Archivio Giornaliero: 27 Gennaio 2015

Budimir e l’Armata Rossa

WP_20141230_14_03_42_Pro (1)Racconto tratto da  “Parole nel comò”,  pag. 165

di Vittoria Saccà

 Era spuntata l’alba del 27 gennaio. La marcia verso il paesino di Auschwitz era stata estenuante, soprattutto per il freddo gelido. E l’Armata Rossa, alle prime luci, riprese il suo cammino per entrare nel campo misterioso dove era stato inviato. La gente di  Auschwitz, fuori, non voleva farne parola, si stringeva nelle spalle. Cosa mai c’era oltre quei fili spinati, in quel campo di prigionia che i nazisti avevano allestito!

“Ah, la guerra! È sempre portatrice di morte e di desolazione”, pensò il soldato Budimir mentre con la sua Armata Rossa varcava il cancello con quella scritta che inneggiava al lavoro che nobilita l’uomo.

Ma ciò che poi tutti scoprirono da lì a poco, fu peggio di ogni cosa immaginata.

Esseri umani scheletriti, a fatica si affacciarono dalle fredde baracche dove stavano ammassati più o meno come bestie. Vestiti con divise a righe, sbrindellate e consunte, per non dire seminudi, alzarono gli occhi spenti al cielo nella speranza che forse era giunta la loro salvezza.

L’Armata Rossa iniziò a guardare intorno per scoprire una realtà che fu per anni inenarrabile. Scoprire e inorridire. Poi a piangere lacrime calde con le quali, forse, si voleva riscaldare il gelo, il tanto gelo che per lungo tempo aveva attanagliato fratelli come loro.

Ebrei di ogni età, e tanta altra gente invisa ai nazisti, attraversò quei cancelli per non venirne più fuori.

Il soldato, che aveva il cuore buono come tutti gli altri, si sentì il sangue gelare quando si affacciò ai forni.

“A che servivano?” si chiese e la risposta fu amara come il fiele e crudele come l’affondo di una spada nel cuore.

Docce! Erano le docce! Ma che spazzavano via ogni soffio di vita!

Budimir entrò poi in tutte le baracche, osservandole ad una ad una. Fredde, umide, sporche. Letti accastellati, con misere coperte che avrebbero dovuto riparare dal gelido freddo. E poi scoprì montagne di vestiti, montagne di occhiali, montagne di capelli, montagne di oggetti di vario genere, montagne di scarpe. E tra queste, anche le più piccoline.

“Bambini! Hanno osato far male persino ai bambini!” pensò inorridendo ancora di più.

Ne raccolse una e la girò tra le sue mani osservandola da ogni angolo. Quella scarpetta rossa, con il bottoncino di lato, gli parlò di una bimba. La vide nel suo immaginario. Bionda, capelli lunghi e ondulati, un fiocco rosso legato ad un ciuffo che cascava di lato, carnagione bianca, sorridente e serena. La vide anche con un bel vestitino rosa.  E sentì la sua voce. Prima sorridere e cantare, poi chiamare mamma e papà, poi piangere e singhiozzare!

“Povera piccola! Se solo potessi …”.

E non riuscì a frenare le sue lacrime che continuarono a scendere calde sulle guance.

Con quella scarpetta in mano uscì dalla baracca.

Incrociò gli sguardi dei suoi compagni che, come lui, scoprivano quelle stesse tremende verità. Erano sguardi attoniti. E non era meraviglia! Ma Orrore. Orrore raccontato da quel che i nazisti avevano lasciato fuggendo via al loro arrivo.

Il soldato Budimir adesso capiva.

Cadde a terra, in ginocchio. Alzò la scarpetta al cielo e urlò:

«Piccola! Perdona, se puoi! Tutti quanti voi, lassù, abbiate pietà dell’essere umano senza cuore né anima!»  

Si girò verso il grande cancello oramai divelto, e sospirò:

«Che Dio perdoni l’uomo!»

Poi urlò: «Mai più. Mai più».

 ____________________________

Non dimentichiamo!