Tag Archives: contro la violenza alle donne

25 novembre – Mi chiamo Luana, ma anche Anna, Giulia …

 25 Novembre – Giornata Internazionale contro la violenza alle donne 

Racconto

Mi chiamo Luana, ma anche Anna, Giulia …

Conoscevo quel paese, anche se solo per nome. Non c’ero mai stata, però. Attraversavo le stradine con la mia elefantino rossa, oramai conosciuta da tutti come l’auto della giornalista. Guardavo in giro alla ricerca del monumento ai caduti posto al lato di un crocevia e della casa con un cancello rosso e un giardino con un pino, che era quella che mi interessava. La trovai quasi subito. Parcheggiai e scesi speranzosa che quella signora non si fosse già pentita d’aver accettato d’incontrarmi. Suonai al campanello. Dal portone uscì una signora sulla cinquantina, sorridente, ben curata, anche un po’ agghindata. Ho capito che mi stava aspettando. Venne al cancello, lo aprì e mi accolse con infinito garbo. Non sono il tipo che mi guardo in giro con curiosità, sorvolo su tutto. Ma notai ugualmente che la casa era ordinata e profumata. Mi fece accomodare in salotto.

<<Posso offrirle qualcosa?>>

<<Grazie, no. Magari dopo>>.

Quel dopo stava a significare che prima di ogni cosa volevo ascoltare cosa aveva da dirmi. Cercammo entrambe di fare, seppur sommariamente, reciproca conoscenza. Le dissi di me, che ero sposata e avevo dei figli.

<<Anch’io ne ho due>> e prese a dirmi dov’erano, cosa facevano, come si chiamavano. Tra un dire e un altro, cominciammo a darci del tu, e poi si arrivò al dunque.

<<Intanto ti ringrazio per aver accettato di raccontarmi la tua esperienza. Tra un po’ sarà il 25 novembre e come tu sai, si celebra la giornata internazionale contro la violenza alle donne. Ho saputo che ce l’hai fatta ad uscire dall’inferno in cui ti eri trovata. Vorrei un po’ ascoltare la tua esperienza>>.

Prese a raccontarmi tante cose, a volte con le lacrime agli occhi perché si riaprivano le ferite. E su certi avvenimenti mi pregava di non parlarne, di tenerlo per me e di non scriverlo mai da nessuna parte. Provai per lei tanta tenerezza. Capii che voleva restare nell’ombra. La sua storia sì, la sua identità no.

<<Ascolta – le dissi – scegliti un nome che ti piace, diverso dal tuo, e racconta di nuovo, dici solo quelle cose che tu vuoi che io scriva>>.

Annuì, pensò un attimo e cominciò.

<<Il mio nome è Luana. Un nome bello,  ma l’uomo che avevo sposato non lo pronunciava quasi mai. Lo  sostituiva con parole tremende che non oso ripetere.

Sono nata e crescita in un paese del vibonese. Quasi vicina a voi. Racconto la mia storia nella speranza che possa servire a qualcuno.

All’età di quindici anni mi sono innamorata di lui. Erano giorni belli, ma ogni tanto mi arrivava qualche schiaffo e non capivo il perché. Ero troppo innamorata e sopportavo tutto, bastava una semplice carezza e dimenticavo.

A vent’anni l’ho sposato.

E fu come l’entrata all’inferno. Già dal giorno del matrimonio lui cambiò volto, fu come se si fosse trasformato nel mio carceriere. Quella fede al dito fu la mia palla al piede. Il viaggio di nozze durò solo due giorni. Poi segregata in casa. Niente più i miei parenti, niente amici, niente passeggiate. Solo con lui e per lui. Il mondo fuori dalle quattro mura di casa dovevo cancellarlo dai miei pensieri. E botte.

Ogni scusa era buona per riempirmi di schiaffi e pugni. Soprattutto la sera quando rientrava dal lavoro. Cercavo di fare sempre del mio meglio per accontentarlo, per non irritarlo, per non scatenare la sua furia.

Nascondevo a tutti la verità, persino a mia madre. Agli altri ancor di più. Avevo paura che non mi credessero, o magari che qualcuno pensasse che, tutto sommato, quelle botte me le meritavo. Perché ero un’incapace, una stupida, una nullità.

Arrivò il primo figlio. Per me fu la speranza di una vita nuova e diversa, senza botte, senza umiliazioni. Ma non fu così. Lui non cambiò affatto. Allungava le sue mani su di me solo per schiaffeggiarmi.

Il secondo bambino, poi, non lo voleva. Mi disse che dovevo abortire, che quel secondo figlio era una maledizione, che era colpa mia perché non avevo fatto attenzione.

Ma io non volevo abortire.

Un figlio è un figlio. E la vita deve essere amata sempre e comunque.

Cominciò a guardarmi ancora peggio e mi imponeva di fare lavori pesanti per farmi stancare e per provocare un aborto. Fu un’estate tremenda, quella. Ma Dio è grande e mi ha sempre protetta. Sono andata a partorire da sola all’ospedale.

Non so chi mi ha dato la forza, ma ce l’ho fatta a dare la vita al mio secondo bambino.

In casa nulla era cambiato. Ero sempre la sua piccola schiava senza diritto di parlare, né di pensare, né di desiderare qualcosa. Solo botte.

Volevo scappare via. Ma c’erano i due bambini che intanto crescevano e volevo che avessero una famiglia.

Ma proprio in quella famiglia, osservavano increduli spettacoli indecenti quando mi afferrava per i capelli senza motivi veri, e mi schiaffeggiava.

Ai miei pochi amici dicevo spesso che ero caduta dalle scale.

Oh! quante volte, per loro, sono caduta dalle scale!

Giustificavo così i miei lividi sul viso.

Quelli sulle braccia non li facevo vedere affatto. Perché anche in estate “avevo freddo” e portavo camicette con le maniche lunghe.

Avevo freddo, sì.

Ma il mio era il freddo del cuore e dell’anima per una vita che sapeva d’inferno!

Con un pugno, un giorno, rischiai persino lo sfondamento del cranio. Ma mi andò bene.

E poi, una sera, lui superò se stesso. Mi afferrò per i capelli, mi prese a schiaffi, a pugni, a calci. Mi trascinò per tutta la casa come fossi uno zerbino continuando a pestarmi. Mi prese anche per la gola pronto a togliermi il respiro. Vidi la morte in faccia.

Quella sera finii all’ospedale.

E lì giunsero pure i carabinieri che vollero sapere il perché del mio stato.

La solita scusa di caduta dalle scale stavolta non resse e arrestarono mio marito.

Al pronto soccorso fui accolta dalla dottoressa Rosaria Chessari. Mi curò con pazienza e amore. E fu lei ad aprirmi il primo spiraglio di luce.

Quando mi dimise dall’ospedale, mi diede appuntamento nel suo studio dove mi fece incontrare una psicologa.

Poi mi parlò del centro antiviolenza di Attivamente Coinvolte che c’è in questa città e dove lei presta la sua opera di volontariato. Mi convinse a frequentarlo.

Cominciai ad andare di nascosto, perché nessuno lo scoprisse.

Pian piano si allontanarono tutte le nuvole malefiche che avevano avvolto la mia vita e cominciò a spuntare il sole.

Trovai la forza per denunciare al mondo le cattiverie che l’uomo che avevo sposato mi aveva inflitto senza risparmio, giorno dopo giorno.

E fu come se fossi rinata al mondo.

Sono passati cinque anni da allora e la mia vita è tutta un’altra cosa. Sono un’altra persona, serena e gioiosa, insieme ai miei due figli.

Quando guardo al passato, mi rivedo come prigioniera dentro una bolla di nero fumo. Come un automa, senza anima, svuotata di tutto.

Quella non era vita, perché la vita è tutta un’altra cosa. E’ gioia, sorrisi, affetti.

So che in questa nostra terra ci sono tante donne che vivono dentro quella bolla di fumo nero, all’interno delle loro mura domestiche. A loro vorrei giungesse il mio appello: rompete quel muro perché fuori c’è il sole pronto a sciogliere il gelo dell’anima che gli uomini vi regalano senza pietà. Lasciate quelle case d’inferno. La vita è solo una e tutti abbiamo il diritto di viverla in serenità. >>

Terminò il suo racconto e si asciugò una lacrima. La guardavo con strano sentimento, soffrivo per quel che mi aveva raccontato, gioivo per la sua nuova vita. La ringraziai per aver voluto mettere a nudo la sua anima a me, ad una che fino a qualche ora fa ero una sconosciuta. Mi accompagnò al cancello e rimase lì fino a quando non sparii dalla sua vista.

Il suo nome non è Luana, ma avrebbe potuto essere Anna, o Giulia, o uno di quei 130 nomi o più di donne che sono state uccise del proprio compagno. La sua è una storia vera, successa in un paese del vibonese, in Calabria.

Vittoria Saccà