma di Isadora si presentò con un semplice vestito di lino. La regina diede inizio alla sfida. Gli abitanti del regno guardarono entrambe le bambine e rimasero meravigliati della bellezza di Isadora e nonostante la regina li aveva pagati per far vincere sua figlia, votarono per Isadora. La regina innervosita disse che le bambine, erano troppo piccole e che ancora non si capiva chi tra le due fosse la più bella e rinviò la sfida a quando Isadora e Nella avrebbero compiuto sedici anni. Isadora ogni giorno cresceva sempre più bella e intelligente e quando passeggiava si riunivano accanto a lei tutti gli animali del regno e cantavano per lei le melodie più dolci. Nella, invece, passava intere giornate davanti allo specchio e ogni giorno che passava si vedeva sempre più brutta. La regina era disperata, perciò mise Isadora a zappare la terra, a lavare i piatti e a fare i lavori più umili in modo che il lavoro la sciupasse; però ella lavorava con amore e passione e la sua bellezza cresceva sempre più. Isadora per la sfida si stava cucendo un vestito ed era il più bello di tutti i vestiti cuciti nel regno. Arrivò la sera della sfida e Isadora si presentò truccata e ingioiellata. La sfida cominciò e gli abitanti del regno non esitarono un attimo per proclamare vincitrice Isadora. La regina Grannonia, appena sentì pronunciare il nome Isadora, morì. Nella, invece, dalla vergogna si uccise e gli abitanti proclamarono regina Isadora. Ogni giorno a corte ospitava molti giovani che la desideravano come sposa, però tra tutti fu affascinata da un giovane principe. I due si sposarono e vissero felici e contenti circondati dalle bellezze del mondo.

Valentina Curtosi

14 ottobre 2007 Rosagioia e Folco

In un posto molto lontano, c´era una volta un paese di nome Vallegaia. Qui regnava la pace e l´armonia fra gli abitanti e non esisteva nessuna forma di cattiveria. Era abitato da bianchi, neri, gialli e persino da pellerossa.

Questo paese era governato da un re, di nome Antonio, che aveva una bellissima figlia di nome Rosagioia. La principessa era molto triste perché non riusciva a trovare l´uomo della sua vita. Il destino volle che si incontrasse con il principe di Nobilgesta, di nome Folco, e così avvenne. I due si incontrarono e subito si innamorarono, decidendo di sposarsi. Poco dopo arrivò il giorno del matrimonio, ma non andò come i due avevano previsto, infatti, nel bel mezzo della cerimonia, arrivò una strega malvagia, di nome Livida. Questa, covava rancore e odio contro il principe Folco, perché era stata cacciata dalla città per i suoi poteri malefici. Quest´ odio, con il passare del tempo crebbe sempre di più e si trasformò in vendetta contro Rosagioia e Folco. Volle infliggere ai due il dolore peggiore, infatti, trasformò Rosagioia in una rosa nera e Folco in calicanto, il quale sbocciava solo in inverno, quando la rosa nera appassiva. Purtroppo, Rosagioia e Folco non si incontrarono più ma il fratello di lei e la sorella di lui, divenuti il principe e la principessa di Vallegaia, si sposarono ed ebbero tre bellissimi figli, i quali vennero chiamati: Rosa, Gioia e Folco.

Lina Ruffa

28 ottobre 2008 Il rumore del mare

Rumore del mare. Gabbiani bianchi che volano nell’immensità del cielo, il sole che inizia a calare per riposarsi dopo una giornata di duro lavoro, la sabbia che con la luce del tramonto si colora di una totalità meravigliosa. Voltandomi indietro, però, vedo solo malvagità, la cattiveria dell’uomo, razzismo, droga, inquinamento…

Perché il mio mondo è così? Nono voglio soffermarmi a guardarlo poiché sento, nel profondo del mio cuore, solo dolore e ira. Preferisco continuare ad osservare il mare e così comincio a fantasticare e a pormi un’infinità di domande:

Cosa c’è oltre l’orizzonte?…Forse una terra come la mia, sciupata, nella quale sono precipitati e si sono abbattuti gli stessi problemi… oppure un mondo fatato e incantato abitato da folletti e fatine; una terra dove non ci sono uomini e forse neanche i problemi.

Mi siedo su uno scoglio ma il vento si alza e anche il mare calmo viene animato dalle onde. Crash… che rumore bizzarro… cosa sarà mai? Strano… la corrente ha portato con se una bottiglia che si è abbattuta contro il mio scoglio. Si intravede all’interno un foglio arrotolato; che bello! Cosa sarà? Una mappa… ma su questa mappa è disegnata un’isola che non c’è sul mio libro di geografia. La mia fantasia mi porta nuovamente a pensare ad un mondo fatato: forse quest’isola è ciò che si trova al di là dell’orizzonte! E magari è abitata da folletti che giocano, ridono…

Ring…” Pronto, mamma cosa c’è?” e lei “E’ tardi, devi tornare a casa”. Allora il mio sogno è interrotto e ritorno nel mio mondo, il mio malvagio mondo. Il sole è andato a riposare e anche io, dopo aver cenato, mi corico sul mio letto.

Ad un tratto una voce:

“Ilenia, sono una fatina.”

“Cosa?” la guardo con stupore, paura ma soprattutto felicità, “Sei una fata?? Allora esistono veramente quelle creature che pensavo fossero frutto della mia immaginazione?!”.

“Certo; però non farmi troppe domande. Non posso rimanere a lungo nel tuo mondo”.

“Perché?” le chiedo incuriosita.

“Perché il tuo mondo è spietato e crudele e io potrei rischiare di diventare come gli uomini. Sarebbe una tragedia perché non sarei più capace di fare ritorno sulla mia isola!”.

“La tua isola? Quale isola?”

“Ho sentito dal mio mondo il tuo richiamo. So cosa c’è oltre l’orizzonte. Io vengo proprio da là”.

“Veramente??” la guarda meravigliata.

“Si, proprio così. Ho chiesto alle mie amiche onde e al dio del vento di portare fino a te quella bottiglia, all’interno della quale hai trovato la mappa del mio mondo”.

“Bello….mi porti con te? Ti prego; voglio fuggire dalla cattiveria dell’uomo. Portami con te…”

“Non mi supplicare così; non potrei condurre un umano nel mio mondo. Così c’è il rischio di perdere i valori anche nella mia terra…”

“Ti prego” continuo ad insistere e ad implorarla.

“Va bene. Afferra la mia mano, chiudi gli occhi e non li aprire fin quando non te lo dico io”.

L’attesa più lunga della mia vita; è così tanta l’eccitazione che non riesco neanche a respirare…

“Ecco…puoi aprire gli occhi; cosa te ne pare della mia isola?”

Senza parole. Rimango senza respiro incantata da tutto ciò che si presenta davanti ai miei occhi. Non è una terra come la mia. È un’isola piccolissima quasi come se si possa tenere nel palmo della mia mano.

C’è solo una cascata e tutti i folletti e le fate ridono e giocano nell’acqua.

Guardo la fatina. ” E’ bella la tua terra ma non ci sono edifici, negozi e altro… C’è solo questa cascata? Come fate a vivere in un posto così?”

“A noi basta solo la nostra cascata. Con l’acqua noi giochiamo e non sai quanto è bello schizzarsi tra amici”.

“Ma il tuo mondo è molto più piccolo del mio; come fate a vivere tutti in questa semplice cascata?? Come fate a non avere gli stessi problemi che ci sono nella mia terra?” Continuo a fare le stesse domande perché non riesco a darmi una risposta.

“Noi siamo contenti così; proprio perché dobbiamo stare tutti nella stessa cascata, abbiamo capito che dobbiamo aiutarci a vicenda, senza farci guerra come fate voi umani”.

“Hai ragione. E’ questo il segreto”.

“Si, proprio così”  risponde la fatina.

“Ti prego… posso rimanere con te? Mi salvi dal mio mondo e dagli uomini?” e così aspetto una risposta, mentre la fatina mi guarda dubbiosa e perplessa.

Drin…drin…drin… La mia sveglia?!? Quindi, stavo dormendo? Era tutto solo un sogno?! Forse è vero; avevo ragione…Un mondo senza problemi non esiste…Oppure si?!… Lo spero…

Ilenia Viola

11 novembre 2008 Erik e la giovane volpe

Era una limpida mattina d’estate, quando tutto ebbe inizio. Erik era un giovane ragazzo di dodici anni, con i capelli castani e gli occhi azzurri, non molto alto per la sua età: aveva una instancabile energia e una grande voglia di mettersi in evidenza, cosa che gli riusciva difficile, dato che era il terzo di quattro figli e per il fatto che la madre gli era venuta a mancare al momento del parto del suo fratellino. Ma, oltre a questo, il padre, un idolo per Erik non lo capiva, lo giudicava negativamente e non lo incoraggiava mai. In questo clima assai ostile e difficile il giovane, un po’ per caso, un po’ per necessità, progetta l’esplorazione del bosco adiacente a casa sua. Bisogna precisare il fatto che non vi era mai andato, perché gli era stato vietato dal padre; ma qualcosa ora lo stimolava e lo incoraggiava. Così si avventurò in quel luogo da sempre sognato. Dentro la selva scoprì tante meraviglie, non equiparabili però allo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi, una volta oltrepassata un’enorme quercia: si trattava di una piccola cascata, che si gettava a strapiombo su un incantevole laghetto, circondato da un’enorme quantità di vegetazione: fiori rossi e cespugli stracolmi di mirtilli e more, alberi d’arance, che inebriavano l’aria con il dolce profumo dei propri fiori. Erik rimase sbalordito e attonito, ammirando quel bellissimo panorama, quasi irreale. Ma questo momento di pace interiore non durò a lungo; infatti, ad un tratto, mentre il giovane era ancora immerso nei suoi pensieri, un serpente dall’aria minacciosa si avventò silenziosamente su quella strana creatura che aveva invaso il suo territorio. Erik fu colto di sorpresa e si spaventò a tal punto da scivolare e battere violentemente la testa contro un tronco. L’unica immagine sfocata che riuscì a vedere prima di svenire fu quella di un’ombra molto agile e scattante, che aggrediva il proprio assalitore. Al suo risveglio, il giovane si trovò davanti una volpe dal manto rosso con un lungo e folto pelo che, al solo sguardo, gli infondeva uno strano senso di sicurezza. Più tardi, dopo che il mal di testa si fu placato, riuscì a ricostruire la dinamica dei fatti, scoprendo che la giovane volpe lo aveva salvato. Fin da subito nacque un forte legame tra i due, tanto che ogni giorno Erik, nel momento in cui si sentiva trascurato dalla famiglia, si rifugiava in quel luogo straordinario, abitato da strane creature che non aveva mai visto e nel quale credeva che l’uomo non potesse entrare. Ma Erik con il passare del tempo crebbe e ben presto diventò un uomo, con i suoi ideali e i suoi obiettivi da raggiungere, tanto che cominciò a trascurare quel mondo fantastico, al quale si poteva accedere solo dalla cascata, e anche la sua oramai vecchia amica, che a poco a poco si avvicinava alla fine dei suoi giorni. Con la morte della volpe scompariva anche il rifugio di Erik, quel luogo che lo aveva aiutato a crescere e si trasformava in un mondo pieno di problemi e di responsabilità, quale è il mondo in cui vivono gli adulti e al quale, prima o poi, tutti arrivano.

Agostino Alberto Arena

Un soffio di Poesia

 

Vecchio e solo

Capelli bianchi viso rugoso corpo stanco

trascinato su di una schiena ricurva e gambe doloranti.

Aiutato da mani esperte ma, ahimè,

estranee in una stanza sconosciuta

di un palazzo mai desiderato.

Occhi lucidi al pensiero di quel dono d’amore

che un giorno lo rese padre.

Il bastone unico compagno delle sue passeggiate

il ricordo unico amico ancora presente.

Il tempo passa lentamente

ma trepidante aspetta quel bacio

che in un giorno di festa forse

solo per lui la sua nipotina gli darà.

Maria La Bella

L’ignoto

Nelle fredde giornate invernali

scorgo l’ignoto nel solitario mare

che mi strazia l’anima quieta

col suo solitario canto così malinconico e lento,

mi rende nudo al soffio leggiadro del vento

che mi porta via con se verso quell’ignoto infinito

che bramo e che temo che amo e che odio

ma che profondamente sento

Umberto De Leo

A tutte le mamme

Sei come la luce nel buio: Inconfondibile!

Sei come un sorriso ad un bambino che soffre: Indimenticabile!

Sei come una stella che nasce e che non muore: Unica!

Sei come tutto ciò che piace: Bellissima!

Sei come sei: Indescrivibile!

Ti voglio tanto bene: Mamma!

Piero Scarmozzino
La saggezza dell’uomo

Vento, tu che con la tua furia spazzi tutto,

spazza via la povertà che regna sovrana su questa terra.

Acqua, tu che con la tua freschezza disseti,

disseta chi ha sete di giustizia.

Fuoco, tu che con il tuo calore riscaldi,

riscalda i cuori di chi non ha mai provato amore.

Luce, tu che illumini le nostre giornate,

illumina le nostre menti annebbiate dall’odio.

Uomo, tu che con la tua saggezza riesci a distinguere il bene dal male,

guarisci il tuo animo dal morbo del razzismo.

Veronica Ceravolo


L’attimo

Vivi attimo per attimo
non stancarti mai di dirlo.
Vivi alla giornata
in modo tale che l’oggi sia meglio di ieri.
Vivi per un sogno
fai di tutto per realizzarlo.
Vivi per la vita.
Vivi per te stesso.
Sogna e fai del sogno una realtà,
una ragione per cui vivere ancora.

Ilenia La Grotteria

A Natuzza Evolo

E’ in quegli occhi afflitti

che accogliesti la Vergine,

nel sussulto che ancora oggi

di te fa parlare, Natuzza,

spoglia d’agi e di mezzi,

tutta pura.

Non t’era greve il sangue,

o Soglia aperta al Cristo,

per i chiodi e il divin Legno

sulle membra fiacche

e d’acerba vecchiezza.

Ed in quei cenni sobri

agreste eletta madre

anch’io vedo la Luce

che balena nel tuo seno.

Beata. Donna. Amica.

Sei morta agli occhi

che Iddio chiude al Cielo,

ma la pace ormai ti colma

e nel sonno ci guardi, Santa.

Luigi Tuccillo

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Ciao ragazzi! Alla fine di questo lungo ma piacevole cammino, auguro a tutti voi di realizzare i vostri sogni. Siate sempre voi stessi e non vi stancate mai di lottare per ciò in cui credete veramente.   

Non vi abbattete mai di fronte alle difficoltà della vita, che non mancheranno mai. Vi lascio con questo mio convincimento: quando le nuvole oscurano i nostri giorni, non dimentichiamo che sopra di esse c’è sempre il sole e, prima o poi, ritornerà a splendere nelle nostre vite. Ad maiora, semper!

Prof.ssa Vittoria Saccà

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